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consecutio temporum

Un parricidio compiuto. Il confronto finale tra Marx e Freud

Roberto Finelli

In considerazione dei temi e delle sezioni presenti nella rivista, la redazione inserisce nella sezione marxiana l’Introduzione e l’indice del volume di Roberto Finelli, appena pubblicato presso la casa editrice Jaca Book, dal titolo Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel. Pur non rientrando tale inserimento nel piano organico originariamente concepito e realizzato dai curatori del presente numero, non lo si è ritenuto inopportuno e incongruo rispetto alla tematica e alla ispirazione complessiva di «Consecutio temporum».

1293647267 images freud  marxIntroduzione: dal bisogno al riconoscimento

1.   I movimenti della nostra giovinezza, degli anni sessanta e settanta del secolo scorso, a me che sono stato partecipe di quella stagione, appare che abbiano espresso, nelle loro avanguardie piùminoritarie e raffinate, una rivoluzione culturale che si può sintetizzare nel motto, “da un’antropologia della penuria a un’antropologia del riconoscimento”.

La generazione nata nel dopoguerra, e che giungeva nel mezzo degli anni ’60 all’Università, infatti poneva fine, con un accesso di massa alla cultura superiore, ad un’autorappresentazione tradizionale dei ceti subalterni, consegnata al predominio, sul piano del desiderio, ancora della sola bisognosità materiale e all’unico valore dell’eguaglianza, quale criterio etico-politico privilegiato per il soddisfacimento di tale obbligatorietà. Nel tentativo, a muovere dai primi movimenti studenteschi del febbraio del ’68, d’inaugurare un nuovo modello d’umanità possibile, che – al di là, ma non senza l’eguaglianza – rivendicasse, attraverso la celebrazione dell’antiautoritarismo, l’orizzonte ulteriore dell’opportunità, per ciascuno, d’individuarsi e di realizzare nel modo più personale il proprio sé.

Tale allargamento, o, per dir meglio, tale trans-valutazione di valori, costituiva un rivolgimento culturale radicale, perché significava una critica dell’autoritarismo e dell’elitismo che ancora pesantemente caratterizzava gli istituti civili e politici della rinnovata democrazia postbellica, ma, anche e nello stesso tempo, una rottura e un’evasione, per quel che qui maggiormente c’interessa trattare, dalla tradizione della cultura, e dell’antropologia, comunista.

Il concepimento del diritto politico ed esistenziale di accedere da parte di ognuno, coll’esposizione al minor grado possibile di repressione, alla realizzazione di un progetto di vita in cui poter esprimere il valore e la peculiarità del proprio sé, irripetibile e non-eguagliabile a quello degli altri, si poneva infatti come la conquista di un’umanità, finalmente uscita dalle guerre e dalla penuria, e valida perciò a tentare la definizione di un’identità, oltre la riproduzione della mera vita biologica, fortemente individuata e sovramateriale.

Era il valore dell’antiautoritarismo che la parte più colta, più aperta cosmopoliticamente, dell’ultima generazione universitaria, spesso con già una qualche esperienza politica, proponeva come criterio e provocazione di nuove forme di vita agli altri studenti, ormai fattisi massa, e, al di là di essi, all’intero universo sociale, soprattutto giovanile. E quel valore, per la forza della sua originalità e, insieme, della sua capacità di tradurre in forma cosciente un bisogno inconsaputo ma pronto ad accendersi, non poteva che diffondersi, oltre l’Università, all’intero corpo sociale. In primo luogo al mondo del lavoro, come accade ben presto nel passaggio dal ’68 universitario al ’69 operaio, dove, sotto la spinta delle fasce più giovanili della composizione operaia, si misero in discussione, con un grado di conflittualità che durò almeno per un decennio, gerarchie e modalità del comando, quantità e qualità del lavoro, condizioni ambientali interne del mondo del lavoro, fino al governo più ampio del territorio. Per estendersi dal mondo delle fabbriche ai lavoratori dei servizi e all’intero corpo sociale, in un processo di democratizzazione e di gestione orizzontale del potere, che durante gli anni ‘70 investì pressocchè tutti gli apparati pubblici come scuole, manicomi, ospedali, istituti pubblici e ministeri: fino a fecondare quell’altra rivoluzione culturale che è stato a partire dagli anni ’70 il femminismo e la trasformazione del sapere di sé di moltissime donne. Del resto tale era, nella sua asprezza, la contraddizione tra le anguste strutture, sia sul piano degli spazi e delle strutture fisiche che delle pratiche di relazione gerarchiche, della vecchia università liberal-fascista e la massa della nuova generazione studentesca che non poteva nascere, altrimenti che nel mondo universitario, la coscienza e la necessità di una critica di forme di relazione arcaiche e inadeguate. Le quali, anche quando non si mostravano esplicitamente autoritarie, erano sempre comunque di segno elitario e paternalistico: perfino quelle che includevano la docenza cosiddetta di sinistra, neanch’essa sufficientemente avvertita della profondità della trasformazione e della massificazione in atto.

Quel valore, dell’antiautoritarismo e di una più libera, e meno materialistica, liberazione del Sé divenne così nel volgere di pochi anni, per estensione e intensità di diffusione, un principio radicalmente antisistemico, a cui l’insieme delle classi dominanti, comprendendo in esse anche il ceto politico-burocratico della Sinistra storica, non poteva che reagire con violenta negazione e repressione. Valgano a proposito di quest’ultimo le parole lucide di Franco Fortini: «[…] nel periodo che va dal ’63 al ’73 si erano determinate nel nostro paese le condizioni perché una gran parte degli italiani politicamente attivi uscisse dai termini politici stabiliti dalle organizzazioni sindacali e politiche della sinistra storica, dominanti già nel ventennio [dal dopoguerra agli anni60 (ndA)]. La classe politica dominante, quindi anche buona parte della sinistra storica, ha combattuto quella realtà con tutti i mezzi, legali ed illegali; dal terrorismo di stato allo sfruttamento di quello di altra origine, dalla provocazione ai normali metodi politici»[1]. La violenza di quella repressione e di quel rifiuto furono tali da bloccare, nel verso di una più profonda maturazione, quella generale transvalutazione dei valori e, soprattutto, furono tali da impedire che all’interno dei nuovi movimenti di emancipazione il nuovo valore dell’autorealizzazione potesse dialogare e mediarsi fecondamente con l’antico valore dell’eguaglianza e della socialità: che il nuovo cioè dialogasse con l’antico, alla ricerca di una Aufhebung, di un superamento, del comunismo otto-novecentesco mediato dall’irrinunciabilità dell’individuazione.

Così, di fronte al terrorismo armato di Stato e dei servizi da un lato e al terrorismo politico-culturale della Sinistra storica dall’altro, il movimento del 68-69 perse rapidamente la bussola più feconda ed originale del suo cammino inaugurale. Solo pochi, pochissimi, continuarono su quel percorso, aspro e difficile, di mediazione. Mentre la maggioranza, soprattutto dei movimenti studenteschi, fu ben presto riconsegnata alla sue debolezze, ai suoi estremismi infantili, al suo facile riproporre quell’antico, che pure si voleva aborrire e combattere. Nacquero così i gruppi della Nuova Sinistra, che, malgrado la trasformazione generale del vivere e del sentire di quegli anni, malgrado le esperienze di vita comunitaria e l’emancipazione sessuale, cedettero da subito a forme d’organizzazione che, a parole d’avanguardia, ricalcavano invece quell’assenza di partecipazione individualizzata e quel prevalere del collettivo sul singolo, che se avevano costituito il punto di forza dei partiti e dei sindacati istituiti sulla rivendicazione egualitaria dei diritti di penuria, ne avevano costituito nello stesso tempo il limite più esiziale, quanto a prassi emancipativa.

E non a caso perciò leaderismo, obbligo di uno scegliere gruppale e compatto, timore del differenziarsi, militarismo organizzativo hanno caratterizzato la storia dei movimenti di origine studentesca di quegli anni, facendosi cause di fondo del loro più o meno rapido involgersi e deperire. Ma soprattutto principio costitutivo dei gruppi della Nuova Sinistra fu, come altro volto della necessità di portare la verità rivoluzionaria ai ceti popolari, l’abbandono, con la fuoriuscita dallo specifico universitario, di ogni ricercare, sul piano dell’originalità teorica come della sperimentazione concreta, di quella possibile mediazione tra valori di cui si diceva sopra. La rinuncia cioè di ogni elaborazione della propria identità e pratica specifica di vita – di operatori e trasmettitori culturali, o dirigenti delle professioni, in formazione – e l’obbligo di una radicale diversione dalla formazione del alla formazione dell’Altro da Sé.

 

2.   La conseguenza è stata che il prezzo pagato del dilatarsi positivo del valore dell’autodeterminazione a pressoché l’intero corpo sociale, a partire dal biennio 68-69, fu poi, in realtà, l’incapacità di promuovere e agire una mediazione significativa tra le culture antagonistiche del ‘900, con l’effetto di generare un nesso, all’inizio fecondo, ma poi in effetti solo rigido e dogmatico di contrapposizione. Così carattere costitutivo della nuova cultura dell’emancipazione non poteva che essere il rifiuto di tutte le categorie teoriche fondamentali che avevano configurato il marxismo novecentesco, quali quelle in primis di dialettica e di totalità, di storicismo e di materialismo storico, di struttura e sovrastruttura, di teoria del valore-lavoro e di feticismo.

Non solo dunque, come pure era opportuno e inevitabile, con la cultura dell’umanismo e del continuismo storicistico che aveva costituito l’anima perdente del togliattismo, con la sua incapacità strutturale di comprendere i meccanismi del capitalismo moderno e di proporre un’egemonia politico-culturale adeguata alla contemporaneità. Ma anche, e questo va fortemente sottolineato, quanto dello stesso pensiero di Marx e della sua teoria del Capitale rimandasse alla tradizione e alla sistematicità del pensiero dialettico. Giacché l’attualità di Marx poteva riaffermarsi, sembrò all’opinione dei molti, solo tagliando i ponti con quella dialettica dell’idealismo tedesco, di Hegel in primo luogo, nella cui cornice il comunismo storico l’aveva pensato e legittimato.

