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Marx e la comune agricola russa: cui prodest?

Il Lato Cattivo

lato cattivoLa crisi attuale del modo di produzione capitalistico è comprensibilmente portatrice di un nuovo interesse per Marx. Nel magma di pubblicazioni – accademiche e non – che escono un po' ovunque, in Europa e negli Stati Uniti ma non solo, non tardano a fare capolino anche lavori di un certo interesse; che però – come spesso accade per ogni studio che sconfini nella «marxologia» – hanno il difetto di voler scoprire e far scoprire il vero Marx, di contro a tutti i falsi Marx di un passato generalmente associato ai brutti ricordi del «socialismo reale». Figlie di una teleologia che vede nella storia l'affrontarsi del Vero e del Falso, simili ambizioni – per quanto possano talvolta risultare feconde – ci dicono molte più cose sui fantasmi degli Autori in questione e sul loro tempo, che non su Marx stesso. Ogni generazione – scriveva molto giustamente Karel Kosik in Dialettica del concreto (Bompiani, Milano 1965) – cerca e scopre nel testo marxiano ciò di cui necessita per esercitare una presa teorica sul proprio presente e, di conseguenza, mette in rilievo certi aspetti di Marx per accantonarne altri; ogni generazione, insomma, si abbevera alla fonte originaria per tradurla (tradirla) una volta di più. Il Marx evoluzionista e progressista della Seconda Internazionale era forse una semplice falsificazione? O era piuttosto la lettura più naturale che di Marx si potesse dare, nelle condizioni della Belle Époque che precedettero la catastrofe della Prima Guerra mondiale? Non scrisse anche Engels che il periodo dei rivolgimenti violenti, almeno per i paesi capitalisticamente più sviluppati, era terminato?

 

«Si può immaginare che la vecchia società possa evolvere pacificamente verso la nuova, nei paesi in cui la rappresentanza popolare concentri nelle mani tutto il potere, in cui dal punto di vista costituzionale si può fare ciò che si vuole nel momento in cui si ha l'approvazione della maggioranza della nazione, e ciò vale sia per le repubbliche democratiche come la Francia e l'America, sia per i regimi monarchici come quello inglese». (Friedrich Engels, Critica del programma di Erfurt, Karl Marx & Friedrich Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1966, p.1174).

Quanto a Bordiga, che voleva una «formulazione stabile dei [...] principii e anche delle [...] regole di azione [della classe operaia, ndr], che assolva il compito e abbia la decisiva efficacia che nel passato hanno avuto dogmi, catechismi, tavole, costituzioni, libri-guida come i Veda, il Talmud, la Bibbia, il Corano, o le Dichiarazioni dei diritti» (La «invarianza» storica del marxismo, in «Programma Comunista» n.5, 15 marzo 1969), non fece in tempo a vedere, proprio nella corrente che aveva animato, quanto poco l'unità del testo sacro possa prevenire la moltiplicazione di eresie, sette, apostati e quant'altro. Tanto basta per dire che non esistono appropriazione o utilizzo di Marx che non siano mediati: non stiamo sostenendo che ci troviamo soltanto davanti a un gioco di specchi senza fine, in cui ogni interpretazione rimanda ad altre interpretazioni; ma non c'è «ritorno all'originale» che possieda il privilegio di essere scevro da filtri, non fosse che per l'appartenenza ad uno spazio e ad un tempo determinati. Principio di apprezzamento, il nostro, che è a sua volta un'interpretazione – e un'interpretazione delle interpretazioni... – ma che quanto meno ha il merito di sapersi tale e di essere, almeno da questo punto di vista, trasparente a se stesso. Ciò detto, non tutte le interpretazioni si equivalgono: tutte prodotte (più o meno direttamente) da un certo stadio o da una certa configurazione storica del rapporto fra proletariato e capitale, alcune – per il tramite di un certa lettura – riescono a coglierne gli aspetti essenziali (ad. es., negli anni 1960, la «centralità» del cosiddetto operaio massa nei punti alti dello sviluppo capitalistico), altre no. Veniamo dunque all'oggi.

