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Ancora su destra e sinistra

Marino Badiale

sinistra destraMi sembra che il tema della dicotomia destra/sinistra, con le tesi contrapposte della sua perdurante validità oppure del suo superamento, sia sottinteso in alcune delle discussioni a cui abbiamo assistito negli ultimi tempi (per esempio quella relativa a Diego Fusaro, partita daqui e proseguita per esempio qui). Si tratta però di una tematica che resta spesso sottintesa, o magari accennata e liquidata con poche battute. Il risultato è che sul tema del superamento di destra e sinistra vi è un certo grado di confusione. Penso sia bene provare almeno a dissipare un po' di questa confusione. Un'occasione per farlo può essere questo articolo, di qualche tempo fa, di Moreno Pasquinelli, che ha il merito di affrontare esplicitamente la questione. In realtà lo scopo ultimo dell'articolo mi sembra sia quello di portare un attacco al tentativo, attribuito a Fusaro, di creare di una forza politica sovranista ma non caratterizzata in termini di destra e sinistra. Non è però di questo che intendo trattare adesso: mi interessa invece discutere la ricostruzione della genesi della tesi sul superamento di destra e sinistra (d'ora in poi, per brevità , la chiamerò ”tesi del superamento”), ricostruzione proposta da Pasquinelli all'inizio dell'articolo. Mi trovo infatti a dissentire su alcuni aspetti di tale ricostruzione, e penso che esplicitare questo dissenso possa essere un contributo a fare chiarezza su questi temi.

Pasquinelli indica due fattori causali per la nascita della “tesi del superamento”: sul piano materiale, la relativa stabilizzazione del capitalismo, avvenuta dopo i turbolenti anni Settanta del Novecento, e la conseguente “cetomedizzazione” dei ceti subalterni. Sul piano intellettuale, le critiche al marxismo sviluppate dal mondo intellettuale post-strutturalista, e in generale l'egemonia conquistata dalla “narrazione” intellettuale post-modernista. Il complesso di queste correnti intellettuali (lo “spirito del tempo”, potremmo dire) convergeva nella tesi che “le società occidentali non erano più capitalistiche ma strane amebe “post-borghesi” “. Queste posizioni avrebbero influenzato alcuni autori di estrazione marxista, come Preve. Ma con la crisi attuale esse avrebbero dimostrato di avere il fiato corto: “L'apparenza che fossimo entrati in una società post-capitalistica e post-borghese, che la storia fosse finita, che la lotta di classe fosse un ricordo di tempi andati, ha lasciato tracce ma sta esaurendo la sua forza espansiva”. La crisi, secondo Pasquinelli, porterà alla ripresa della lotta di classe e quindi alla ripresa dell'opposizione di destra e sinistra.

Fin qui l'articolo di Pasquinelli, che ho riassunto nella parte che mi interessa discutere. Credo che nel tentativo di dissipare la confusione che, come ho detto, mi sembra addensarsi in questi dibattiti, sia necessario cercare di delimitare l'oggetto della discussione. È chiaro infatti che alla “tesi del superamento” ci si può arrivare con percorsi molto diversi, ed essa può quindi avere valenze diverse. In questo articolo discuterò un ambito preciso nel quale è stata elaborata questa tesi: il gruppo intellettuale che ha pubblicato la rivista “Koiné” nella seconda metà degli anni Novanta. Farò riferimento al pensiero di Massimo Bontempelli e Costanzo Preve, che sono stati i principali "riferimenti filosofici" della rivista. Con una ulteriore precisazione: per quanto riguarda Bontempelli mi riferisco all'intero ambito della sua produzione, che conosco bene sia per letture sia per frequentazione personale. Per quanto riguarda Preve mi riferisco alla sua produzione degli anni Novanta, che conosco meglio di quella successiva. Fatte queste premesse, vediamo in che cosa la ricostruzione di Pasquinelli mi sembra poco convincente, almeno in riferimento al pensiero di Bontempelli e Preve.