Non che in questa rimozione della dialettica non ci fossero ragioni da vendere. Basti pensare a quella scolastica della contraddizione con cui il marxismo sovietico aveva composto il canone da diffondere nel comunismo internazionale, secondo la semplificazione iconografica di un materialismo che s’intensificherebbe nella continuità lineare di Hegel, Feuerbach, Marx. Logoro e vieto marxismo(-leninismo) della contraddizione, in cui, va ricordato, non a caso, una parte degli stessi movimenti di ribellione continuò a riconoscersi, per dogmatismo e semplicismo teorico.

Ma sta il fatto che per i più, nell’urgenza anche di quei giorni fatti di riunioni, assemblee, cortei, militanza politica e sociale, non era più possibile confrontarsi con la difficoltà e la complessità della tradizione tedesca. Se si doveva continuare ad usare Marx, questo doveva essere condito con un’altra salsa. E a questo valse l’interpretazione di Louis Althusser, che spostava la base del marxismo dalla storicismo hegeliano allo strutturalismo: ossia, con un ribaltamento radicale, dalla scienza della storia alla scienza del linguaggio. Così buona parte dell’intellettualità si fece althusseriana e poi, attraverso quel varco, esposta ed aperta a tutta la cultura francese del desiderio, della differenza e dei rizomi, della microfisica del potere.

Certo non è da sottovalutare la presenza dei temi della Scuola di Francoforte, quanto a persistenza della tradizione critica tedesca: anche se con riferimenti molto più diffusi a Marcuse e a Fromm che non ad Adorno e Benjamin. Ma l’influenza ideale determinante fu della cultura francese: Althusser, Lacan, Deleuze, Foucault. Attraverso i quali ci si poteva finalmente affrancare dal confronto con la dialettica ed impadronirsi di strumenti teorici assai meno, almeno a parere di chi scrive, controllati e rigorosi.

Per dire insomma che il volgersi dalla Germania alla Francia, come luoghi di diverso riferimento culturale e di una costellazione alternativa di valori, ha costituito il passaggio determinante nell’ispirazione di fondo dei nuovi movimenti. Forse anche per quanto di trasgressivo, innovativo e rivoluzionario, un certo immaginario ha da sempre legato alla Francia, quale scena originaria, con la Rivoluzione francese, della rivoluzione per antonomasia della modernità. Ma, per quello che qui interessa dire, l’essenziale era abbandonare la dialettica, ossia il contenitore teorico del comunismo e del marxismo dell’800 e della prima metà del 900, e riferirsi a nuove contenitori ideali delle istanze di emancipazione e trasformazione sociale. E la cultura francese s’apprestava benissimo alla bisogna, per la perseveranza antigermanica della sua tradizione, per la rifondazione del marxismo, operata da Althusser, in una scienza nuova come lo strutturalismo linguistico, per l’abisso introdotto da Jacques Lacan tra bisogno e desiderio e la lettura metafisica e antimaterialistica dell’opera di Freud che ne conseguiva, per la moltiplicazione rizomatica del desiderio teorizzata da Deleuze e Guattari, per la rottura della categoria di totalità messa in atto da Foucault e la sua predilezione non «per la continuità della Storia» quanto invece per «la dispersione degli eventi»[2] .

Del resto la dialettica, nella tradizione filosofica moderna, di matrice fichtiano-hegeliana, è sempre stata pensiero della differenza e dell’opposizione in quanto coniugate e articolate in una struttura di permanenza e in una cornice d’identità. Vale a dire che la dialettica moderna ha sempre pensato l’opposto come forma di una differenza che si coniugasse con la sintesi di un identico. Ed è proprio il travaglio di pensare questa connessione tra identità e differenza che, con la sola eccezione di Sartre, la cultura francese contemporanea per definizione non ha tollerato: muovendo in particolare, tra le altre fonti possibili, dal vitalismo antipositivistico di Bergson e dalla sua esaltazione della vita come élan vital, produttrice inesauribile ed eccedente di differenze.

Sta il fatto che la cultura dei movimenti, nella sua maggioranza, e per quanto sia difficile ridurre ad alcuni filosofemi di base approcci teorico-pratici anche molto eterogenei, si sviluppò, di fondo, sotto l’egemonia del pensiero antidialettico francese. Soprattutto quando, almeno in Italia, il movimento del ’77, con il passaggio dall’«operaio-massa» all’«operaio metropolitano» accentuò in modo estremo il valore dell’immediato contro il valore del mediato, ovvero l’affermazione istantanea di un diritto alla vita e alla felicità che non mediasse il principio del piacere con il principio di realtà, il godimento con il lavoro, la propria visione delle cose con la cultura e la tradizione: in una tale estremizzazione dell’immediatezza, del desiderio e della supposta individuazione d’ognuno, da non potersi poi non rovesciare, nel volgere di poco tempo, in un’esperienza di massa di disperazione e di vuoto, colmata da molti con l’artificialità mortale delle droghe, quando non con l’arruolamento, ma ciò valse per più pochi, nel militarismo sciagurato, violento e miope, aperto alle manipolazioni dei servizi segreti nazionali e internazionali, della lotta armata .

Per culminare infine sul piano più propriamente teorico e filosofico, tale rifiuto generalizzato della dialettica quale metodo e sistema teorico legato al vecchio comunismo, con l’operaismo italiano: quando, in particolare con Tronti e Cacciari, sia pure con percorsi diversi, si traghettava il popolo dei movimenti nelle braccia di pensatori come C. Schmidt, Nietzsche e M.Heidegger, che il vecchio Lukács della Distruzione della ragione, con il suo marxismo certamente schematico, aveva comunque collocato tra i pensatori della reazione e dell’irrazionale. Dove quel che valeva, anche qui, era la spregiudicatezza di rompere, in modo profondo e irreparabile con la tradizione della sinistra tradizionale, facendo riferimento a quanto – ritornando a guardare ora di nuovo alla cultura tedesca – era comunque pensiero nato e concepito fuori o meglio contro la dialettica . Quasi con un gioco delle tre carte, per cui il pensiero di destra, con teorici come Heidegger e Schmidt in odore di nazismo, diveniva ora il pensiero originale e propulsivo della nuova sinistra, con quel tanto di maledetto e di sacrale che a quei pensatori, come la triade citata, era connaturato e che non guastava appunto, trasferito ora, nelle gesta e nei pensieri dei nuovi sacerdoti cui competeva l’orgoglioso compito di pensare la rivoluzione, non più attraverso la critica dialettica del Capitale, ma attraverso le categorie del Nulla e della Differenza Ontologica, della Volontà di Potenza, dello Stato di Eccezione, della Nuda Vita, e così via.

 

3. Solo pochi, anzi a dire il vero, solo pochissimi hanno cercato, come si diceva, di percorrere una mediazione, presaga di futuro e di originalità, tra le due culture di cui abbiamo discorso qui fin dall’inizio: tra la vecchia antropologia della penuria e i diritti all’eguaglianza che ne derivavano e la nuova antropologia del riconoscimento, con i diritti all’autorealizzazione in essa impliciti. Valga per tutti il nome, ancora, di Franco Fortini, che qui viene citato non tanto per la ricchezza delle soluzioni proposte, certamente presenti ma in modo assai spesso gracile e problematico nella sua opera, quanto per il forte valore simbolico della sua figura intellettuale, costruita sull’incrocio tra un marxismo critico da un lato, alimentato dalla partecipazione ai «Quaderni rossi» di R. Panieri e dalla frequentazione dei francofortesi, e dall’altro una filosofia, non dell’esistenzialismo, ma dell’esistenziale. Quale cura, dignità e valorizzazione teorica data a tutto quel mondo emozionale ed affettivo dell’individuo umano, corporeo e mortale, che non è riducibile alle trame egualitarie della ragione illuministica ed emancipativa ma che costruisce invece proprio il fondo di quanto rende quel singolo unico e irripetibile, per questo verso né eguagliabile né omologabile agli altri esseri umani.

Né, a proposito di una fecondazione reciproca tra marxismo dell’eguaglianza e filosofia dell’esistenza, si sono citati a caso i pensatori della Scuola di Francoforte di prima generazione come Adorno e Marcuse, perché nella loro opera, quei pochi che approfondivano faticosamente il percorso della mediazione, risalivano, attraverso la categoria dell’antiautoritarismo, a fonti lontane della cultura europea. Per le quali si rimetteva in gioco quel valore dell’autenticità e dell’irripetibilità del proprio sé più personale che, in terra francese era stato coltivato ad es. da Rousseau, e che in Germania, radicato nel romanticismo tedesco di Schiller, di Herder e di Schleiermacher, aveva fecondato l’esistenzialismo di Kierkegaard, l’anarchismo di Stirner e la visione dell’oltre-uomo di Nietzsche. Pensatori per i quali il valore supremo dell’umano non consiste nell’universalità della ragione, nell’autonomia di coscienza e di pensiero, quale principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini e di tutti i membri del genere umano, bensì, com’è noto, – accanto od oltre a tale orizzonte democratico-illuminista della non-differenza di ognuno quanto a diritti di cittadinanza – nel valore dell’autenticità come diritto di ciascuno di realizzare un proprio percorso di vita, non omologabile ed eguagliabile a quello degli altri.

