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Spigolature economico-filosofiche

Sebastiano Isaia

soviet1. Il “comunismo” di Porro e il vino di Marx

Per il liberale-liberista Nicola Porro «il comunismo» si ha quando lo Stato diventa «l’unico imprenditore» presente sulla scena economica: lo Stato “comunista” organizza il lavoro, stabilisce i salari, adegua la produzione al consumo e all’occupazione e via di seguito. Questo, osserva Porro, lo aveva già capito Alexis de Tocqueville, il quale tra l’altro intuì l’intimo nesso esistente fra «il diritto al lavoro per tutti i cittadini garantito da parte dello Stato» e, appunto, «il comunismo», o quantomeno «una forma di socialismo i cui metodi trasformano, riducono, intralciano la proprietà individuale» (1). Di qui, il discorso di chiaro impianto liberale pronunciato da Tocqueville all’Assemblea francese il 12 settembre 1848, poi pubblicato in un opuscolo il cui titolo entusiasma molto il liberale-liberista dei nostri tempi: Discorso contro il diritto al lavoro. «Avete letto bene: contro il diritto al lavoro», precisa maliziosamente Porro, convinto, a ragione, di irritare soprattutto i feticisti della Costituzione Italiana. Una frecciata che non può certo colpire neanche di striscio chi ha sempre considerato il lavoro salariato (perché di questo ovviamente si tratta) non un «diritto umano», come proclamano i progressisti tipo Camusso e Landini, ma una condanna per chi è costretto a vendersi al Capitale in qualità di merce viva. Una condanna per i salariati («La sua attività appare a lui come tormento, la sua propria creazione come potenza estranea, la sua ricchezza come miseria») e il fondamento della società capitalistica, come insegna lo Spettro di Treviri.

Ho parlato di merce viva: in che senso? Non avrò esagerato assimilando il lavoratore a una merce? Provo a spiegare una cruda locuzione che rinvia a un concetto tanto fondamentale quanto complesso.

Con il salario il capitale non remunera immediatamente il lavoro, ossia una specifica prestazione professionale, come ci suggerisce l’apparenza dello scambio Capitale-Lavoro fissata teoricamente dalla scienza economica borghese, ma compra l’intera esistenza del lavoratore, assicurandosi così il diritto di poterne usare la capacità lavorativa (o forza-lavoro) per un certo tempo. Ciò è stato storicamente possibile perché i «liberi produttori» sono stati allontanati violentemente (anche con l’ausilio del diritto borghese) dai loro mezzi di produzione e dal prodotto del loro lavoro. Espropriazione dei liberi produttori da parte del Capitale, come scrisse Marx nel suggestivo capitolo 24 del primo libro del Capitale (La cosiddetta accumulazione originaria). A un polo il Capitale (mezzi di produzione, materie prime, merci, scienza, industria, commercio, finanza), al polo opposto il lavoratore, proprietario di mera capacità lavorativa. Questo rapporto sociale di dominio e di sfruttamento realizza la sostanza della proprietà capitalistica, la quale è in primo luogo proprietà sul tempo di lavoro altrui.

È il lavoratore che il capitalista porta per così dire a casa, ossia nel luogo predisposto al consumo di quella «merce speciale» in vista della valorizzazione dell’investimento: «Appunto in quanto capacità di creare valore la forza-lavoro viene acquistata» (2). Ne segue che la corretta domanda che la prassi capitalistica invita a formulare a chi intende carpirne i segreti non è quanto costa un peculiare tipo di lavoro, ma piuttosto quanto costa al capitalista l’esistenza del lavoratore che egli intende “mettere a profitto”. Il lavoratore, insomma, non vende capacità professionali: egli piuttosto si vende, semplicemente, anima e corpo. Questa cinica realtà naturalmente non si accorda con le illusioni che il lavoratore coltiva su se stesso in quanto depositario di formazione scolastica, capacità tecniche e di preziose esperienze professionali; è alle sue spalle che si compie la maledizione sociale che trasforma un uomo (non solo il suo lavoro) in una merce.