 

1. Il post-modernismo: Pasquinelli, come si è detto, vede l'origine intellettuale della “tesi del superamento” nel pensiero post-strutturalista e in generale nella temperie culturale post-moderna che è egemone nel mondo occidentale almeno a partire dagli anni Ottanta. Una tale affermazione a me sembra falsa se presa in senso stretto, e vuota se presa in senso generico. Vediamo quest'ultimo punto: proprio perché il post-moderno è il pensiero egemone da decenni, è lo “spirito del tempo” (come scrivevo sopra), è ovvio che in un modo o nell'altro ne siamo stati tutti influenzati: Bontempelli, Preve, io, Pasquinelli e così via. Ma questa ovvietà non dice chiaramente nulla sul modo specifico in cui questa influenza viene elaborata: è una vuota banalità. Se si va a vedere il contenuto specifico delle tesi fondamentali di Bontempelli e Preve, si scopre che esse si contrappongono frontalmente alle tesi fondamentali del post-modernismo, e quindi la tesi dell'influenza di quest'ultimo sui primi, se presa in senso stretto, cioè come affermazione del fatto che le tesi post-moderniste si ritrovino nel pensiero di Bontempelli e Preve, è semplicemente falsa. Infatti, qual è la tesi fondamentale del post-modernismo? Mi sembra che si possa sintetizzare nella tesi della non esistenza della Verità in senso forte, nel senso che la tradizione filosofica occidentale ha ad essa attribuito. Ma la tesi fondamentale del pensiero filosofico di Bontempelli e Preve è proprio quella del carattere veritativo della filosofia. Chi sono i pensatori di riferimento del post-modernismo? Molti e variati, naturalmente, ma credo si possa affermare che Nietzsche e Heidegger sono gli autori imprescindibili. Chi sono gli autori fondamentali per Bontempelli e Preve? Anche qui molti e vari, ma il riferimento fondamentale è ad Hegel e Marx, precisamente le due “bestie nere” del post-modernismo. Tutto questo è indice di una contrapposizione radicale fra il pensiero di Bontempelli e Preve e la temperie culturale post-moderna. Per mostrare questa contrapposizione si potrebbero portare citazioni dall'intera produzione di questi due autori, ma per brevità mi limito a una citazione per uno, prese entrambe da un libro che mette assieme un testo di Bontempelli e uno di Preve: “Nichilismo Verità Storia”, edizioni CRT 1997.

Bontempelli: “Il mondo storico umano contiene dunque in sé, come suo fondamento assoluto di verità, una articolazione universale e immodificabile di significati ontologici, che rappresentano, nella loro unità dialettica, la verità fondativa dell'essere sociale” (pagg.99-100).

Preve: “In Hegel la verità diventa correttamente l'oggetto di una scienza filosofica […]. La sua eredità non viene però raccolta […]. Invece della corretta nozione hegeliana di scienza filosofica, basata sulle reciproca connessione essenziale delle parti nell'intero che ne esprime la verità, si affermano nella modernità due concezioni separate e incomunicabili di scienza e filosofia.” (pag.127).

È immaginabile che un pensatore post-moderno possa scrivere frasi del genere? A me sembra di no.

Riassumendo: il pensiero di Bontempelli e Preve si contrappone frontalmente alle tesi fondamentali del pensiero post-moderno, quindi l'idea che la “tesi del superamento”, almeno nella forma che assume in Bontempelli e Preve, sia derivata dalla temperie culturale post-moderna, appare difficile da sostenere.

 

2. Capitalismo e borghesia. La “tesi del superamento” è da Pasquinelli collegata alla tesi che la società contemporanea sia una società post-borghese e post-capitalistica. Ma quest'ultima tesi non ha davvero nulla a che fare con quanto hanno teorizzato Bontempelli e Preve. Essi hanno sostenuto una cosa completamente diversa, cioè che la società attuale è una forma di capitalismo post-borghese. Naturalmente, una simile tesi ha senso solo se si comprende che per Bontempelli e Preve la nozione di “borghesia” è distinta da quella di “capitalismo”. Non è qui il luogo per approfondire questo tema (certo molto importante), quello che voglio sottolineare è che per i due autori in questione la società moderna è una società capitalistica contro le cui ingiustizie occorre lottare, e quindi è completamente fuorviante iscriverli al gruppo dei pensatori che hanno creduto alla fine “di ogni idea di emancipazione rivoluzionaria dal capitalismo”, come scrive Pasquinelli. La cosa buffa è che questo punto, oltre a ricorrere continuamente negli scritti di Bontempelli e Preve, è anche facilmente ricavabile dal passo di Preve che lo stesso Pasquinelli cita. Infatti in esso Preve parla della classe dominante “in un primo tempo borghese-capitalistica e oggi semplicemente capitalistica (e post-borghese)”: dove si capisce chiaramente che quanto Preve sostiene è il carattere capitalistico ma non borghese dell'attuale classe dominante (e quindi, come si inferisce facilmente, degli attuali rapporti sociali). Naturalmente, la tesi della distinzione fra borghesia e capitalismo può essere discussa, criticata e rifiutata, ma non può essere stravolta. Inserire Preve (o Bontempelli) nel calderone di chi teorizza che la società contemporanea sia post-capitalistica, come sembra fare Pasquinelli, è davvero fare violenza alla verità.