Ma con la peculiarità, da parte dei francofortesi, che tale valore dell’individuarsi veniva sottratto alla curvatura elitaria e aristocratica della sua genesi romantico-esistenzial-nietzschiana, per essere proposto, per la prima volta, come valore generalizzabile ed estensibile a tutti, in ogni classe, in ogni luogo di lavoro, in ogni istituzione della vita sociale, educativa e affettivo-relazionale. Veniva cioè sottratto all’estremismo anticomunitario di Kierkegaard e Nietzsche e avanzato in una proposta di utopica mediazione con l’uguaglianza del socialismo illuminista. Secondo il lavoro migliore che per questo verso era stato compiuto dalla Scuola di Francoforte con la sua fecondazione di psicanalisi e marxismo e la sua denuncia su quanto l’individuazione proposta dal liberalismo classico non solo fosse impraticabile per le classi subalterne ma pagata, anche nel suo realizzarsi tra le classi dominanti, a prezzo di un’umanità astratta dalla relazione, e perciò intrinsecamente autoritaria, prima che con gli altri, con se stessa, perché scissa e repressa. Per cui appunto si trattava d’inaugurare niente meno che una idea e una pratica di libertà insieme post-liberale e post-comunista, alla ricerca di nuove modalità d’intreccio e di reciproca cura tra sviluppo delle relazioni sociali e intersoggettive e di quella psichiche e intrasoggettive.

Ma anche qui senza trattenerci dal considerare che finanche tale ricerca, di mediare eguaglianza ed autenticità, rimaneva, presso gli stessi fancofortesi, inevasa e inconclusa. A motivo della fragilità della loro interpretazione di Marx, pesantemente limitata da Lukács e dalla dilatazione senza freni della tematica del feticismo, oltre che da un corto circuito troppo rapido tra la repressione delle istanze pulsionali della psicoanalisi e gli istituti autoritari della socializzazione.

 

4.   Tutto ciò viene detto e riflettuto, ovviamente, con il senno di poi e con un distacco ormai di molti anni da quegli eventi, che consente di estrarne, per una sorta di memoria del futuro, quanto di meglio e di più avanzato quel movimento epocale seppe produrre, o almeno iniziare a delineare, lasciando cadere di esso, e non fu poco, quanto ricadeva in forme tradizionali e arcaiche del pensare e dell’agire.

Perché è banale ricordare come nel rivolgimento studentesco-operaio degli anni ’60 e ’70 ci siano state molte più cose, confuse e contraddittorie, violente e regressive – va detto assai più nel versante studentesco che non in quello operaio – del filone della nuova antropologia che stiamo qui ricomponendo e sintetizzando. Come per altro verso va ovviamente ricordato quanto assai varie e numerose fossero già state nella cultura del ‘900 le sollecitudini verso un’antropologia dell’individuazione e della differenza. Basti pensare alle nuove e multiverse configurazioni dell’umano proposte dalle avanguardie artistiche e letterarie, che attraversano l’intero secolo, sino a giungere alle provocazioni dei situazionisti, durante gli anni ’60, e alle analisi del moderno come la società dello spettacolo di Guy Debord.

Solo che volendo fissare un punto spirituale, attinente alla storia delle idee e delle forme della coscienza diffusa, che sottragga la ribellione del ‘68-‘69 e degli anni che ne seguirono alla riduzione, quanto mai miope e conservatrice, di un agire solo violento e propedeutico al terrorismo, e che invece ne compendi l’originalità rispetto alla storia del passato e di quanto quel periodo possa ancora dire al futuro, non si può che rintracciarlo, a mio avviso, nella inaugurazione, accanto ed oltre la pratica democratica e comunista dell’eguaglianza, nella cultura e nella pratica, non elitaria ma di massa, della differenza e dell’autenticità: dove appunto autenticità è valore distinto e ulteriore rispetto a quello di autonomia. Giacché, mentre questa rimanda a un farsi soggetto secondo l’orizzonte critico di un Illuminismo che svincola l’individuo da ogni potere esteriore, ma consegnandolo ad universali di ragione che ne mortificano sensibilità ed emozioni, quella implica un tale incremento d’individuazione da significare l’esplicitazione, col grado minimo di repressione, delle potenzialità più proprie e individuali.

Né si capirebbe, ad es., granché della genesi del pensiero della differenza di genere, malgrado la favola autopoietica che spesso il femminismo s’è voluto raccontare con la celebrazione di non si sa quale scarto ontologico tra donna e uomo, e dunque di un inizio ex nihilo, se non la si riconducesse a tale fondazione culturale e politica, prefemminista, che, a muovere dalle Università, si diffuse con una rapidità certo imprevista, attraverso la gioventù, prima studentesca, poi operaia – in Italia bisognerebbe specificare gioventù operaia d’immigrazione ed estrazione meridionale – nel gridare e nel pretendere il diritto generalizzato di tutti a percorrere una propria vicenda personale di vita, al fine di una coincidenza, non autoritaria, con il proprio più ineguagliabile sé.

 

5. Il seguito della storia ha la configurazione tipica del paradosso: tipica, ma non meno drammatica e stupefacente per quanto riguarda la qualità del nostro presente e del nostro vivere. La conclusione dei movimenti di rivolta degli anni ’60 e ’70 infatti è stata non solo quella di una sconfitta definitiva, almeno per un lungo periodo storico, di quanto concernesse l’attesa di un nuovo ordine economico e sociale. Ma è stata anche quella di una realizzazione e diffusione di massa, solo di segno rovesciato, proprio del valore, che in forme spesso, s’è detto, minoritarie e assai incerte, aveva comunque toccato e in qualche modo unificato, pur se in gradi diversi, la storia di quei movimenti e che consisteva, appunto, nella fuoriuscita, materiale e culturale, da un’antropologia della penuria e nell’introdursi verso un’antropologia nuova del riconoscimento e dell’individuazione. E’ cioè la storia, per dirla con un vecchio termine gramsciano, di una «rivoluzione passiva», ossia di una rivoluzione-restaurazione, che vede assumere e realizzare da parte delle classi dominanti – dunque con un paradossale rovesciamento di senso e di destinazione – l’esigenza di cambiamento di movimenti giunti all’esaurimento della loro iniziativa storica.

Giacché quello che è avvenuto nell’ultimo trentennio sembra proprio che possa definirsi come l’utilizzazione dei valori della flessibilità e della progettualità individuale, della personalizzazione del proprio stile di vita, allo scopo, invece, della perpetuazione del sistema economico dominante e della trama di asimmetrie sociali e mortificazione della vita individuale che esso comporta con sé. L’ultimo trentennio è stato il tempo in cui il rivendicare la scoperta-di-sé, s’è fatto, da principio antisistema, fattore di facilitazione e di consolidamento dell’organizzazione sociale data. Per cui a ripercorrere sinteticamente l’intera nostra storia, dalla fine degli anni ’60 ad oggi, si fa l’esperienza di quel singolare capovolgimento nell’opposto che qualche tempo fa Axel Honneth ha avuto modo di definire come «autorealizzazione organizzata»[3], concependolo appunto come il tradursi dei valori della scoperta-di-sé e dell’autenticità personale in fattori, invece, di trasformazione dinamica e di sostegno dell’assetto sociale dominante.

Il fatto è che dagli anni ’80 ai giorni nostri, s’è realizzata un’altra rivoluzione, questa volta non nell’idealità e nelle prefigurazioni ideali dei movimenti di protesta, bensì nella realtà concreta delle innovazioni tecnologiche e dello sviluppo produttivo e che si è ben sintetizzata nell’espressione: dal fordismo al postfordismo. Una rivoluzione economica che molti ci dicono essere stata di natura epocale, giacché avrebbe significato la fine della modernità novecentesca fondata sull’industrialismo, sulle grandi masse operaie di fabbrica e sulla lotta di classe. Una rivoluzione scandita dal dissolversi del comunismo e dall’esaurirsi delle ideologie, dal passaggio dal lavoro manuale e di massa al lavoro mentale e alla tecnologia informatica, dalla fine della grande fabbrica e dalla dislocazione nello spazio, fino a quello planetario della globalizzazione, di unità produttive più leggere e flessibili, integrate attraverso flussi continui d’informazioni. Insomma un transito epocale dal materiale all’immateriale, simboleggiato dal computer e dal fatto che la conoscenza sarebbe divenuta la principale forza produttiva di creazione della ricchezza. Tanto da potersi definire tale genere di società postindustriale, che avrebbe conclusa quella moderna per dar vita a una nuova formazione storico-sociale, la società appunto del postmoderno.

Il postmoderno designerebbe così il tempo storico in cui l’Essere, per esprimerci con la filosofia, sarebbe divenuto essenzialmente linguaggio, ossia il tempo in cui l’intera realtà, sociale e individuale, si sarebbe fatta fondamentalmente segno e comunicazione[4]. E che appunto avrebbe concluso la materialità del moderno, giacché la rete sempre più ampia di simboli e d’informazioni, che attraversa ormai la nostra vita, farebbe della realtà extralinguistica alcunché sempre più residuale e marginale, e del nostro esperire, legando segno linguistico a segno linguistico, un processo infinito d’interpretazione e d’ermeneutica. Come vuole per altro un modo di conoscere, appunto, postideologico, che si sarebbe finalmente liberato da ideologie totalizzanti e sistemiche, da pensieri forti, per farsi pensierodebole, capace di cogliere, nell’assenza in sé di volontà di potenza e di assolutezza, i volti sempre relativi e vari del vivere umano.

Per questo è il postofordismo la chiave di volta del postmoderno. Giacché la rivoluzione informatica, si afferma, con la messa in campo di un lavoro che opera essenzialmente su informazioni, sopprime la distinzione antichissima, nella storia del genere umano, tra lavorare e comunicare, tra pratiche fisiche del corpo e vita intellettiva della mente. Ed è proprio con tale trascorrere, nei processi di lavoro, dal corpo alla mente – e con tale superamento della distinzione tradizionale tra teoria e prassi – che si concluderebbe la modernità e s’inaugurerebbe la postmodernità. Visto che si conclude un’antropologia della penuria e della fatica legata alla manipolazione del mondo materiale e s’inaugura un’antropologia creativa basata sull’uso dell’intelligenza e sull’elaborazione dei dati virtuali: sulla messa in campo cioè da parte d’ognuno delle qualità più proprie della sua mente e meno riducibili, diversamente da quanto accadeva nell’industrialismo moderno con l’uso del corpo, a costrizioni meccaniche e omologanti.