La forza-lavoro non è dunque che l’estrinsecazione del valore d’uso della merce-uomo, il cui valore di scambio si fissa nel mercato del lavoro come salario. Scrive Marx: «È di importanza essenziale tenere fermo questo punto: […] nello scambio tra capitale e lavoro, preso come puro rapporto di circolazione, non c’è scambio tra denaro e lavoro, ma scambio tra denaro e forza-lavoro vivente. In quanto valore d’uso la forza-lavoro viene realizzata solo nell’attività del lavoro stesso, ma esattamente nella stessa maniera in cui, comprata una bottiglia di vino [la lingua batte sempre dove vuole!], si realizza il suo valore d’uso bevendo il vino [trattasi di idea fissa!]. Il lavoro stesso cade così poco nel processo di circolazione semplice, come quella bevuta [magari!]. Il vino come possibilità, in potenza, è bevibile, e l’acquisto di vino è appropriazione di qualcosa che si può bere. Così la compera di forza-lavoro è disponibilità di lavoro. Poiché la forza-lavoro esiste nella vitalità del soggetto stesso, e si manifesta soltanto come sua propria manifestazione vitale» (3). Capite ora perché parlo di «ubriacone di Treviri»?

 

2. La proprietà capitalistica. Da Tocqueville a Mao Zedong

Scriveva Tocqueville polemizzando con i seguaci di Proudhon che «attaccano in maniera diretta o indiretta la proprietà individuale»:

«Accumulando nelle proprie mani tutti i capitali dei singoli, lo Stato diventa alla fine il proprietario unico di tutto. Ora, questo è il comunismo». No, questo è semmai il Capitalismo di Stato, e in ogni caso non è il Comunismo, almeno come esso si ricava dagli scritti di Marx, di Engels e di Lenin critici fino all’irrisione dei sostenitori del «socialismo di Stato» (4). Scrive ad esempio Engels: «Recentemente, da che Bismarck si è gettato nella statizzazione, si è presentato un certo falso socialismo, il quale dichiara senz’altro socialista ogni monopolio. […]  Ma né la trasformazione in società per azioni né quella  in proprietà dello Stato sopprime l’appropriazione capitalistica delle forze produttive. […] Lo stato moderno, quale che sia la sua forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, lo Stato dei capitalisti, l’ideale capitalista complessivo» (5).

Pubblica (statale) o privata (individuale, azionaria, ecc.) che sia la proprietà capitalistica ha sempre un carattere privato, nel senso che essa priva, cioè a dire allontana gli individui o una parte di essi dalla proprietà sulle condizioni materiali che rendono possibile la creazione e l’appropriazione della ricchezza sociale nella sua attuale forma capitalistica. Che a mantenere tutti gli individui o solo una parte di essi (i salariati) separati (alienati) da quelle condizioni materiali e dal frutto del loro lavoro sia lo Stato, in quanto Padrone capitalistico che opera in regime di monopolio assoluto, o la classe dei capitalisti che investono in regime di concorrenza (la quale, come diceva sempre il noto avvinazzato, genera sempre di nuovo il monopolio, e viceversa), ciò non muta di un solo atomo la natura sociale del regime capitalistico.

Naturalmente la cosa deve apparire in modo  del tutto diverso agli occhi dei feticisti del Moloch chiamato Stato, i quali vogliono il Capitale (in una delle sue diverse forme giuridiche), ossia il rapporto sociale capitalistico che presuppone e pone sempre di nuovo la dialettica Capitale-Lavoro salariato, ma non i capitalisti in quanto «capitale personificato»; vogliono insomma un Super sfruttatore (o padrone, o «datore di lavoro» ) e una Super classe di sfruttati (o lavoratori, salariati, «collaboratori»): è la loro idea di “socialismo”. Marx ed Engels spararono a palle incatenate contro il cosiddetto «socialismo di Stato» perché sapevano bene quanto l’idea di un solo padrone al Potere; di un solo Grande Padre che assicuri a tutti i figli-lavoratori il necessario per vivere (da lavoratori, e per tutta la vita) sia un’idea ultrareazionaria che da sempre affascina i nullatenenti. In tempi di acuta crisi sociale i populisti di “destra” e di “sinistra” sanno bene come trarre profitto da questa idea radicata nella miseria delle classi dominate, terrorizzate dalla prospettiva, sempre presente alla loro mente, di poter perdere da un giorno all’altro il pane, il tetto e i beni chiamati a soddisfare i loro più elementari bisogni. Prive di coscienza, la miseria e la precarietà generano spontaneamente solo sottomissione e impotenza.