Non manca di suscitare la nostra curiosità, il fatto che un certo numero di commentatori attuali attribuiscano particolare rilevanza al carteggio Marx-Zasulic sull'obščina (la comune agricola russa). Fra gli altri, il recente libro di Ettore Cinnella L'altro Marx (Della Porta, Cagliari-Pisa 2014) ne ricostruisce interamente la genesi – e ben poco gli si può eccepire dal punto di vista strettamente documentario. Ma – come dicevamo – nessuna interpretazione è innocente, e ciò dovrebbe far riflettere sulle ragioni per le quali questo tassello della produzione teorica marxiana, acquisisca interesse per i contemporanei e possa divenire, per taluni, una sorta di nuova pietra angolare. In generale, non è difficile intuire dove si voglia andare a parare: totale divergenza ed estraneità tra Marx e «marxismo»; rigetto dell'esperienza dell'URSS, previa constatazione dell'infedeltà della politica sovietica nelle campagne rispetto agli insegnamenti del Grande Maestro; anti-determinismo di Marx o presunta rottura con il suo determinismo anteriore; anti-eurocentrismo e perfino ecologismo ante-litteram di Marx.

Diciamo, in primo luogo, che nessuna delle tesi qui elencate è del tutto nuova; ma se negli anni 1960 o '70, proclamare l'estraneità reciproca tra Marx e marxismo (Maximilien Rubel) et similia, poteva avere una portata profondamente conflittuale all'interno del movimento operaio, scomparso quest'ultimo, dette tesi perdono ogni valore. Aggiungiamo che le riprese odierne di simili «derive» (molto inegualmente fondate) hanno in comune una certa maniera, ancor più spiccatamente idealistica, di concepire la realtà come divenire del concetto. Perché, altrimenti, così tanto accanimento nel voler dimostrare l'estraneità di Marx alle vicende del «socialismo reale»? Gli epigoni avrebbero dunque semplicemente «tradito» il maestro? Mai vi fu categoria esplicativa più idealistica e stupida di quella del «tradimento», nella storia del marxismo. E se invece Marx avesse davvero teorizzato, almeno in certi frangenti, qualcosa di non troppo lontano dal capitalismo di Stato sovietico? Il lettore attento della Critica del programma di Gotha (1875) non esiterà ad ammetterlo: la critica della rivendicazione socialdemocratica del «frutto integrale del lavoro» non è esente da una certa vaghezza su diversi altri punti1. Ma giacché la storia non è finalità né realizzazione dell'Idea (e men che meno realizzazione delle «idee» di Marx – vere o presunte) il problema non sussiste, o almeno non in questi termini; ed è un cedimento propagandistico il concepire come una posta in gioco ideologica di un qualche peso, l'«assoluzione» o il salvataggio di Marx (o del marxismo...) rispetto al tracollo del blocco socialista: Marx o non Marx, se non ci fosse al cuore dell'attuale modo di produzione una contraddizione in grado di farlo saltare, tutti i nostri sforzi in questo senso sarebbero donchisciotteschi. E questo ci basta. Che poi Marx abbia fatto miracoli per capirla, questa contraddizione, e che i suoi risultati ci siano ancora oggi utili, questo è un altro discorso. Viceversa, il libro di Cinnella va nella stessa direzione di altri suoi studi precedenti – rivalutazione dell'apporto contadino alle rivoluzioni russe (1905 e 1917) e delle forze politiche che ne furono espressione (populisti prima, socialisti rivoluzionari poi) – nell'intento di trovarne proprio in Marx l'autorevole giustificazione: un «tardo» Marx che, per i bisogni della causa, dovrebbe essere allora, per forza di cose, in rottura con quello del Capitale. Valuteremo più oltre la solidità effettiva di questa periodizzazione; qui ci basti dire che, al di fuori della brama tutta accademica per la «verità storica» in quanto tale, la rivalutazione del contadiname ha un senso politico, e incarna una certa maniera di rispondere (o di non rispondere) alla questione del fallimento e della dissoluzione pressoché totale del movimento operaio2, ovvero di «far tornare i conti» in un mondo in cui la contraddizione fra proletariato e capitale ha perduto ogni semplicità ed evidenza.