 

6.   Eppure proprio tale dilatazione metafisica del linguaggio, col suo farsi totalità e col suo miracolistico annullamento d’ogni distinzione tra agire materiale-strumentale e agire linguistico-comunicativo che ne deriva, avrebbe dovuto generare sospetti negli spiriti critici e impedire che si celebrasse il postfordismo e il venir meno del lavoro a catena come l’inveramento dei valori della rivoluzione culturale del ’68. Sia nel verso di un’appropriazione personalizzata delle funzioni di lavoro, com’è avvenuto con la retorica del toyotismo e con il preteso trionfo, nell’organizzazione produttiva, del criterio liberatorio della qualità su quello della quantità, sia nel verso dei sognatori della moltitudine, i quali hanno visto con la rivoluzione informatica prendere finalmente corpo in una supposta intellettualità diffusa, di elevatissima competenza linguistica e di irriducibile passione rivoluzionaria, l’«intelletto generale», il «general intellect» di cui Marx ebbe a parlare in una delle sue pagine meno meditate quanto a esaltazione della tecnologia e del produttivismo capitalistico.

Ma va detto che, almeno per quanto concerne quest’ultimo versante di esaltazione della tecnica come immediata produzione di una soggettività rivoluzionaria, la tradizione dell’operaismo italiano appare aver speso assai più tempo nell’inventarsi slogans e neologismi di rottura, per sedurre i giovani e pour épater le bourgeois, che non costruire seriamente processi di trasformazione sociale.

Invece a chi scrive sembra che per tutti coloro che hanno esaltato il postmoderno informatico e segnico-linguistico, quanto a liberazione del lavoro e della soggettività, si sia ripetuto, invero, l’effetto di deformazione ottica provocato dalla sovrapposizione di ciò che è tecnica a ciò che è tecnologia, che da sempre impedisce a uno sguardo, che pur si vorrebbe critico, di lacerare il velo di un accecante positivismo e di un’ottundente reificazione. L’indistinzione di «tecnologia» e «tecnica», dei loro rispettivi ambiti semantici che rimandano a prospettive profondamente diverse, la prima legata alla scienza dello Stato e dell’amministrazione, la seconda di natura più propriamente pratico-economica, costituisce del resto, io credo, l’errore capitale di fraintendimento dell’essenza della modernità. Nasce fondamentalmente con Max Weber, attraverso il rilievo dato alla sola tecnica (Technik) e la rimozione nella sua opera di ciò che era Technologie, si sviluppa nella cultura tedesca attraverso l’opposizione di Kultur/Technik, Kultur/Zivilitation, Kultur/Mechanisierung, e sfocia in una lettura del moderno ispirata dalla riproposizione di princípi arcaici, com’è accaduto con il celeberrimo discorso heideggeriano sulla «tecnica».

Per necessità di spazio in queste pagine introduttive basti dire, assai schematicamente, che la tecnologia (Technologie) nasce come disciplina autonoma nelle università tedesche del XVIII° sec., particolarmente a Göttingen, come disciplina specifica della Polizey (o amministrazione dello Stato)[5], e il suo oggetto di studio è una sfera specifica di dominio e di controllo (Herrschaft) politico-economico: la conoscenza e la signoria che quell’attore sociale, che è il burocrate cameralista, il quale non ha il corrispondente nelle istituzioni britanniche e americane, deve avere dei diversi rami di attività produttive di allora perché venga prodotta ricchezza nello Stato e il principe, o sovrano, possa garantire in modo illuminato e paternalistico ai suoi sudditi «ordine e benessere» (Ordnung und Wohlfahrt)[6]. La Technologie muove dalla prospettiva oggettivistica delle scienze naturali, perché oltre a studiare le proprietà naturali delle materie prime e dei mezzi di lavoro, identifica naturalisticamente, senza attribuire un ruolo e una nobiltà specifica al lavoro dell’uomo, le procedure della produzione, definendo appunto le relazioni più utili che intercorrono tra gli elementi del proprio dominio (i sottoposti al lavoro, l’ambiente naturale e gli strumenti di lavoro). Essa pertanto consiste nell’applicazione al campo della produzione del metodo delle scienze esatte e nella codificazione della forma delle procedure che vengono comandate e imposte dai burocrati, che svolgono appunto funzioni di Polizey, ai lavoratori nelle diverse branche delle manifatture, dell’artigianato, delle miniere, dell’agricoltura. La Technologie dunque nella Germania del XVIII° sec. – con una risignificazione radicale dell’antico termine greco riferito all’arte teorica del discorso (del logos) – è una disciplina che ha origine in un ambito amministrativo-politico ed è rivolta a formare i cameralisti, ossia i funzionari burocrati dell’amministrazione statale, che devono garantire il dominio assolutistico del principe sui suoi sudditi.

Ben diverso è il significato di «tecnica» (Technik) nell’opera di Max Weber. Essa, nella sua accezione generale, designa per il sociologo tedesco, non una procedura o una regola d’azione imposta socialmente (come nel caso della Technologie), ma l’insieme dei mezzi utili al conseguimento di un fine da parte di un qualsiasi attore sociale che calcola nel senso della proporzione più efficace tra mezzi scarsi e scopo prescelto. La tecnica per Weber acquista senso perciò nell’ambito della razionalizzazione moderna quando il calcolo tra mezzi adeguati e fini subentra a considerazioni e a credenze di altra natura, religiose, comunitarie e tradizionali. «La ‘tecnica’ di un agire designa il complesso dei mezzi da esso impiegati, in opposizione al senso o al fine dal quale quell’agire è in ultima istanza orientato; la tecnica ‘razionale’ implica un impiego di mezzi orientato consapevolmente o sistematicamente in base all’esperienza e alla riflessione. […] Una tecnica in questo senso sussiste per qualsiasi tipo d’agire – tecnica della preghiera, tecnica dell’ascesi […] tecnica dell’amministrazione, tecnica educativa, tecnica del dominio politico o ierocratico […] Criterio di razionalità è dunque per la tecnica, accanto ad altri, anche il celebre principio del ‘minimo sforzo’ – e cioè del risultato ottimo in rapporto ai mezzi da impiegare»[7]. Nel suo senso più specifico la tecnica definisce per Weber l’agire in modo razionale rispetto allo scopo più propriamente moderno, costituito dall’azione economica, nella quale al rapporto tra mezzi adeguati e scopi si aggiunge nel calcolo dell’attore sociale la considerazione dei «costi». «Considerate dal punto di vista dell’‘agire economico’, le questioni ‘tecniche’ designano la necessità di prendere in esame i ‘costi’»[8]. E in questo senso – del calcolo di congruenza tra mezzi e scopo definito quantitativamente – il calcolo economico moderno è il fondamento di senso di ciò che è tecnica. «Senza dubbio il centro di gravità dello sviluppo tecnico risiede da sempre, e principalmente oggi, nel suo condizionamento economico; senza il calcolo razionale che sta a base dell’economia e cioè senza condizioni storico-economiche molto concrete, non sarebbe sorta neppure la tecnica razionale»[9].

Del resto dopo Nietzsche e la sua decostruzione di ogni possibile verità e senso oggettivo della storia, Weber ha posto a base di tutta la sua ricerca il cosiddetto individualismo metodologico per cui l’agire sociale sarebbe sempre risolubile nelle operazioni di conferimento di senso e nell’opzione di valore dei singoli, nonché nelle aspettative intersoggettive che tali orientamenti di senso determinano. E coerentemente con tale risolversi del mondo nelle prospettive e nelle aspettative dei singoli, anche l’azione razionalizzatrice della tecnica viene vista come un lato del processo più generale di «razionalizzazione» e di «disincanto» che investe i valori dell’Occidente nell’instaurarsi della modernità e che conduce all’introduzione del calcolo nell’azione. Apparendo così sufficientemente chiaro, io credo, quanto e come tale interpretazione soggettivistica abbia dislocato radicalmente il significato di ciò che è «tecnica», quale insieme di mezzi a disposizione della scelta di un attore sociale, dall’orizzonte della tecnologia, quale insieme invece di norme e di procedure che socialmente e autoritariamente vengono imposte alle funzioni pratiche del lavoro.

La pubblicazione degli Experte marxiani (che nella loro totalità vengono pubblicati nella IV sezione della nuova MEGA) e in particolare quella dei technologisch-historischen Exzerpten[10], testimonia in quale misura Marx, a partire dagli anni ’50, abbia avuto a che fare con le tematiche della Technologie cameralista, studiando in particolare i Beyträge zur Geschichte der Erfindungen di Johann Beckmann e la Geschichte der Technologie del suo allievo, J.H.M. Poppe[11]. Attraverso questi autori Marx ha conquistato una prospettiva sulla rivoluzione industriale e sul sistema di fabbrica profondamente diversa dal punto di vista dell’economia politica classica e di studiosi del factory system come A. Ure e C. Babbage. Perché, laddove Technik rimanda alla tecnica come insieme di mezzi e di strumenti di produzione utilizzabili per un determinato scopo, cioè ad una ragione strumentale che è indipendente dal contesto sociale e dagli attori che ne fanno uso e che comunque esalta, nel suo essere strumento a disposizione, la potenza creativa dell’essere umano, la Technologie è invece disciplina di natura sociale che studia l’organizzazione della produzione in quanto subordinata al comando del burocrate cameralista e al servizio dell’apparato statale. Ed è dunque disciplina che segna l’incontro tra scienza e produzione nell’ottica di una prospettiva di dominio e di comando, che ha la funzione di ridurre scientificamente la presenza del fattore umano a cosa tra cose[12].