In effetti, ciò che spontaneamente conquista i cuori dei salariati, i quali sono abituati a delegare sempre ad altri (dalla culla alla tomba, passando per scuole, uffici, ospedali, ecc.) le decisioni fondamentali che li riguardano, è un maligno connubio di nazionalismo e statalismo, ossia il desiderio di vivere un’esistenza magari modesta ma sicura e protetta nel seno del Paese che li ospita fin dalla nascita, cioè a dire nella società capitalistica concepita come la sola comunità possibile. Questa condizione disumana mi ricorda i passi di Furore a proposito del carcere McAlester:

«”E come ti trattavano a McAlester?” chiese Casy. “Mica male. Pasti regolari, biancheria di ricambio, ci sono perfino dei locali per fare il bagno. Per certi versi non si sta malaccio. L’unica cosa, si sente la mancanza di donne”. Scoppiò a ridere. “Ho conosciuto uno, anche lui in libertà vigilata, che s’è fatto rificcar dentro. […] Aveva deciso di rientrar dentro dove almeno non c’era il rischio di saltare i pasti e dove c’erano anche certe comodità. Disse che fuori di lì si sentiva sperduto, dovendo oltretutto pensare sempre al domani”» (6).

Com’è noto, del domani non c’è certezza. Il carcere con annesse donne rappresentava la miserabile “utopia” del giovane Joad. Questo, tra l’altro, aiuta a capire la nostalgia per il Capitalismo di Stato che si riscontra in ampi strati proletari dell’Europa orientale che hanno conosciuto il carcere a cielo aperto chiamato «socialismo reale». Si tratta della nota sindrome del “Si stava meglio quando si stava peggio”, che fa capolino nel mondo dei perdenti a ogni brusca accelerazione del processo sociale».

«Ognuno teneva in mano la “ciotola di ferro” e si mangiava tutti dallo stesso “grande calderone”»: questo fu il comunismo con caratteristiche cinesi realizzato da Mao secondo Yang Jisheng, autore di Tombstone, un libro dedicato alla grande carestia che devastò la Cina negli anni 1958-1962, pubblicato a Hong Kong nel 2008 e subito vietato nel resto della Cina. Chissà perché, poi… Nella Critica al programma di Gotha (1875), la cui punta critica è interamente rivolta contro lo statalismo di matrice lassalliana, Marx ironizza sugli economisti che coltivano la convinzione «che il socialismo non elimina la miseria ma può solo renderla generale e distribuirla, nello stesso tempo, sull’intera superficie della società» (7). Ora, possiamo a nostra volta ironizzare sul comunista teutonico solo se crediamo nel carattere comunista, o quantomeno socialista, della Russia di Stalin e della Cina di Mao – per non parlare degli altri “regimi comunisti” e “socialisti” sorti nel Secondo dopoguerra in ogni parte del mondo. Di quel “luminoso” retaggio sopravvivono due sole stelle: la Cina e la Corea del Nord.