Poste tutte queste riserve, rimane l'interesse filologico, che è pur sempre qualcosa e che fa de L'altro Marx una ricerca quanto meno rispettabile. Ma non tutti sono fatti della stessa pasta. Ad esempio, un altro infervorato del carteggio Marx-Zasulic, Hosea Jaffe, ci spiega – in Era necessario il capitalismo? (Jaca Book, Milano 2010) – che la semplice affermazione di una qualche ineluttabilità del modo di produzione capitalistico, costituirebbe di per sé un pregiudizio eurocentrico; prendere atto del fatto che il modo di produzione capitalistico ha avuto una genesi endogena solamente in Europa occidentale e al contempo individuare nel rapporto salariale la «contraddizione principale» (l'unica, in realtà) di questo modo di produzione, sarebbe già – almeno per Jaffe – una sorta di insulto razzista rivolto ai popoli non europei, presuntivamente reputati incapaci di partorire simili delizie. Corollario di questa tesi, l'altra secondo cui il modo di produzione asiatico, sulle proprie basi, avrebbe egualmente potuto generare il comunismo, perfino meglio del MPC (unico esempio ariprova: la rivolta di Tai'ping, 1851-1864). Per Jaffe – al di là di ogni ragionevole dubbio – il comunismo non può non essere un modo di produzione, e dunque le lotte «intermodali», cioè fra modi di produzione (l'uno in gestazione e l'altro in decomposizione) non sono ancora concluse, dato che il comunismo – come tutti sanno – è ancora vivo e in forze a Cuba ed in Corea del Nord; e seppure sia ancora in ritirata strategica, non mancherà di «riconquistare posizioni», come nel RisiKo. Non lo sfiora nemmeno alla lontana, l'idea che le lotte inter-modali si concludano puntualmente con l'affermazione del modo di produzione capitalistico, e che proprio su questo dato si possa fondare la possibilità/necessità del comunismo: su questo dato, ovvero sul fatto che l'ultima classe sfruttata della storia non ha un'economia a sua propria immagine, forze produttive proprie o altre simili chincaglierie da sviluppare o su cui appoggiarsi, ma solo catene da perdere ed un mondo da ricostruire.

Infine, a dimostrarci in via definitiva che riesumare oggi l'obščina non garantisce alcun passaporto di intrinseca radicalità, è una vecchia volpe cripto-stalinista ed ex-PCI come Alberto Burgio, il quale aveva già dato prova di sé in materia anche prima di Cinnella e Jaffe (cfr. Strutture e catastrofi. Kant Hegel Marx, Editori Riuniti, Roma 2000), senza peraltro trovare difficoltà nel conciliarla con le magnifiche sorti e progressive che gli sono care.

Per venire al contenuto effettivo del carteggio Marx-Zasulic, esporremo ora la nostra3 interpretazione che, comunque sia, ci pare essere – se non per forza quella giusta – la meno avventuristica. Interpellato da Vera Zasulic in merito al destino della comune russa, Marx scrive quattro bozze, di cui tre molto lunghe ed una più concisa, che sarà poi (grosso modo) la lettera effettivamente inviata alla Zasulic e datata 8 marzo 1881. Nella sua missiva (16 febbraio 1881), Vera Zasulic interrogava Marx nei termini seguenti:

«Meglio di chiunque altro, Lei sa con quale urgenza questa questione si pone in Russia, e in particolare al nostro Partito socialista “russo”. Ultimamente, si è preteso che la comunità rurale, essendo una forma arcaica, sia condannata alla rovina dalla storia. Tra quelli che profetizzano un tale esito, vi sono anche alcuni «marxisti», che si professano Suoi discepoli [...] Lei comprende dunque quale grande piacere ci farebbe, se ci potesse esporre la Sua opinione in merito ai destini possibili delle nostre comunità rurali, e alla teoria secondo cui tutti i popoli del mondo siano costretti dalla necessità storica a percorrere tutte le fasi della produzione sociale».

Ed ecco la risposta di Marx. Prima bozza:

«Trattando la genesi della produzione capitalistica, dico che [...] “la base di tutta questa evoluzione è l'espropriazione dei coltivatori. Essa è compiuta in maniera definitiva soltanto in Inghilterra [...] Ma tutti gli altri paesi dell'Europa occidentale ripercorrono lo stesso movimento”. Ho dunque espressamente ristretto la “fatalità storica” di questo movimento ai paesi dell'Europa occidentale. [...] Andando molto indietro nel tempo, ovunque nell'Europa occidentale si trova la proprietà comune di tipo più o meno arcaico; con il progresso sociale essa scompare ovunque. Perché dovrebbe sfuggire a questa sorte nella sola Russia? A ciò rispondo: perché in Russia, grazie ad una combinazione di circostanze uniche, la comune rurale [...] può svilupparsi come elemento della produzione collettiva su scala nazionale. È precisamente grazie alla sua contemporaneità con la produzione capitalistica, che essa potrebbe appropriarsene tutte le acquisizioni positive senza passare da quelle terribili peripezie. La Russia non vive isolata dal mondo moderno; e nemmeno è preda della conquista straniera alla stessa maniera delle Indie Orientali. [...] Un'altra circostanza favorevole alla conservazione della comune rurale russa (per mezzo del suo sviluppo), oltre alla sua contemporaneità con la produzione capitalistica (nei paesi occidentali), è il fatto di essere sopravvissuta al periodo in cui quest'ultimo sistema sociale si presentava ancora integro, mentre ora – al contrario – lo si trova, in Europa occidentale come negli Stati Uniti, in lotta sia con la scienza, sia con le masse popolari, sia con le stesse forze produttive che ha generato [...] In poche parole, lo si trova in una crisi che si concluderà solamente con la sua soppressione, e con un ritorno delle società moderne al tipo «arcaico» della proprietà comune [...] Se la rivoluzione si farà in tempi opportuni, se essa concentrerà tutte le sue forze (se la parte intelligente della società russa raccoglierà tutte le forze vive del paese) per assicurare libero corso alla comune rurale, essa si svilupperà presto come elemento rigeneratore della società russa e come elemento di superiorità sui paesi dominati dal regime capitalistico [corsivi nostri, ndr].»

Seconda bozza:

«La sua storia [quella del MPC, ndr] non è ormai altro che una storia di antagonismi, di crisi, di conflitti e di disastri. [...] essa ha svelato a tutti, salvo ai ciechi per interesse, il suo carattere puramente transitorio. I popoli presso i quali essa ha avuto il più grande slancio, in Europa e negli Stati Uniti d'America, non aspirano ad altro che ad infrangere le sue catene, sostituendo la produzione cooperativa alla produzione capitalistica. […] Se la Russia si trovasse isolata dal mondo, essa dovrebbe elaborare per proprio conto le conquiste economiche chel'Europa occidentale ha acquisito soltanto attraverso una lunga serie di evoluzioni[sic!, ndr]. [...] La Russia è il solo paese in Europa in cui la proprietà comune si è mantenuta su ampia scala, su scala nazionale, ma simultaneamente la Russia esiste in un ambiente storico moderno, essa è contemporanea ad una cultura superiore, e si trova legata ad un mercato mondiale dove predomina la produzione capitalistica [corsivi nostri, ndr].»

Terza bozza:

«A parte tutte le influenze negative provenienti dall'esterno, la comune porta nel suo grembo degli elementi deleteri. [...] l'essenziale, è il lavoro parcellare come fonte di appropriazione privata [...] Esso ha dato luogo all'accumulazione di beni mobili, ad esempio bestiame, denaro, e talvolta perfino servi e schiavi.»

Infine, la lettera effettivamente inviata da Marx alla Zasulic:

«L'analisi data nel Capitale non offre dunque ragioni né pro né contro la vitalità della comune rurale, ma lo studio speciale che ne ho fatto, e per il quale ho cercato materiali nelle fonti originali, mi ha convinto che questa comune è il punto d'appoggio della rigenerazione sociale in Russia; tuttavia, affinché possa funzionare come tale, bisognerebbe innanzitutto eliminare le influenze deleterie che la assillano da ogni lato e, in seguito, assicurarle le condizioni normali di uno sviluppo spontaneo [corsivi nostri, ndr].»

Insomma, ci si può girare intorno quanto si vuole, ma alla fine non si può non constatare che l'ineluttabilità del modo di produzione capitalistico – anche se ristretta all'area europeo-occidentale – non viene rimessa in causa da Marx nemmeno per un istante, e a giusto titolo: senza sviluppo capitalistico nell'area occidentale, nessuna possibilità anche solo teorica di saltare questa tappa nell'area russo-asiatica (il problema non si porrebbe nemmeno), né produzione teorica capace di cogliere tale possibilità (Marx); la biforcazione storica possibile per l'area russo-asiatica (distruzione capitalistica dell'obščina o sua rivitalizzazione) è comprensibile soltanto sulla base dell'unità e sinergia che lega le due aree in un destino mondiale – unità oggettiva prodotta, ben prima della «globalizzazione», dalla prima area e non dalla seconda. Infine, l'elemento decisivo di questa biforcazione storica, non si trova all'interno della comune rurale (contenente essa stessa una dinamica dissolutiva endogena) e nemmeno in Russia: esso è costituito dall'acme della crisi dello sviluppo del modo di produzione capitalistico in Europa occidentale, dalla crisi del mercato mondiale, dalla sollevazione delle «masse popolari» in Occidente. La rivoluzione antizarista in Russia non può da sola salvare l'obščina, ma può essere la scintilla della rivoluzione in Occidente; sarà la questione posta da Engels dopo la morte di Marx: rapporti con il terrorismo populista e  ipotesi di un colpo di mano4.