Ma è appunto proprio un’acritica identificazione di «tecnologia» e di «tecnica»[13] che ha costantemente operato per l’intero Novecento, persistendo ancora oggi, ad attribuire una cornice umanistica e antropocentrica di senso alle innovazioni produttive, quasi fossero sempre mezzi, per quanto dilatati e complessi, a disposizione di un soggetto. Per cui anche la tecnica informatica è stata celebrata nel verso, come si diceva, di una valorizzazione delle competenze intellettuali e culturali dell’essere umano, del fatto cioè che finalmente sarebbe, non più la materialità del corpo, bensí l’intelligenza, la conoscenza, la cultura, a costituire le fonti della nuova ricchezza e della nuova organizzazione del lavoro. Fino a teorizzare che sarebbe la stessa facoltà di linguaggio – nella sua dimensione transindividuale di facoltà che appartiene alle specie e che attiene dunque a un’intelligenza comune – ad essere messa al lavoro dal capitale: nella subalternità, certo dell’oggi, ma anche nella pregnanza d’emancipazione che quel porre in comune di un lavoro, ormai essenzialmente linguistico e comunicativo, garantirebbe e prefigurebbe.

 

7.  A mio avviso, invece, l’informazione in un processo di lavoro capitalisticamente organizzato non è mai solo descrittiva o dichiarativa ma è sempre anche prescrittiva. Implica cioè un codice di senso predeterminato che obbliga l’operatore al computer a muoversi secondo un contesto di possibilità già definite e fissate. Non a caso, anche dal punto di vista topografico e spaziale, la caratteristica più evidente delle nuove tecnologie è quella di collocare una serie enorme d’informazioni al di fuori del cervello umano, che si sedimentano in una sorta di gigantesca mente artificiale accanto a quella umana dell’operatore. Ora, se è indubbio che tale mente artificiale possa valere come ampliamento di memoria, a disposizione di un soggetto elaboratore e creativo, nel caso di attività private, di scrittura e di composizione grafica, nel caso invece di processi lavorativi finalizzati alla produzione-circolazione di merci essa appare funzionare quale mente esterna che organizza e accumula le informazioni secondo un codice che implica percorsi o schede di lavoro predefinite, ossia modalità flessibili ma predeterminate d’intervento e di risposta da parte della mente del lavoratore non manuale. Certo in tal modo non è più il corpo e la segmentazione tayloristica dei suoi movimenti ad essere in questione bensì l’anima, ossia la capacità di scelta del nuovo lavoratore mentale, la sua intelligenza sia come comprensione globale-intuitiva che come attitudine logico-discorsiva. Ma ciò ci dice che proprio quanto, nella modernità, veniva considerato per eccellenza come l’ambito di attitudini e qualità più personali e non omologabili dell’essere umano, ora, nella postmodernità, è stato invece messo al lavoro, entrando in un campo, sí di fungibilità interagente, ma intrinsecamente subalterna, con la macchina dell’informazione. La quale per suo verso, accumulando quantità di dati alfa-numerici sulla base del linguaggio binario, riproduce il mondo reale secondo la riduzione e la semplificazione di una Gestalt, di una forma che è prevalentemente quantitativo-linguistica, e che dunque pretende la cooperazione di una soggettività istituita più sulla valorizzazione astratto-calcolante del proprio essere che non sulla messa in gioco di tutte le altre componenti del proprio sé.

In una condizione non patologica e scissa dell’essere umano – qual è certo non quella vissuta dalla forza-lavoro messa in opera dal capitale – il senso del vivere e dell’agire è dato fondamentalmente da una relazione, in cui il corporeo-emozionale, compresente ma irriducibile al mentale, rappresenta la fonte mai esauribile dell’attività interpretativa ed elaborativa della mente: in una costituzione verticale del senso che s’integra con quella orizzontale derivante dal nesso del medesimo individuo con le altre soggettività. Nel nuovo tipo di lavoro invece il sistema macchina informatica-forza-lavoro richiede una separazione radicale, opposta a quella del lavoro taylorista-fordista, della mente dal corpo: separazione che consegna la mente umana a una semantica decorporeizzata e anaffettiva. Del resto la sintassi del linguaggio informatico, costruita sulla logica binaria dell’alternanza tra il sì e il no, riproduce ed elabora il mondo della vita secondo una forma astratta, perché priva di contrasti e contraddizioni. L’esclusione cioè del sì dal no, che sta a base della sintassi informatica, impedisce d’esprimere l’ambivalenza che strutturalmente connota l’esperienza emotiva e proprio per questo può essere principio di un mondo informatizzato il cui orizzonte è quello della certezza analitica, anziché quello dialettico e multiverso dell’esperienza concreta. L’astrazione del nuovo lavoro mentale è perciò quella di una mente la cui attenzione e cura, astratta dal senso e dal fondamento della corporeità, è tutta assorbita da un universo di immagini e simboli alfa-numerici, attraverso la cui apparente neutralità ed oggettività si dispone il senso e il comando di un’organizzazione del processo produttivo volto, come sempre, alla valorizzazione.

L’economia dell’informazione dunque non va letta secondo le dottrine classiche dell’economia industriale e fordista, a muovere da quella celeberrima di Marx del lavoro alienato, e ripresa da un celebre libro degli anni ‘70 di H. Braverman, quale progressiva separazione di esecuzione e ideazione e quale lavoro perciò sempre più dequalificato perché obbediente a un progetto e a un comando di altri. Giacché l’invenzione dei nuovi macchinari informatici richiede proprio l’opposto: la valorizzazione della soggettività, della sua autonomia, di una sua maggiore qualificazione e ricchezza di conoscenze. Ossia richiede quella flessibilità e mobilità del lavoratore, quella ricomposizione delle mansioni che nell’automatismo ininterrotto della fabbrica fordista e nel disciplinamento oggettivo della forza-lavoro che ne conseguiva era proprio il nemico costantemente da battere e da escludere. Ma dove appunto ciò che viene messo in gioco è un soggetto solo apparentemente autonomo e concreto, volontario e creativo, perché la sua pretesa individualità è invece l’esito di un processo di omologazione a competenze e forme del sapere già fortemente astratte e codificate o d’interventi innovativi-riflessivi, la cui creatività è ammessa solo nella cornice di un ambito di lavoro già fortemente stereotipato.

Nella cornice del postfordismo ha avuto luogo perciò un singolare effetto di deformazione visiva, consistente nella fallacia rappresentativa di un lavoro intrinsecamente ed essenzialmente astratto che assume invece le parvenze di un lavoro invece individualizzato e concreto. Ossia che la natura sostanzialmente eterodiretta e prefissata del processo di lavoro prenda la forma di un’attività autorganizzata presuntivamente ricca di variazioni e di libertà.

Il postfordismo svuota dunque di senso concreto la soggettività proprio nel momento stesso che ne fa supposto principio di senso. E lo fa dando vita a un nesso dialettico di contenuto e contenitore, di realtà e superficie, secondo cui lo svuotamento è, proprio nel suo stesso modo di realizzarsi, occultamento e dissimulazione di sé. Per cui sulla superficie della scena, quale esito di un effetto-simulacro, rimangono solo due attori: un nuovo lavoratore, la cui mente è predisposta a interiorizzare il comando eliminando ogni traccia esterna di costrizione, e una nuova macchina la cui natura linguistica ne fa per definizione, non più un apparato tecnico macchinico e costrittivo, bensì un’alterità dialogica e collaborativa.

Si badi, stiamo parlando di astrazione, non come un processo logico di generalizzazione del concreto, bensì come processo reale e pratico di svuotamento del concreto – ad opera appunto di una soggettività, costruttrice di storia e di società, astratta – e nello stesso tempo di sovradeterminazione, cioè di eccessivo investimento di visibilità, della superficie, per il quale del concreto rimane solo la pelle, lo strato più superficiale, che copre con la sua esteriorità quanto accade veramente al suo interno. Ed è proprio su questo, su un soggetto astratto che opera nella società e nella storia del nostro presente, che questo libro vuole riflettere: sul modo in cui un’astrazione possa essere messa al lavoro, produrre paradossalmente realtà attraverso colonizzazione, occupazione e svuotamento del concreto e contemporaneamente generare, attraverso sovrinvestimento della superficie, occultamento e dissimulazione di sé.

L’effetto-simulacro, quale svuotamento del concreto e sua contemporanea sovradeterminazione isterica[14], è infatti il nuovo nome e la nuova funzione che, a mio avviso, un pensiero critico deve dare ai processi di deformazione e mistificazione ideologica, sostituendola alla vecchia e troppo abusata categoria del feticismo. Giacché è proprio quanto sintetizza nel modo più efficace l’esperienza più comune, continua e generalizzata del nostro vivere: secondo un nesso dialettico per il quale la forma dell’apparire dissimula, nel suo contrario, il proprio più verace contenuto e per il quale il superficializzarsi del mondo è la faccia complementare del suo svuotamento e della sua mancanza di radicamento e profondità.

Così, con la trasfigurazione del valore dell’individuazione nella flessibilità e nella deregulation del nostro patto sociale di vita, la durata della nostra giornata lavorativa è incredibilmente aumentata, con un capovolgimento stupefacente rispetto alla precedente tendenza storica alla riduzione del tempo di lavoro. Tale invasione da parte del tempo di lavoro del nostro tempo di vita s’è accompagnata altresì, non a una crescita, quanto a intensità di emozioni e di affetti, del nostro sé ma a una forma d’esistenza sostanzialmente monotòna e priva di esperienze emozionali profonde. A meno di non compensare tale obbligato blocco dell’emotività con identità di fattura superficiale e istericamente sovradeterminata, quando non con sballi di fine settimana e assunzione “controllata” di droghe. Così come la moltiplicazione, pressoché inesauribile, delle informazioni cui abbiamo accesso, attraverso i vari mass-media (si pensi alla superficialità dei quotidiani e a una TV fatta sempre più di fiction, talk-show urlati e soap-opera spazzatura) e l’utilizzo della rete, s’è tradotta in una radicale incapacità di approfondimento e di autentico sapere, per cui nella pretesa società della conoscenza e dell’intellettualità diffusa la merce più rara è divenuta il bene dell’attenzione e della possibilità di riflessione.

