Print Friendly, PDF & Email
alfabeta

Le passioni sediziose dell’operaviva

Federico Chicchi

tumblr mn31w5mUd61qaruxco1 1280È cosa nota che Marcel Duchamp decise di lasciare quella che diverrà poi la sua opera più importante, Le grand verre, incompiuta. Durante la lavorazione americana dell’opera, nel 1923, infatti, si ruppe il sottile vetro che doveva, sostituendo la tradizionale tela, contenere la sua sibillina rappresentazione. Ma come spesso accade nell’arte, l’incompiuto della forma ci dice molto sul suo contenuto espressivo rendendolo ancor più prezioso.

Per tentare di decifrare la complessa e controversa opera di Duchamp si deve partire dal suo famoso sottotitolo: La Mariée mise à nu par ses célibalaires, meme. È, in tal senso, il grande vetro, una straordinaria figurazione del rapporto tra capitalismo e desiderio, la storia di un amore impossibile tra una sposa semicompiacente e uno scapolo ansioso (Arturo Schwarz). È la storia di una interpellanza, di una chiamata, che (fortunatamente) non potrà mai realizzarsi fino in fondo, perché il rapporto sessuale non esiste. Il n'y a pas de rapport sexuel, riproporrà Lacan qualche decennio dopo. E neanche l’astuta macchina capitalistica è in grado di trasfigurare una volta per tutte, ricoprendo il buco di merci, il “mondo in giallo”. Il punto di partenza: l'Eros, motore del tutto. Chi sono i soggetti che mettono in scena l’opera di Duchamp? la Vergine nella sezione superiore del vetro a citare l'Assunzione come nei dipinti medievali e rinascimentali e i suoi Scapoli o Celibi sottostanti, in trepida, macchinica attesa di consumare e macinare gioia e dolore.

Ora questa premessa è necessaria perché sarebbe un errore interpretare il volume di Frédéric Lordon Capitalismo, desiderio e servitù, appena uscito in italiano per la nuova e promettente collana operaviva di DeriveApprodi, come un libro che, cercando di sviscerare le più interne e astute macchine del neoliberalismo, adagi senza scampo la vita alla logica del Capitale. Occorre precisarlo subito perché, in effetti, una lettura veloce e superficiale del testo potrebbe aprire la strada a questo fallace orientamento interpretativo. Sono, a mio avviso, certamente altri gli intenti dell’autore. Provo quindi di seguito a estrarne qualcuno.

Lordon apre il volume con tre citazioni, una di queste è attribuita a Deleuze. Le altre due, rispettivamente la prima e la terza, a Vinaver e a Spinoza. Il richiamo al filosofo francese (di cui però poi nel libro, per lo più, ci si dimentica) ci segnala che questo libro, questo utile e suggestivo libro, riparte esattamente da dove Deleuze e Guattari erano arrivati con i loro volumi (l’anti-Edipo e Mille piani) dedicati al rapporto tra capitalismo e schizofrenia: “Il desiderio è dell’ordine della produzione e ogni produzione è desiderante e sociale insieme” (L’anti-Edipo, p. 337). Lo scenario del capitalismo contemporaneo e neoliberale per Lordon, infatti, disegna, “ci mostra, un paesaggio passionale”. L’analisi del desiderio, o meglio del conatus, in senso spinoziano, è qui posta al centro di ogni dinamica di valorizzazione capitalistica; il modo in cui il desiderio è arruolato, allineato, ingaggiato, depredato e messo al servizio del capitalismo l’oggetto fondamentale della ricerca di Lordon. Questa tesi è costruita dall’autore secondo due mosse fondamentali tra loro strettamente combinate, e quindi anche inseparabili: a) per comprendere lo sfruttamento nel capitalismo contemporaneo occorre “combinare lo strutturalismo dei rapporti con un’antropologia delle passioni. Marx insieme a Spinoza” (p.9); b) a partire da qui assumere il dominio, e la sua gestione, non come esercizio di un “semplice bastone”, ma rendendo i dominati per lo più contenti e consenzienti rispetto alla loro condizione di assoggettamento.