Viceversa, i nostri «anti-deterministi», accantonando l'unità oggettiva, ripiegano – consciamente o meno – su un'opzione rivoluzionaria strettamente localistica e nazionale, in base a cui la Russia avrebbe avuto il privilegio di poter effettuare e condurre a buon fine il suo «salto», indipendentemente da qualsiasi cosa le accadesse intorno.

Detto questo, non abbiamo ancora risposto al nostro quesito iniziale: perché oggi rispolverare l'obščina? Il vero busillis si trova nella seguente equazione (che generalmente rimane implicita): non-ineluttabilità del modo di produzione capitalistico = non-ineluttabilità del proletariato. Eccola qui la porta d'accesso per tutti i possibilismi, interclassismi e a-classismi del caso, da quelli più o meno tradizionali, stile Jaffe (alleanza demo-leninista tra «popoli delle periferie » e «classe operaia dei centri») fino alle rivoluzioni «a titolo umano» (ah! che meraviglia la specie!) che poi rifluiscono, nove volte su dieci, nella più prosaica «politica di apertura verso i ceti medi» propria di ogni lotta ecologista che si rispetti (Val di Susa, Notre-Dames-des-Landes)5.

No, il modo di produzione capitalistico non era forse storicamente ineluttabile: l'epidemia di peste, che colpì l'Europa a partire dal 1348, e le altre crisi demografiche del Medioevo, avrebbero potuto interrompere la sequenza occidentale dei modi di produzione, o semplicemente disarticolare in modo irreversibile i circuiti mercantili esistenti, lasciando a se stesse le sequenze non-occidentali. Ma ciò non avvenne, e la storia non si fa con i «se»: il modo di produzione capitalistico si è affermato, e se anche non era storicamente necessario nel senso di una teleologia hegeliana (il cui processo e risultato sono già inscritti nell'Origine), esso era ed è storicamente necessario dal punto di vista del comunismo, poiché solo esso poteva produrre la classe della rivoluzione comunista – rivoluzione radicale prodotta da catene radicali. Senza questo elemento, necessario per un rivolgimento totale, ovvero «la formazione di una massa rivoluzionaria che agisce rivoluzionariamente non solo contro alcune condizioni singole della società fino allora esistente, ma contro la stessa “produzione della vita” come è stata fino a quel momento, la sua “attività totale”» (Karl Marx, L'Ideologia Tedesca, in op. cit., p. 252), è del tutto indifferente, per lo sviluppo pratico, che l’idea di questo rivolgimento sia già stata espressa mille volte (dai millenaristi, Müntzer, Fra' Dolcino etc.), come del resto dimostra la storia del comunismo. Vano è dunque tirare fuori dal cassetto le poche pagine di Marx sull'obščina, come fossero la verità rivelata su Marx e su un comunismo eco-friendly già tale dalla notte dei tempi... salvo pensare che la«verità» del rapporto capitalistico con cui hanno a che fare oggi i proletari – siano i siderurgici di Terni, gli operai-massa cinesi o i minatori del Sudafrica – risieda nelle campagne russe pre-capitalistiche del 1880.

Quanto all'eventualità che dei proletari in lotta contro questa o quella frazione della classe capitalistica, «resuscitino» forme di organizzazione comunitarie o tradizionali –che in un passato non così remoto facevano il paio con modi diversi di produrre e riprodurre la vita materiale (per ogni obščina un suo mir) – non si dimentichi che, allorché ciò accade, costoro lo fanno contro la comunità reale del capitale, non sulla base di chissà quale altra comunità e, in definitiva, assegnando ad esse una funzione essenzialmente differente da quella che simili organi potevano avere in un passato ormai... passato.