Né a caso i nostri consumi, in concomitanza con la nostra atonia emotiva, pur quando sono riusciti a mantenere lo stesso livello quantitativo, hanno visto comunque via via perdere ogni loro pregnanza qualitativa, con una vera e propria catastrofe del valor d’uso. La mercificazione della vita ha sottratto infatti, per non fare che qualche esempio, ogni sapore alla frutta che mangiamo e che matura in celle frigorifere, ha tolto ogni distinzione di genere tra carne e pesce, entrambi alimentati con i medesimi pastoni chimici, ha eliminato intensità di gusto a tutta la produzione orto-cerealicola di matrice transgenica. Come, per altro, la monetizzazione del numero sempre più ampio di relazioni sociali ha sottratto spazio e tempo di vita alla socialità interpersonale, spingendo i singoli, nella loro solitudine di massa, a frequentare sempre di più i centri commerciali che non i centri della vita urbana e municipale.

Tutto ciò, per dire insomma che durante l’ultimo trentennio s’è messo in opera un singolare meccanismo sociale che ha drammaticamente svuotato l’interiorità della nostra esistenza, dando rilievo, per compenso, solo all’esteriorità del vivere, dell’esperire e del godere. Si è messa in scena cioè quella sorta di superficializzazione del mondo, di cui si diceva, che, nell’originalità di configurazione antropologica che implica, richiede di essere compresa e spiegata, sottratta alla sua singolare magia e identificata nel suo processo genetico e casuale.

Ma sulla natura misteriosa della funzione sociale che agisce così nelle nostre vite c’è da fare un’ulteriore considerazione, anch’essa di carattere paradossale. Questa volta, più sul piano delle idee e dei processi culturali che non su quello della materialità dei nostro corpi di vita. Un paradosso che nasce dalla domanda del perché per tutto l’ultimo periodo storico – anche qui un trentennio all’incirca – si sia data e continua a darsi fino ad oggi un disaccordo, una discrasia così profonda, tra il piano dell’Essere e quello del Sapersi dell’Essere, tra il piano cioè della realtà economica e sociale e quello del suo apparire nella visione teorica e filosofica.

Sul piano dell’Essere infatti la globalizzazione liberalcapitalistica, nel suo coincidere con la dissoluzione del comunismo realizzato, ha unificato il mondo mettendo in campo, pur con una mappatura a macchia di leopardo, un unico modello di vita economica e sociale. Invece sul piano della filosofia si sono fatte egemoni le teorie del postmoderno, accomunate nel rifiuto di categorie come unità, totalità, sistema, per la rivendicazione della dignità del frammento e dell’evento, dell’accendersi costante della differenza, della rottura di ogni linearità causalistica, del rifiuto di ogni ideologia quale pretesa di ogni concezione unitaria del mondo. Per dire cioè del paradosso cui abbiamo assistito ed a cui hanno dato vita postfordismo da un lato e postmoderno dall’altro che, pur appartenendo a un medesimo tempo storico e sociale, hanno costruito una compresenza radicalmente oppositiva tra reale e simbolico, tra piano cioè dell’economico e piano del culturale.

Provare a far luce su questi paradossi è uno degli scopi di questo libro, che vuole comprendere quale sia il fattore che, immediatamente non evidente né percepibile, ha operato e continua ad operare nell’ombra per generare tali effetti, quali quello di un mondo che si superficializza ed occulta se stesso nella trama deforme della sua superficie e, parimenti, quello di un Uno che unifica ed omologa su scala amplissima stili ed habitus di vita, mentre al contrario appare, agli occhi del filosofo, e si dissimula come il luogo invece dei molti uno e dell’inesauribilità della differenziazione ermeneutica.

Sono questioni assai singolari e chi scrive ritiene che appunto solo qualcosa d’impersonale – qualcosa di astratto e non antropomorfo, non riducibile a soggetti umani – possa produrre fenomeni sorprendenti e mirabolanti di tale natura. Ovviamente con una storia di misteri e di fantasmi che vale per i più e non per i pochi, giacché dello svuotamento del mondo, della catastrofe qualitativa del consumo e del valor d’uso dei beni, sembra partecipare e soffrire assai più la comune maggioranza dei mortali che non la minoranza dei privilegiati, che godono di circuiti sempre più separati e privilegiati di vita e di quella superborghesia internazionale che, trasversale agli stati e alle nazioni, si sta costituendo, quanto a comuni stili di consumo di beni di lusso, come uno dei pilastri portanti della globalizzazione.

Anche perché la radicalità della crisi economica, che ormai in corso da qualche anno attraversa in vario grado le nostre vite, sta decretando la conclusione del postmoderno come filosofia del frammento e della molteplicità liquida, coll’anteporre sempre più il duro monismo dell’economico e della sua realtà unificata alla coscienza riflessa delle ideologie della differenza. La crisi economica cioè sta cancellando il postmoderno, quale visione arbitraria dell’intellettuale, per affermare sempre più la realtà, invece, del postfordismo, quale intensificazione di quel soggetto impersonale ed astratto che a noi è sempre apparso, auctore Marx, costituire il vero soggetto dominante della modernità, ben oltre la funzione del soggetto politico e statuale. Realtà del postfordismo contro l’ideologia del postmoderno, che intensifica e approfondisce l’astratto reale della modernità fordista, radicalizzandolo nel verso, appunto, storico e sociale di un soggetto dominante che, per la cogenza della sua natura astratta, si viene facendo sempre più volatile, alla ricerca di tempi, spazi e modi della sua affermazione che siano quanto mai sganciati dai limiti irrigiditi e fissi di strutture di permanenza.

Del resto la crisi drammatica dell’oggi esplicita assai bene l’intreccio perverso che non può non darsi nei nostri giorni tra l’accumulazione di una ricchezza astratta che ormai ha esaurito il percorso espansivo della produzione e del consumo dei beni durevoli di massa, caratteristico del ‘900, e la necessità di trovare nuove strade, anche solo finanziario-speculative, alla propria imprescindibile accumulazione. Ma che oggi l’organizzazione sociale del capitalismo si venga strutturando, dal lato della produzione, secondo un enorme bacino di disponibilità e di arrendevolezza della forza-lavoro in rapporto ad un’iniziativa estremamente mobile e flessibile della ricchezza astratta, così come, dal lato del consumo, si venga sempre più polarizzando una sfera di consumi di lusso e di alta qualità di contro a consumi generalizzati e di massa di bassissima fattura e qualità, non toglie nulla al fatto che siamo nella continuità storica di una soggettività astratto-quantitativa che rimane fedele alla sua natura di colonizzare il mondo del concreto per ritrovarvi, ogni volta, la logica imperativa della sua accumulazione.

 

8.  Ma qual è dunque il fantasma, oggetto del discorso? Di che si tratta quando parliamo di cose così strane come di un astratto che svuoterebbe il concreto o di un mondo che si nasconde nella sua superficie?

Gosthbuster (acchiappafantasmi), era il titolo di un film americano, che ebbe fortuna anni fa. E appunto questo libro vuole provarsi a muoversi come un gosthbuster, costruendo una macchina acchiappafantasmi che possa gettare la rete sull’astratto, afferrarlo nella sua identità e impedirgli di tornare a volatilizzarsi nella sua indeterminatezza.

La macchina in questione, vedremo, sarà costruita attraverso un singolare congegno teorico che chiameremo il «circolo del presupposto-posto» e che qui possiamo anticipatamente definire come l’iscrizione in un cerchio di due assi di diversa congiunzione temporale, rispettivamente sincronica e diacronica. Un alambicco nell’apparenza meccanico e geometrico, ma nella sostanza filosofico e concettuale: visto che è in giuoco quella dimensione per nulla scontata e assai meditata dalla storia della filosofia che è la temporalità e visto, soprattutto, che, confrontandoci con astrazioni che muovono realtà, siamo per definizione nel campo di cui si presume sia competente la filosofia.

E, in effetti, questo è un libro che tratta della postmodernità attraverso la riproposta sulla scena (ma come, ancora!, dirà qualcuno) di quel drammone filosofico che tanto a lungo ha pesato su molte coscienze dell’intellettualità del ‘900 e che è stato il tormentassimo rapporto Hegel-Marx. La riproposizione del quale, va però subito detto, in queste pagine si spera di trattare con minor peso di quanto finora non si sia mai dato, o, addirittura, se bastessero le forze a chi scrive, con la lievità concettuale dovuta alla leggerezza dei fantasmi. Del resto, dato che si tratta, oltre che di astrazioni, appunto di fantasmi, la sceneggiatura attraverso la quale qui si vuole riscrivere e riutilizzare quel famoso incontro, non potrà evitare di essere, oltre che filosofica, anche psicanalitica. O, per meglio dire, una sorta di psicanalisi filosofica, dove le filosofie e le dottrine in gioco verranno considerate più per quello che hanno taciuto e rimosso che non per quanto abbiano esplicitamente formulato e teorizzato. Ma, in modo assai diverso da quello che fece, più di cinquant’anni fa, Louis Althusser, la nostra macchina per afferrare il non detto, (di Marx in primo luogo), non espelle dalla scena della nostra psicoanalisi teorica la grande figura terribile e patriarcale di Hegel, bensì ne fa il Terzo interlocutore ineliminabile e insostituibile. Anzi, per proseguire il dramma concettuale che ho allestito con un libro dedicato al rapporto tra Hegel e il giovane Marx e dal titolo Un parricidiomancato, questo volume mette in scena, questa volta, Un parricidio al quadrato. La cui tesi di fondo è che per estrarre dal non detto di Hegel e Marx degli strumenti ancora utili, anzi indispensabili, per afferrare il fantasma che angoscia e terrorizza le nostre vite, sia necessario dar luogo appunto a un doppio parricidio, naturalmente metaforico e culturale: ovvero che noi si uccida quel Marx che nelle forme più esplicite e conosciute del suo pensare è rimasto subalterno ad Hegel e si faccia luce, perché nasca al nostro presente, quel Marx maturo,e silenzioso alla sua medesima autocoscienza, il quale è stato capace, invece, di uccidere e superare realmente il grande padre Hegel. E, come si vedrà, la mossa vincente per praticare questo doppio parricidio consisterà nel poter concepire una nuova scienza della dialettica, istituita non più sulla contraddizione, com’è sempre accaduto nell’interpretazione più celebrata dell’hegelismo e del marxismo, ma sull’astrazione e sulla funzione di svuotamento/simulacro perpetrata dall’astratto ai danni del concreto.