Molto ordinato, chiaro e scritto con uno stile a tratti avvincente e incalzante, il libro è innanzitutto quindi, a miei occhi, importante perché produce un autentico sforzo teorico transdisciplinare per proporre un’analisi aggiornata, e quindi adeguata, dei processi di organizzazione del potere capitalistico nella contemporaneità, analisi che i concetti di sottomissione (formale e reale) utilizzati da Marx, oramai quasi due secoli fa, per quanto ancora necessari, non sono più sufficienti a consegnarci nella loro rinnovata dinamica operativa. Tale analisi, quella che vuole aggiornare l’apparato di critica al capitalismo, abbisogna, infatti, di uno sguardo che sappia de-sacralizzare e al contempo scuotere alle radici alcuni degli assiomi fondamentali del tradizionale pensiero critico. In particolare l’idea che il dominio del Capitale sia rappresentabile come un sistema di soli apparati coercitivi e disciplinari è qui denunciata con forza dall’autore e posta come fuorviante. Il testo di Lordon assume al contrario l’idea che per capire il potere neoliberale, dominio e consenso possano e debbano essere considerati come due momenti dello stesso movimento, sostenendo l’idea (neanche tanto originale, tra l’altro) che il concetto di dominio sia oggi caratterizzato “dallo spettacolo dei dominati felici”. Su questa questione specifica, che trovo fondamentale per apprezzare il volume, tornerò però più avanti, quando tenterò di indicare anche i limiti della proposta di Lordon.

Per cogliere la struttura del capitalismo occorre allora interpretarlo, seguendo il sociologo francese, come un tanto dinamico quanto specifico regime di desiderio. L’analisi dell’autore assume come momento fondamentale del suo approccio il rapporto tensivo tra le strutture soggettive e le cose sociali. È in seno a questo rapporto, mai determinato e chiuso una volta per tutte, che il metodo proposto da Lordon, definito della “genesi epito-timica”, acquista spessore (e interesse) teorico. Richiamando la teoria del campo di Bourdieu, dove gli attori convergono attraverso la reciproca accettazione delle norme che definiscono il frame del loro “gioco” sociale, l’autore definisce il capitalismo come un apparato di cattura degli immaginari desideranti, un apparato d’ingegneria dei desideri che cattura il soggetto, attraverso la selezione e la proposizione di alcuni oggetti fondamentali che poi lo animano e dinamizzano incessantemente. “L’epito-timia capitalistica, comunque inscritta nel trittico oggettuale di fondo del denaro, merce e lavoro, con forse l’aggiunta in trascendenza della grandezza come oggetto generico – per fare una forma a quattro lati, ma specificatamente ridefinita a partire dai tre vertici della base (grandezza della fortuna, dell’ostentazione e dei successi professionali) – sintetizza gli oggetti di desiderio degni di essere perseguiti e gli affetti che nascono dal loro perseguimento” (p. 72).

L’analisi si fa però ancora più stimolante e stringente quando Lordon si domanda le ragioni che portano l’attuale modello neoliberale a stravolgere le caratteristiche tradizionali del rapporto di lavoro salariato, rapporto sui cui poggia e organizza – ab origine - il rapporto di potere (e di produzione) capitalistico. L’esplosione in molteplici modi e forme del rapporto salariale nel modello liberale è consustanziale al tentativo neoliberale di allineare, senza più mediazioni, il desiderio dei lavoratori al del desiderio-padrone del capitale. Ma non è ancora sufficiente. Infatti, la stimolazione e il recupero da parte del modello delle componenti affettive, vocazionali, ed emozionali del lavoratore (e l’ingiunzione che ne segue al consumo compulsivo) ha lo scopo di instaurare, secondo Lordon, una “naturale” predisposizione dei lavoratori ad attivarsi dall’interno, spontaneamente al servizio dell’organizzazione capitalistica. È quella che viene qui definita la sedimentazione di una nuova “servitù volontaria”. Forma di servitù “decisamente particolare poiché, in effetti, gli asserviti vi acconsentono” (p. 76). Consenso, obbligo, coercizione, desiderio e godimento si impastano e si alternano fino a delimitare il territorio e la sincopata temporalità sociale del capitalismo neoliberale.

Evidentemente lo scenario che deriva dalla lettura di Lordon non può che delineare uno scenario in cui la soggettività appare per lo più subordinata, indirizzata inesorabilmente verso il desiderio dell’Altro. Lordon usa una figura efficace per leggere il paradosso di una soggettività sempre più individualizzata e al contempo (con buona pace di Durkheim) sempre più caratterizzabile da una “felice obbedienza” e dall’orientamento dei conatus: l’auto-mobile. “E benché auto-mobili, siamo irrimediabilmente eterodeterminati” (p. 80).