 

3. Diseguaglianze e astuzia del Capitale

Danilo Taino sintetizza come segue il pensiero di Deirdre McCloskey, «l’economista anti-Piketty» che dice di ispirarsi al liberalismo di Adam Smith: «Il fallimento delle rivoluzioni liberali del 1848 ha provocato nei ceti intellettuali di Italia, Germania, Francia, Spagna una reazione contro le classi medie che è arrivata fino a oggi. Un’opposizione che ha preso la forma del conservatorismo, del materialismo storico, del marxismo, del fascismo, dello statalismo: del rifiuto della carica innovativa e liberale della borghesia» (8). Sarebbe fin troppo facile prendersela con Taino e con «l’economista anti-Piketty» per il guazzabuglio ideologico appena citato; ma a mio modesto avviso dovremmo addossarne la responsabilità in primo luogo all’intellettuale conservatore che amava (e ama) indossare i panni del “materialista storico” e del “marxista” nonostante la sua concezione economico-sociale non era (e non è) molto diversa dalle più reazionarie concezioni borghesi circa il modo di organizzare l’economia e la società in vista del «bene comune».

«Il nostro benessere», sostiene l’idealista McCloskey, «viene dalle idee. Nel 1800, il reddito giornaliero di un italiano era di tre dollari; oggi, a parità di valori, è di ottanta. In più, ci sono gli avanzamenti della medicina, dei trasporti, della tecnologia. Una completa trasformazione. Ma non è il risultato della lotta di classe, come sostiene la sinistra, o degli investimenti, come sostengono i conservatori. È il risultato delle idee che hanno prodotto innovazioni come l’elettricità, la radio, i sistemi idraulici». Guarda il caso, quelle idee hanno dovuto attendere il trionfo del Capitale per nascere nelle teste di alcuni geni e poi trovare un’applicazione tecnologicamente ed economicamente sostenibile: bizzarrie della storia che il “materialismo storico” non riuscirà mai a comprendere.

Anche James Dorn, vice presidente per gli studi monetari del Cato Journal, non ne può più della piagnucolosa retorica della diseguaglianza à la Thomas Piketty, retorica che «ignora una realtà fondamentale: qualsiasi intervento statale di eliminazione delle differenze di reddito e ricchezza rischia di erodere la libertà economica, la quale è il vero motore di una crescita che porti benefici a tutti. Reddito e ricchezza sono creati dal processo di scoperta di nuovi mercati e dall’allargamento delle possibilità di scelta degli individui. È una realtà riconosciuta da tutti che esistano differenze significative tra gli individui, in termini di abilità, motivazioni, talento imprenditoriale e caratteristiche personali. Queste differenze sono alla base dell’esistenza dei vantaggi comparati e, quindi, della possibilità di guadagnare da scambi volontari in un mercato libero e composto da soggetti privati. Sia i ricchi sia i poveri guadagnano dal libero mercato: il commercio non è un gioco a somma zero o negativa. Attaccare i ricchi, come se commettessero dei crimini, e invocare l’azione dello Stato per dar luogo a una distribuzione di reddito e ricchezza più “giusta” porta alla creazione di un ethos basato sull’invidia, piuttosto che a un sistema di valori basato sulla proprietà privata, sulla responsabilità personale e sulla libertà» (9). In altri termini, Dorn contrappone l’ideologia liberale-liberista della “destra mercatista” all’ideologia progressista della “sinistra statalista”. Detto per inciso, criminali non sono «i ricchi» ma i rapporti sociali che ne rendono possibile l’esistenza (insieme ai «poveri»: l’altra faccia della cattiva medaglia), e invocare l’aiuto dello Stato posto a difesa di questi rapporti equivale, per «i poveri», a un vero e proprio suicidio.

Scegliere fra le due opzioni ideologiche di cui sopra (liberismo/statalismo), con quel che ne segue sul piano delle decisioni politiche, significa per chi scrive decidersi per la pentola o per la brace: una “scelta” che personalmente lascio nella disponibilità del processo sociale, se non ho – e oggi con tutta evidenza non ho – la possibilità di attaccarlo alla radice. Insomma, l’alternativa qui brevemente evocata è, se osservata nella sua essenza, una falsa alternativa, perché le ideologie messe a confronto condividono la stessa matrice sociale (capitalistica) e sono entrambe al servizio dello status quo sociale.