Questo era quanto mi sembrava necessario dire per contrastare quella che ritengo una ricostruzione poco convincente delle origini intellettuali della “tesi del superamento”, almeno nella forma che tale tesi assume in Bontempelli e Preve.

Pasquinelli solleva però molti altri temi, indipendenti dalla discussione sul pensiero di Preve, e meritevoli di una esame approfondito, che non posso fare qui per non allungare ulteriormente questo intervento. Mi limito ad accennare brevemente a due punti importanti.

Per prima cosa, osserviamo che Pasquinelli sembra ritenere che la ripresa dello scontro di classe, inevitabile nella attuale situazione di crisi generale del capitalismo, porterà alla ripresa della contrapposizione di destra e sinistra. Questo perché egli ritiene che la dicotomia di destra e sinistra “inequivocabilmente scaturisce” dalla “opposizione tra le classi”: ma è proprio questo il punto in questione. La questione, cioè, non è se esistano il capitalismo o la lotta di classe, la questione è se la lotta di classe nel capitalismo si rappresenti politicamente sempre e comunque nella forma della contrapposizione di destra e sinistra. Secondo Bontempelli, e secondo l'autore di queste righe, non è così: la contrapposizione di destra e sinistra è una forma particolare dello scontro politico all'interno del capitalismo, che è stata superata dagli sviluppi recenti delle società capitalistiche. Naturalmente, per capirci, occorre mettersi d'accordo su cosa si intende per sinistra (e destra). La nozione proposta da Bontempelli e me si può trovare nei nostri scritti (in particolare qui e qui). In estrema sintesi, in questi testi sosteniamo che la sinistra è il luogo culturale e politico che nella modernità ha coniugato le istanze di emancipazione dei ceti subalterni con le istanze di sviluppo economico e tecnologico. La sinistra è stata vitale finché è stato possibile pensare di ottenere l'emancipazione attraverso lo sviluppo. Da alcuni decenni siamo entrati in una situazione nella quale lo sviluppo economico è essenzialmente de-emancipatorio, e questo toglie lo spazio vitale della sinistra.

Questa, dicevo, è la nozione di sinistra da noi utilizzata. Ovviamente, quanto appena detto rappresenta una semplice enunciazione dogmatica, non argomentata, di alcune tesi. Le argomentazioni si trovano nei testi citati. Riporto qui tale enunciazione solo per spiegare che la tesi del superamento di destra e sinistra è strettamente legata ad una precisa definizione di cosa si debba intendere per “sinistra”.

Vengo allora all'ultimo punto che volevo discutere: qual è la definizione di “sinistra” cui fa riferimento Pasquinelli? Essa non è esplicitata nell'articolo che stiamo discutendo, ma si trova, espressa con tutta la chiarezza necessaria, in un commento ad un altro post pubblicato su “Sollevazione”: “considero di sinistra chi e solo chi postula come necessario fuoriuscire dal capitalismo per una società dove la ricchezza venga equamente distribuita fra tutti e quindi i mezzi di produzione non siano più strumenti per i privilegi di una classe sociale (capitale) ma beni comuni, proprietà sociale”. Cioè per Pasquinelli “sinistra” è definitacome “anticapitalismo socialista” (distinto quindi da un eventuale anticapitalismo reazionario o fascista). Questa è una definizione chiara e precisa, ma ha un difetto: è in contrasto col significato che la nozione di “sinistra” ha avuto nella storia, perché esclude la sinistra riformista (nel senso storico della parola “riformismo”, che non è ovviamente quello attuale). La sinistra è stata storicamente il luogo politico di chi lottava per l'emancipazione dei ceti subalterni, ma questa lotta non coincideva necessariamente con l'anticapitalismo. Nella sinistra si sono incontrati i rivoluzionari e i riformisti, chi voleva superare il capitalismo e chi nella sostanza lo accettava cercando di indirizzarne gli sviluppi a favore delle classi subalterne. Se questo è vero (e mi pare innegabile che lo sia), introdurre l'anticapitalismo come condizione necessaria nella definizione di “sinistra” significa in realtà rifiutare la nozione di “sinistra” come è storicamente esistita, e introdurre una nozione nuova. Questo vuol dire che Pasquinelli rifiuta anch'egli la sostanza della nozione storica di “sinistra”, ma invece di mettere da parte il nome assieme alla sostanza, preferisce tenersi la scatola con l'etichetta “sinistra” dopo averne cambiato il contenuto. Si tratta di una scelta teorica che non contribuisce, mi sembra, alla chiarezza intellettuale.

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