L’esito che produce il nuovo discorso capitalista è dunque, e qui mi sento molto in sintonia con Lordon, un soggetto che si crede indiviso e libero di agire (è quello che Alain Ehrenberg chiama l’imporsi di un nuovo stile di passione intrecciato all’emergenza dell’autonomia come imperativo sociale di soggettivazione) mentre invece il suo campo libidico, il suo desiderio, è già fin da subito confinato nell’orizzonte di quella che si può definire come soggettività fantasmagorica, in altri termini una società che sfrutta, orienta e produce, per funzionare al meglio, il fantasma soggettivo (che in senso psicoanalitico descrive la particolare modalità attraverso cui la realtà viene allucinata da ciascuno per sostenere il proprio desiderare e ottenere quote di godimento) dentro il regno della merce. Zizek chiama la qualità anfibia che caratterizza il fantasma, che permette l’instaurarsi di una connessione inedita e post-moderna tra individuo e società, il suo “scandalo ontologico”. Secondo il filosofo sloveno il fantasma appartiene, infatti, a ciò che si può definire attraverso la categoria dell’oggettivamente soggettivo. E questo è fondamentale perché spiega le ragioni profonde della necessità sia economica che ideologica della produzione di libertà nel modello neoliberale (Foucault) e al contempo svela il meccanismo osceno di formazione della monade iperegoica del contemporaneo.

La critica che invece mi sento di rivolgere al testo di Lordon riguarda la centralità che nella sua analisi sulle nuove logiche di sfruttamento continua a occupare l’impresa e il rapporto salariale. In questo senso mi pare che l’autore, pur dimostrando una certa insofferenza verso una teoria dello sfruttamento che assume il concetto marxiano di sottomissione/sussunzione come sua unica modalità di funzionamento, non segue fino in fondo le sue intenzioni, mostrando un eccesso di prudenza verso la necessità (a mio avviso oggi non più rimandabile) di comprendere le nuova logica dello sfruttamento. Logica che, pur in interazione con i processi in cui è ancora la forza-lavoro a venire direttamente interpellata dal Capitale, è la soggettività, come forza-valore, che viene direttamente chiamata in causa e processata dai nuovi dispositivi di estrazione e proprietarizzazione del valore.

D’altra parte, e in conclusione, ricordando le incrinature del “grande vetro” da cui siamo partiti, occorre sostenere con convinzione che comprendere le astute modalità attraverso cui il capitalismo neoliberale produce una nuova e allineata soggettività desiderante (Dardot e Laval) ci mette nella condizione, tutta politica, di produrre, al contempo, l’approfondimento delle incrinature che ne attraversano le stratificazioni e che devono essere continuamente saturate dal Capitale. Come preso in un inevitabile trade off, possiamo infatti credo affermare che maggiore è il livello e la capacità di penetrazione soggettiva dei diversi dispositivi mobilitati più il controllo e il governo del diagramma diverrà problematico, questo a causa della complessità crescente di gestione dei nuovi poteri molecolari. Come ha sostenuto Deleuze nel suo Foucault, ogni volta che si produce un mutamento nel capitalismo “si verifica forse anche un movimento di riconversione soggettiva con le sue ambiguità ma anche con le sue potenzialità”.

Come è possibile, allora, rivoluzionare un sistema che è costitutivamente rivoluzionario? E che sa metabolizzare e fare proprie le mosse che l’azione critica gli rivolge? Lordon propone una via che mi pare condivisibile e su cui vale la pena soffermarsi: si tratta di produrre, attraverso la crescente mobilitazione delle passioni sediziose, “una radicale emancipazione del lavoro” (p. 170). In altri termini è necessario separare il lavoro dall’attività, contro quelle interpretazioni, che lui definisce essenzialiste e antropologizzanti, che hanno invece spinto ad assimilare al lavoro “tutte le possibilità delle effettuazioni (sociali) che si offrono alle potenze di agire individuali” (p. 171). Ecco allora che l’orizzonte del comunismo pare, seguendo Lordon, potersi riaprire nell’attuale dispiegarsi della potenza dell’operaviva.

Add comment

Submit