«La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi e proprio quando sembra ch’essi lavorino a trasformare se stessi e le cosea creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio; ne prendono a prestito i nomi, le parole d’ordine per la battaglia, i costumi,  per rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con queste frasi prese a prestito la nuova scena della storia.» (Karl Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, in op. cit., p.487-8, corsivi nostri).

Contrariamente a ciò che scrisse Marx per quella del secolo XIX, nessuna rivoluzione trae la propria poesia solo ed unicamente dal futuro; la rivoluzione del secolo XXI non farà eccezione. Ma con ogni evidenza, tutto ciò non ha molto a che vedere con gli scritti di Marx sull'obščina, che sono essenzialmente incentrati sui rapporti di proprietà e non sulla storia delle lotte di classe. Che si tratti di Marx o dei nostri contemporanei, per dimostrare che un incontro tra il proletariato e la comune agricola «sarebbe stato possibile», non basta stabilire un'astratta «comunità di interessi» che esiste solo nella testa di chi la proclama, bisogna essere in grado di dimostrare che tale incontro si inscriveva nella pratica dei diretti interessati, ciò che è ben lungi dall'essere un'evidenza6. Ad ogni modo, il «salto» comunitario oltre gli orrori del capitalismo non è avvenuto, e il carteggio Marx-Zasulic non aggiunge né sposta nulla di essenziale nella critica dell'economia politica7; date queste premesse, possiamo dunque abbandonarlo – almeno per il momento – alla «rodente critica dei topi»...soprattutto se ci dispensa dall'occuparci di ciò che è realmente accaduto, e di ciò che è possibile oggi su queste basi.

 