Naturalmente sarebbe ingenuo solo pensare che un economista come Dorn possa condividere l’idea che non «la libertà economica», le «possibilità di scelta degli individui» e così via rappresentano il cuore pulsante dell’economia capitalistica, ma piuttosto la ricerca del massimo profitto, la valorizzazione del capitale investito in qualsiasi attività economica. Per il pensiero critico-radicale parlare di «libertà economica» e di «possibilità di scelta degli individui» aveva un significato ideologico (falso, capovolto) e apologetico («nonostante tutto, viviamo nel migliore dei mondi possibili!») già ai tempi del giovane Marx (1843-1844), figuriamoci che cosa deve dire di questa “libertà” e di queste “possibilità di scelta” l’anticapitalista attivo oggi, nell’epoca del Capitalismo Totalitario Mondiale. Il lettore mi scuserà l’enfasi delle maiuscole, spero.

È tipico dell’economista borghese di scuola liberista pensare la libertà umana nei termini di una “libera scelta” esercitata dal consumatore all’interno di un mercato che gli offre ogni ben di Dio e che è popolato da mille sirene che da ogni parte gli sussurrano all’orecchio: Tutto ruota intorno a te! «La società – dice Adam Smith – è una società commerciale. Ciascuno dei suoi membri è un commerciante. Si vede qui come l’economia politica fissa la forma estraniata delle relazioni sociali come la forma naturale e originaria e corrispondente alla destinazione umana» (10). È nella forma denaro, colta in tutte le sue funzioni e nel suo incessante sviluppo, che Marx individua l’espressione (non la causa!) più compiuta e disumana dell’estraniazione delle relazioni sociali realizzata dal moderno capitalismo: «Il credito è il giudizio dell’economia sulla moralità di un uomo. […] Entro il rapporto di credito, non è il denaro che viene superato nell’uomo, ma è l’uomo stesso che viene trasformato in denaro, ossia il denaro si è personificato nell’uomo. La persona umana, la morale umana è divenuta essa stessa articolo di commercio. […] Finchè l’uomo non si riconosce come uomo, finchè non ha organizzato umanamente il mondo, questa comunità appare sotto la forma dell’estraniazione. Perché il suo soggetto, l’uomo, è un essere estraniato a se stesso. […] Nel denaro […] si è rivelato il completo dominio della cosa estraniata sull’uomo» (11). Ed è precisamente alla luce di questo «completo dominio», che non smette di rafforzarsi e di radicalizzarsi, che a mio avviso va approcciato ogni serio discorso intorno alla libertà umana e, più in generale, alla condizione umana.

Scriveva Luigi Einaudi nel 1944: «Sul mercato si soddisfano domande, non bisogni. Una donna che passa davanti una vetrina sente un bisogno intenso del paio elegante di calze che vi è esposto; ma non avendo quattrini in tasca, o non avendone abbastanza, non fa alcuna domanda. Il mercato non conosce bisogni, ma domande» (12). Il bisogno incapace di pagare, che non ha modo di incontrare la merce per mancanza o insufficienza di «equivalente generale» (leggi denaro), è economicamente – e quindi socialmente – nullo. Questa mostruosità sociale che getta un potente fascio di luce sulla nostra cosiddetta civiltà umana, appariva a Einaudi alla stregua di un fatto di natura, e ciò corrispondeva alla sua concezione apologetica del Capitalismo, quella che gli fece scrivere la seguente idiozia ideologica: «Il mercato è il servo ubbidiente della domanda che c’è». Servo della «domanda che c’è» o non, piuttosto, del Capitale? In effetti, il mercato è il Capitale – ormai da oltre due secoli, almeno nel mondo cosiddetto civile.