Astrazione versus contraddizione, dunque! Ovvero il Marx che è riuscito a mettere a tema un’astrazione paradossalmente reale come orizzonte e soggetto della modernità contro il Marx che ha preteso di stringere il nesso capitale-lavoro in una relazione intrinsecamente contraddittoria, che consegnasse la classe operaia a un ruolo inevitabile, quanto ineludibile, di antagonismo e di emancipazione rivoluzionaria! Tale è il nodo teorico di fondo che agirà in questo libro, nella chiara consapevolezza che si tratta di abbandonare un paradigma politico-sociale cui s’è rifatta la maggior parte dei marxismi del secolo XX°, contribuendo non poco, per tale errore d’assunzione economico-antropologica, alla loro inconcludenza, quando non vera e propria sconfitta, storica.

Non che il capitalismo non sia basato su un rapporto di classe, cioè di dominio e di sfruttamento attraverso appropriazione di lavoro non pagato, da parte dei possessori dei mezzi di produzione sui possessori di forza-lavoro. Non che il controllo e il disciplinamento dei lavoratori nei processi produttivi, da rinnovarsi ad ogni nuova generazione di forza-lavoro, non sia la chiave di volta dell’accumulazione di capitale. Non che l’intera economia capitalistica non sia esposta a una tendenza ineliminabile alla sovraccumulazione e, forse insieme, al sottoconsumo e dunque a fasi di drammatiche crisi da cui si esce con profonde trasformazioni tecnologiche oltreché con distruzioni generalizzate di merci, di capitale e di forza-lavoro. Secondo quanto in tal senso ha magistralmente compreso e concettualizzato il Marx del Capitale. Ma che tutto ciò debba tradursi in una intrinseca capacità rivoluzionaria ed antagonistica da parte dei lavoratori, secondo la quale il venditore di forza lavoro è in quanto tale in opposizione e in contraddizione con il capitale, è proprio quanto il passaggio alla nuova organizzazione del lavoro, con il postfordismo, ha reso problematico e messo in discussione: con un effetto di retroazione critica sulla legittimità dell’intera operazione marxiana di vedere nel proletariato, già solo per il suo essere escluso dagli egoismi e dalle divisioni della proprietà privata, la classe per definizione capace di un sentire e di un volere universale e dunque necessariamente principio e soggetto del comunismo futuro: la classe particolare cioè che nello stesso tempo è già classe universale, perché estranea ad ogni possesso e diritto che valga contrapporre il suo «particulare» di contro a quello delle altri classi[15]

Il marxismo della contraddizione infatti, nella sua pretesa che la classe operaia e il proletariato industriale fossero, già nella loro funzione economica, sostanzialmente in opposizione e in negazione della società del capitale, e che il transito da quell’antagonismo economico all’opposizione e all’emancipazione politica necessitasse, al massimo, solo di ulteriori gradi di organizzazione e di radicalizzazione, non è mai riuscito a dar veramente conto di quello che oggi, con una brutta espressione, si chiama il simbolico, ovvero delle forme di coscienza che il capitale riesce a produrre e a generalizzare. Ha sempre cioè scisso e contrapposto contraddizione e totalizzazione, rimuovendo dalla sua scena madre, fatta di forze sociali strutturalmente in conflitto, la tendenza intrinseca del capitale di porsi come totalità che nell’unità del medesimo tempo: a) produce beni economici, merci e servizi; b) produce e riproduce rapporti di sfruttamento e di diseguaglianza sociale; c) produce immagini e rappresentazioni del mondo che negano e dissimulano quella relazione di disuguaglianza. Per dire insomma che al fondo del marxismo della contraddizione, a partire dai testi dello stesso Marx che lo hanno alimentato, c’è sempre stata una sopravalutazione e una retorica della classe lavoratrice come soggetto necessariamente rivoluzionario cui ha corrisposto una costante sottovalutazione dell’ampiezza e della portata, oltreché economica, anche ideale e culturale dell’egemonia capitalistica e della sua capacità di dissimulazione.

Come scrive correttamente D. Harvey, rifacendosi alla cosiddetta scuola della regolazione di Aglietta e Lipietz, ogni tipologia e regime di accumulazione – per dirla con Marx, ogni modo diproduzione – ha necessità, nella società capitalistica, per sussistere e riprodursi, di accompagnarsi a un modo di regolazione socialee politica, ossia ha necessità di far corrispondere ai ruoli e alle funzioni specificamente  economiche delle regole concernenti l’assetto dei valori e dei disvalori morali ed etico-politici. Il cui fine è appunto quello di produrre consenso alla regolazione economica propriamente detta. «Un particolare sistema di accumulazione può esistere ‘perché il suo sistema di riproduzione è coerente’. Il problema, tuttavia, consiste nel dare ai comportamenti di tutte le categorie di individui – capitalisti, lavoratori, dipendenti statali, finanzieri e tutti gli altri agenti politico-economici – una configurazione che permetta al regime di accumulazione di continuare a funzionare. Deve esistere, perciò, ‘una materializzazione del regime di accumulazione sotto forma di norme, consuetudini, leggi, reti di regolazione, ecc., che garantisca l’unità del processo, cioè la coerenza dei comportamenti individuali con lo schema di riproduzione. Questo insieme di norme e processi sociali interiorizzati viene definito modo di regolazione [Lipietz, 1986, p. 19]»[16]. E questa rilevanza del piano ideale e rappresentativo vale ovviamente tanto più quando, con il passaggio postfordista dal lavoro materiale al lavoro mentale, le tipologie e i modi del sapere e del credere non solo diventano centrali ma vengono anche profondamente riorganizzati all’interno della nuova forma dell’accumulazione capitalistica.

 

9.  Certo questo Marx – il Marx dell’astrazione contro il Marx della contraddizione e della rivoluzione – siamo noi a farlo nascere e a condurlo a coerenza. Ma, va aggiunto, secondo una trama teorica che, a nostro avviso, è già tutta immanente nell’opera marxiana della maturità. A condizione, come si diceva, di liberarla dall’ostinazione con cui lo stesso Marx ha preteso di presentare e legittimare la scienza del Capitale secondo forme di consapevolezza epistemologica, antropologica e politica che attengono alla sua giovinezza e alla sua vita prima del 1848. Quasi che un così grande ingegno, nella presunzione di una sostanziale continuità e immutabilità del suo pensare, non potesse tollerare di consegnarsi alla trasformazione del proprio stesso divenire e maturare.

Del resto che non sia atto d’arbitrio il nostro, di contrapporre il Marx del parricidio riuscito al Marx del parricidio mancato, utilizzando l’astrazione versus la contraddizione, appare giustificato, visto che siamo in una sorta di psicoanalisi filosofica, anche da quell’aprés coup, o retroattività del tempo, che è proprio di una feconda attività psicoanalitica e, più in generale, di un divenire storico che, raggiungendo globalità e maturazioni, consente di rileggere con maggiore acume e pienezza di significato il tempo della propria genesi e anteriorità. A mio avviso infatti il paradosso di fondo del nesso che lega Marx alla modernità riposa nel fatto che la modernità è dovuta maturare e trapassare temporalmente nella postmodernità affinché diventasse esplicito ed evidente alla maggioranza di noi – e si badi, più nel senso del sentire che non in quello del conoscere e del vedere -  quanto Marx aveva afferrato rispetto al farsi soggetto del mondo di un’astrazione, qual è la ricchezza del capitale, la logica produttivo/accumulativa e l’asservimento del mondo della qualità al mondo della quantità che ne consegue.

Solo oggi tutti noi sentiamo e soffriamo dell’astrazione che svuota le nostre vite e che s’accampa, al di là delle nostalgie metafisiche di Martin Heidegger, come il vero Essere del nostro Esserci. Solo oggi percepiamo in tutta l’atonia della nostra emotività più profonda e nell’isteria compensatrice della nostra vita di superficie quanto un universale quantitativo stia sciogliendo, nella sua accumulazione tendenzialmente infinita, tutte le relazioni e l’esperienza di natura qualitativa (non quantificabile e non monetizzabile) del nostro esistere. Quanto l’astratto cioè stia colonizzando e svuotando il concreto.

Ma appunto c’è voluta tutta la maturazione della modernità dell’Ottocento e del Novecento, il crollo dei sistemi del cosiddetto socialismo reale e la conseguente l’unificazione del mondo sotto la dimensione dell’economia capitalistica – insomma l’erigersi a sistema mondiale, pur con tutte le differenze e asimmetrie al suo interno, della civiltà del capitale – perché la scienza sistematica e circolare del Capitale divenisse da convincimento del solo Marx verità esperita e sofferta da tutti. Un gigantesco gioco di Nachträglichkeit, di retroattività storica, che dà verità alla verità di Marx, traducendo hegelianamente quello che era solo per lui in qualcosa che è per tutti noi. O, per esser più precisi, quello che – più che per Marx (ovvero presente pienamente alla sua consapevolezza) – era in Marx: ovvero per certi versi solo implicito e velato alla sua medesima autocoscienza.

Ma è tempo di immergerci in medias res e di andare sulle tracce dell’implicito, del non ancora esplicitato, dell’inconscio teorico e concettuale di Marx. Lì si cela infatti il fantasma che continua a svuotare di senso e immalinconire le nostre vite. Armiamoci dunque con fiducia di circoli, di diacronie e sincronie, di aprés coups temporali di un presente che risignifica il passato, e forse, come riteneva Platone, non temendo di compiere parricidio verso i padri terribili e venerandi, riusciremo al fine a gettare la rete e a catturare lo sfuggente e indefinibile sofista.