1 In particolare, la ripartizione del prodotto sociale tra mezzi di produzione e mezzi di consumo non è oggetto di indagine alcuna; Marx invoca a questo riguardo una presunta «necessità economica» oggettiva e poco altro. Inoltre, nel passaggio dall'equalizzazione incosciente (capitalistica) dei diversi processi di lavoro concreti (differenti toto coelo per struttura, intensità, complessità etc.) in un lavoro astrattamente generale (sostanza del valore), alla loro equalizzazione cosciente (socialista) attraverso la pianificazione e il sistema dei buoni di lavoro, non si vede dove stia né dove potrebbe anche solo iniziare l'abolizione del valore. In ogni caso, quella proposta da Marx nella Critica del Programma di Gotha è tutta formale, e va nel senso del principio d'identità tra concorrenza perfetta e pianificazione perfetta stabilito da Oskar Lange. Senza un'opera distruttiva, rapida e irreversibile, dei fondamenti del modo di produzione capitalistico, necessariamente coincidente con lo stadio dello scontro militare con la classe dei capitalisti (e non posteriore ad esso), non vi può essere alcuna abolizione del valore e dunque la ricostituzione del sistema salariale, a lungo andare, diventa inevitabile – anche se in forma distorta dal controllo statale, come accadde in URSS.
2 Già Pier Paolo Poggio, autore di Comune contadina e rivoluzione in Russia: l'obščina (Jaca Book,Milano 1978) aveva tracciato una traiettoria simile a quella di Cinnella, individuando nella questione del contadiname la chiave di comprensione di «ciò che è andato storto» nella storia del XX secolo: «Il problema [...] segnala una debolezza che ha minato alla radice il socialismo e il comunismo, ovvero la loro incapacità, ideologicamente motivata, di rapportarsi in modo non strumentale o distruttivo verso il mondo contadino [...]» (Pier Paolo Poggio, Il populismo russo: percorsi carsici, disponibile sul sito web della Fondazione Micheletti).
3 Per la quale ci avvaliamo della traduzione inglese del carteggio Marx-Zasulic, in appendice alla monografia curata da Teodor Shanin, The late Marx and the russian road, Monthly Review Press 1983, e della traduzione francese in appendice a (e a cura di) Roger Dangeville, Marx et la Russie, in «L'Homme et la Société», n.5, 1967, pp. 149-164. La traduzione italiana dei passaggi citati è dunque la nostra, e non quella di Bruno Maffi in Karl Marx & Friedrich Engels, India Cina Russia. Le premesse per tre rivoluzioni, Il Saggiatore, Milano 1960, che non comprende la lettera di Vera Zasulic né tutte le bozze della replica di Marx.
4 «Tale fu l'insegnamento teorico e politico affidato da Marx ed Engels ai rivoluzionari russi. Ai narodniki facevano notare che la salvezza e lo sviluppo della comune rurale dipendevano allo stesso tempo dalla caduta dello zarismo e dalla rivoluzione proletaria in Occidente; ai «marxisti» consigliavano di abbandonare ogni settarismo ideologico e di concentrare la loro attività su un solo obiettivo: raccogliere tutti gli elementi dinamici della società russa al fine di rovesciare il dispotismo zarista. “Ciò di cui è questione oggi – dichiarò Engels a Kautsky – non è un programma, è la rivoluzione. Allorché essa si metterà in marcia, non saranno i socialisti, ma i liberali a prendere il potere in Russia. Solamente allora, quando – sotto l'impulso di questa rivoluzione – la rivoluzione socialista trionferà in Europa occidentale, questa vittoria potrà avere delle ripercussioni sulla Russia, e provocarvi lo slancio del socialismo”.» (Maximilien Rubel, Marx critico del marxismo, Cappelli, Bologna 1981, p. 179). Fermo restando che il Marx «critico del marxismo» e afflitto da problemi etici proposto da Rubel, ci sembra più che discutibile...
5 Quando va bene! Perché quando va male, è gente tipo quella di Comunismo e comunità («comunisti nazionalitari») ad andare, come si dice, «in brodo di giuggiole» per il tardo Marx delle lettere sull'obščina. Per questi signori, la vera Gemeinwesen marxiana è nientemeno che la nazione, oggi tanto bistrattata dalla «globalizzazione finanziaria». Semplice mistificazione? Neanche troppo. Quando si vuole sovrapporre al corso della contraddizione di classe una dinamica antropologica, o anche far leva su una determinazione comunitaria preesistente, è molto più coerente sostituire all'essere generico (Gemeinwesen, nei termini del giovane Marx, ma soprattutto di Feuerbach) la comunità nazionale: la seconda, che è pur sempre una comunità del capitale, ha quantomeno il pregio di esistere, mentre la prima no: «Nella società borghese il lavoratore, ad esempio, ha un'esistenza del tutto priva di oggetto, solo soggettiva; ma la cosa che gli sta di fronte [cioè il capitale, ndr] ora è divenuta la sua vera comunità, che egli cerca di consumare e dalla quale viene consumato». (Marx, Grundrisse, in Opere, vol. XXIX, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 429).
6 Cfr. Dino Erba, Quale rivoluzione comunista oggi? Problemi scottanti del nostro movimento, Ed. del Gatto Rosso, Milano 2014. Questo studio imputa globalmente la responsabilità dell'«incontro mancato» al fenomeno politico del bolscevismo; ma non spiega affatto – salvo fare appello, implicitamente, alla manipolazione o, esplicitamente, a circostanze contingenti (la guerra) – come e perché il bolscevismo abbia potuto imporsi. Questa maniera di porre il problema finisce per rinforzare ciò che si propone di combattere, confermando il leninista-tipo nella rappresentazione che ha di sé (coscienza che viene dall'esterno): giacché il leninismo è concepito come un «errore» (che avrebbe potuto essere come non essere), come una sorta di sviamento o come un potere che si installa vis propria sul proletariato, ci si sente esentati dal cercare «il problema» nell'attività del proletariato in una certa fase storica, e dal comprendere come – in virtù di certi limiti che le erano inerenti – essa abbia potuto secernere o quantomeno riconoscere il bolscevismo. Ciò ci dà la misura di quanto, a forza di postulare «possibilità irrealizzate», si possa perdere completamente di vista il perché le cose sono andate proprio come sono andate. Per quanto ci riguarda, l'essenziale in proposito è stato già detto: «La critica del partito bolscevico non deve consistere in una critica della concezione leninista [...] ma in una critica storica del proletariato.» (Claude Lefort, Il proletariato e il problema della direzione rivoluzionaria, disponibile sul web a questo indirizzo: http://illatocattivo.blogspot.fr/2013/03/il-proletariato-e-il-problema-della.html )
7 Altre considerazioni di Marx sulla non-ineluttabilità dello sviluppo dell'MPC al di fuori dell'area europeo-occidentale, possono essere reperite nelle Teorie sul plusvalore, che raccolgono i materiali (incompiuti) per il libro IV del Capitale (la storia della teoria) e che storicamente precedono (1861-1863) il carteggio Marx-Zasulic.

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