Il teorico del liberismo in salsa italiana naturalmente vedeva le cose economiche in modo tutt’affatto diverso, e difatti egli collocò al centro della scena economica non il Capitale (che trivialità materialistica!) ma il mitico  e umanissimo «consumatore», dalle cui – supposte – libere decisioni di consumo dipenderebbe appunto l’offerta organizzata dagli imprenditori. Per lui il mercato non è che una tecnologia economica, uno strumento, più o meno sofisticato, inventato dall’uomo per assecondare la sua naturale inclinazione a vendere (offerta) e comprare (domanda), e a farlo nel modo più efficiente e razionale (in una sola parola: più economico) possibile. Questo dall’inizio dei tempi e fino a che ci saranno consumatori da soddisfare. Mutatis mutandis, è la stessa concezione “tecnologica” – strumentale – del mercato (e del denaro) che troviamo nel libro di Yanis Varoufakis È l’economia che cambia il mondo. Il marxiano feticismo (della merce, del denaro, della tecnologia, ecc.) è ciò che accomuna gli economisti di “destra” e di “sinistra”, specialisti nel separare i (presunti!) “lati buoni” del Capitalismo da quelli “cattivi”.

 

4. Ritorno a Mao, per chiudere il cerchio (forse)

«La retorica della diseguaglianza incoraggia le posizioni populiste, o persino estremiste, nel tentativo di realizzare l’egualitarismo», scrive Dorn; lungi dall’essere utile ai poveri, quella retorica piuttosto li sfavorisce. «Non c’è esempio migliore della Cina [e ti pareva!]. Con Mao Zedong, l’imprenditorialità privata venne resa illegale, così come la proprietà privata, che è il fondamento di un libero mercato. Slogan come “colpite duro contro il minimo segno di proprietà privata” lasciarono poco spazio al miglioramento delle condizioni dei poveri. Le comuni create durante il Grande Balzo in Avanti (1958-1961) e un processo decisionale centralizzato portarono alla Grande Carestia, posero fine a una società civile indipendente e costruirono una cortina di ferro attorno all’individualismo. Il governo adottò, insomma, una politica di egualitarismo forzato. Al contrario, Deng Xiaoping, il più importante leader cinese, permise il ritorno a un’economia di mercato e aprì la Cina al mondo esterno. La Cina ora è la maggiore potenza commerciale mondiale: questo dimostra che la liberalizzazione economica è la migliore cura per aumentare la libertà di scelta delle persone. Tale processo ha permesso a centinaia di milioni di persone di uscire dalla povertà. Lo slogan di Deng, “arricchirsi è glorioso”, è decisamente differente dai progetti livellatori di Mao». Si tratta di un argomento forte contro gli egualitaristi del XXI secolo, non c’è che dire. Ma siamo proprio sicuri che Mao intendesse livellare la società cinese inseguendo la “folle utopia” comunista?

Scrive Yang Jisheng: «In un periodo senza guerre, senza epidemie e con condizioni climatiche normali, sono morte di fame 30 o 40 milioni di persone. I dirigenti che causarono una tale catastrofe non erano demoni e non erano neppure pazzi, ma erano piuttosto rivoluzionari dall’intelligenza superiore alla norma e con in mente grandi ideali. La congiuntura storica ha voluto che essi guidassero la Cina a percorrere una via che seguiva il modello sovietico. […] Perché grandi ideali hanno generato grandi tragedie? Perché i rivoluzionari cinesi costruirono un si­stema sulla base di una “grande utopia”: il comunismo» (13). Questa cosa qui io non l’ho mai creduta – o bevuta. Infatti, abbastanza precocemente ho appreso dai comunisti antistalinisti che 1) lo stalinismo fu l’espressione e insieme lo strumento della controrivoluzione antiproletaria (non solo nazionale ma anche internazionale), nonché un formidabile strumento politico-ideologico posto al servizio dell’industrializzazione capitalistica a ritmi accelerati della Russia e degli interessi del Paese in quanto potenza imperialistica di rango mondiale – in assoluta continuità con la storia dell’Impero zarista; e che 2) in Cina il maoismo rappresentò l’ala più radicale, e alla fine vincente, della rivoluzione nazionale-borghese basata sui contadini (in un Paese socialmente arretrato che aveva vissuto una lunga e dolorosa esperienza di sfruttamento coloniale e imperialistico), e in un secondo tempo lo strumento dell’accumulazione capitalistica a tappe accelerate, e questo in perfetta analogia con lo stalinismo. Personalmente non ho mai svolto una critica meramente ideologica dello stalinismo e del maoismo, i quali vanno considerati innanzitutto come espressioni di reali interessi di classe e di reali tendenze storiche e sociali, di natura interna (accumulazione capitalistica, industrializzazione, modernizzazione, lotte interborghesi) e internazionale (collocazione geopolitica della Russia e della Cina, contesa interimperialistica, ecc.). Naturalmente non si può dimenticare di porre l’accento sulla stretta connessione “dialettica” tra questi due piani, testimoniata, ad esempio, dalla rottura maoista con i “fratelli” sovietici, accusati dal Grande Timoniere di praticare una politica estera «socialimperialista»; rottura (come sempre giustificata da ambo le parti tirando in ballo questioni filosofiche e ideologiche circa l’interpretazione e l’attualizzazione del “materialismo storico/dialettico”) che divise il PCC in antisovietici («corrente rossa» filomaoista) e filosovietici («corrente nera» antimaoista). L’accumulazione capitalistica a teppe forzate non è stata mai, e in nessun luogo, un pranzo di gala!