 

I N D I C E
Introduzione  - Dal bisogno al riconoscimento                                                                                    
Capitolo I – Materialismo storico: un paradigma da superare.              
  1.        Due coppie a confronto.
  2. Al di là del materialismo storico
  3. Un edificio di apparente solidità.
  4. L’autoconfutazione del materialismo storico e il modulo del soggetto-predicato
  5. L’«astratto» nella filosofia di Hegel.
  6. Genere contro Individuo.
  7. Il materialismo storico come filosofia della storia.
Capitolo II- Circoli e linee rette: dal materialismo storico al Capitale                                                                                                               
  1. Un’astrazione praticamente vera: dalla prima alla seconda libertà di Marx.
  2. Un nuovo paradigma di scienza.
  3. La scissione in due mondi: il «cominciamento» nel Capitale.
  4. Un soggetto che non è persona: la «determinazione formale» (Formbestimmung).
  5. Dal denaro al capitale: la distanza marxiana da Hegel.
Capitolo III – Il Capitale, ossia il parricidio marxiano di Hegel              
  1. Il salto mortale di Marx a Londra: dal lavoro alla forza-lavoro. 
  2. L’inganno della divisione del lavoro.
  3. Dallo strumento alla macchina: una discontinuità epocale.
  4. Darwin e Marx: una nuova scienza della storia.
  5. L’autofraintendimento di Marx nella Einleitung del 1857.
Capitolo IV – La vicenda del «circolo» nella storia della filosofia                                                             
  1. Leibniz: l’Essere come Autosapersi.
  2. Fichte: «L’Io pone se stesso».
  3. Hegel: il compimento del circolo. 
  4. Marx: «astrazione» contro «negazione».
Appendice. Tipologie della negazione in Hegel: variazioni e sovrapposizioni di senso.
Capitolo V - Dall’astronomia di Newton alla trasformazione dei valori in prezzi: Smith, Hegel, Marx e le disavventure dell’impersonale
  1. Il mercato, invenzione della modernità. L’impersonalità del nesso sociale.
  2. All’inizio della modernità è ancora il cielo a dettare legge alla terra.
  3. A. Smith, teorico della morale e dell’economia politica.
  4. Hegel: la dislocazione nello spazio del nesso sociale. L’impersonalità moderna come reificazione
  5. Dal valore ai prezzi: come da essenza ad apparenza.
  6. Le tre teorie dell’«ideologia» nell’opera di Marx.
Capitolo VI – Marxismi in lotta tra loro                                                        
  1. Un marxismo estenuato: tra alienazione e feticismo.
  2. Marxismo della contraddizione e marxismo dell’astrazione.
  3. La breve vita del marxismo filosofico in Italia.
  4. Althusser: la ripulsa di Hegel.
  5. Moishe Postone.
  6. Jacques Bidet.
Capitolo VII – La ragione del riconoscimento                                                    
  1. Una memoria del futuro.
  2. Tecnologie e pratiche della dissimulazione.
  3. Prolegomeni a un’emancipazione futura.
  4. Un nuovo materialismo.
  5. Aporie e limiti del «riconoscimento» in Hegel.
  6. Fuoriuscire dal capitalismo: vecchi e nuovi paradigmi.
 
Note
[1] F. Fortini, Violenza e non violenza, in Non solo oggi. Cinquantanove voci, Editori Riuniti, Roma 1991, pp. 302-303.
[2] M. Bertani, Lavoro del pensiero ed esperienza della libertà, in P.-P. Poggio (a cura di) L’ALTRONOVECENTO. Comunismo eretico e pensiero critico, II, Jaca Book, Milano 2011. pp. 589-611.
[3] A. Honneth, Autorealizzazione organizzata. Paradossi dell’individuazione, in Id., Capitalismo e riconoscimento, a cura di M. Solinas, Firenze University Press, 2010, p. 39.
[4] Cfr. R. Luperini, L’allegoria del moderno, Editori Riuniti, Roma 1990, p. 12 sgg.
[6] Su ciò cfr. H. Maier, Die ältere deutsche Staats- und Verwaltungslehre (Polizeiwissenschaft). Ein Beitrag zur Geschichte der politischen Wissenschaft in Deutschland, Luchterhand, Neuwied a.R-Berlin 1966; P. Schiera, Dall’arte di Governo alle Scienze dello stato. Il cameralismo e l’assolutismo tedesco, Giuffré. Milano 1968;. L. Firpo, La concezione amministrativa dello Stato in Germania (1550-1750), in L. Firpo (a cura), Storia delle idee politiche, economiche e sociali, UTET, Torino 1980, v. IV, I, pp. 363-442. Di P. Schiera cfr. anche le voci «Cameralismo» e «Società per ceti», in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica, UTET, Torino 1990², rispettivamente pp. 124-131 e 1067-1071.
[7] M. Weber, Economia e società, tr. it. di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Milano 1980, v. I, p. 59.
[8] Ivi, p. 60.
[9] Ivi, p. 61.
[10] K. Marx, Die technologisch-historischen Exzerpte, Historisch-kritische Ausgabe, transkiviert und herausgegeben von H.-P. Müller, Frankfurt a M. u. a. 1981.
[11] Nei quaderni di estratti del 1851 dei Beyträge di J.Beckmann Marx fa estratti abbastanza superficiali del Band I, dando più evidenza all’opera dell’allievo Poppe. Laddove nei successivi nove quaderni del 1863 dedicati a temi tecnologici, esamina, in particolare con il “Beiheft C”, tutti i cinque volumi dei Beyträge. Sull’opera di Beckmann cfr. G. Bayerl-J. Beckmann (hrsg.), Johann Beckmann (1739-1811) , Waxmann, Münster u.a., 1999.
[12] Anche la riflessione sulla tecnica svolta da M. Heidegger, che tanto rilievo ha avuto nella cultura dell’’ultimo cinquantennio, è ben lontana dal sospettare la pregnanza storica e concettuale che l’esperienza del Cameralismo e della Technologie di area germanica hanno consegnato alla tradizione moderna. Heidegger, analogamente in ciò al miglior Marx quando questi fa riferimento all’area semantica della Technologie, ha ben inteso quanto la tecnica non solo un mezzo in vista di fini, non sia cioè definibile solo attraverso una rappresentazione strumentale. In tal modo egli ha sottratto l’interpretazione della tecnica a un contesto di senso solo antropocentrico, di derivazione weberiana, incentrato sulla ragione calcolante della coerenza o meno tra mezzi e fini. Ma tale superamento di un’impostazione solo calcolante-strumentale non avviene in Heidegger attraverso una lettura storico-sociale dell’applicazione delle macchine e della scienza nei processi di produzione: bensì attraverso la teorizzazione della tecnica come appartenente all’orizzonte del «disvelamento», cioè della verità come «aletheia». «La tecnica è un modo del disvelare. La tecnica dispiega il suo essere (west) nell’ambito in cui accadono disvelare e disvelatezza (Unverborgenheit)» (M. Heidegger, La questione della tecnica, in Id, Saggi e discorsi, tr. it. a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano, 1991, p. 10). Per cui che l’essenza della tecnica non coincida con il tecnico non deriva dalla distanza semantica che Marx, sia pure con molte incertezze, ha utilizzato distinguendo tra Technik e Technologie, bensì deriva dalla misteriosa lontananza che Heidegger è tornato ad assegnare nella filosofia moderna al principio antico, per non dire arcaico, dell’Essere e al suo disvelarsi/nascondersi attraverso le varie modalità dell’invio, del «destino». Così anche l’analisi della tecnica moderna che Heidegger distingue come Gestell (im-posizione) dal pro-durre antico della poiesis, giunge ad afferrare e descrivere la tendenza infinitamente accumulativa delle energie terrestri, lo spingere sempre in avanti, il ridurre la natura a mero fondo da impiegare, quali caratteristiche principali dell’economia moderna, ma si limita a una definizione solo ecologico-ambientale di tale toglimento di limiti, che non mette mai a tema l’accumulazione del capitale e della sua ricchezza astratta come vero Essere (Sein) e Fondamento (Grund) della modernità.
[13] Su tutto ciò il riferimento indispensabile è all’opera di ricerca che Guido Frison è venuto svolgendo ormai da molti anni, e dai cui scritti io personalmente ho tratto le indicazioni fondamentali per lo studio del Cameralismo nella cultura e nella società tedesca e, insieme, per l’approfondimento della distinzione semantica e concettuale tra «Technologie» e «Tecnik». Dell’ampia produzione al riguardo di G. Frison qui basti citare: Linnaeus, Beckmann, Marx and the foundation of Technology. Between natural and social sciences: a hypothesis of an ideal type. FirstPart: Linnaeus and Beckmann, Cameralism, Oeconomia and Technologie, in History and Technology, 1993, vol. 10, pp. 139-160 – Second and Third Parts, Beckmann, Marx, Technology and Classical Economics, in «History andTechnology», 1993, vol. 10, pp. 161-173. Ma si guardi dello stesso autore anche Technical and technological innovation in Marx, in «History and Technology», 1988, vol. 6, pp. 299-324.
[14] Cfr. F. Jameson, Postmodernismo ovvero La logica culturale del tardo capitalismo, tr. it. di M.Manganelli, Fazi, Roma 2007.
[15] «Questa dissoluzione della società in quanto ceto particolare è il proletariato [..] Quando il proletariato annunzia la dissoluzione dell’ordinamento tradizionale del mondo, esso esprime soltanto il segreto della sua propria esistenza, poiché esso è la dissoluzione effettiva di questo ordinamento del mondo. Quando il proletariato esige la negazione della proprietà privata, esso eleva a principio della società solo ciò che la società ha elevato a suo principio, ciò che in esso è già impersonato senza suo apporto, in quanto risultato negativo della società» (K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in «Deutsch-Französiche Jahrbücher», trad. it. di R. Panzieri, in MEO, III, p. 203).
[16] D. Harvey, La crisi della modernità. Riflessioni sulle origini del presente, tr. it. di M. Viezzi, Net, Milano 2002, p. 151-152. Il riferimento è a A. Lipietz, New tendencies in the international division of labour: regimes of accumulation and modes of regulation, in A. Scott, M. Storper (a cura di), Production, work, territory: the geographical anatomy of industrial capitalism, Allen & Unwin, London 1988.

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