Detto en passant, oggi il Caro Leader di Pechino riscopre la “rigorosa etica maoista” solo per assestare un duro colpo ai suoi avversari politici, attaccati anche sul piano personale e neutralizzati con gli strumenti della più dura repressione. La lotta politica (sempre veicolata attraverso stilemi ideologici più o meno risibili) non si è fermata mai un solo momento nel Partito-Regime del Celeste Capitalismo.

Come ho scritto altre volte, il cosiddetto «socialismo reale» (di conio stalinista, maoista o di altro conio più o meno “originale”) non è che un capitolo particolarmente oscuro del Libro Nero del Capitalismo mondiale. Rimando ai miei studi sulla Rivoluzione d’Ottobre e sulla Cina.

«I nazisti uccidevano per odio, i comunisti per amore: tanto basta, davvero, per chiudere il discorso? Sappiamo bene che troppo spesso in Italia, negli ultimi vent’anni, l’anti-comunismo è stato una barzelletta venuta male. Un’arma di propaganda politica, caricaturale e spuntata [si allude a Berlusconi?]. Esiste invece un dovere della memoria, un dovere della comprensione di come funzionava quel terribile ingranaggio». Questo si legge nel testo redazionale dell’Istituto Bruno Leoni che introduce il PDF La grande Carestia di Jisheng. Di qui, il mio piccolo contributo per tenere viva la memoria e per spiegare «quel terribile ingranaggio». Come diceva quel tipo, «Ciascuno secondo le sue capacità» (e prospettive politiche)!

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Note
(1) Il Giornale, 31maggio 2015.
(2) K. Marx, Il Capitale, III, p. 451, Editori Riuniti, 1980.
(3) K. Marx, Scritti inediti di economia politica, p. 129, Editori Riuniti, 1963.
(4) A. de Tocqueville, Discorso contro il diritto al lavoro, da L’Intraprendente.
(5) F. Engels, La scienza sovvertita dal signor Eugenio Dühring, pp. 237-238, Luigi Mongini Editori, 1911.
(6) J. Steinbeck, Furore, p. 33, Bompiani, 1980.
(7) K. Marx,  Critica al programma di Gotha p. 48, Savelli, 1975.
(8) Corriere della sera, 27 settembre 2014.
(9) La retorica delle diseguaglianze alla prova dei fatti, Istituto Bruno Leoni.
(10) K. Marx, Scritti inediti di economia politica, p. 15.
(11) Ibidem, pp. 12-13-20.
(12) L. Einaudi, Lezioni di politica sociale, 1944, p. 22, RCS, 2009.
(13) Y. Jisheng, La grande carestia, Istituto Bruno Leoni, giugno 2015.

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