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marx xxi

L’“intellettuale collettivo”. Da Gramsci al mondo attuale*

di Alexander Höbel

Gramsci Stampa1. La riflessione di Gramsci negli scritti politici

Quello dell’intellettuale collettivo è un tema classico dell’elaborazione gramsciana, e in parte si collega a quella estrema attenzione al terreno della formazione e dell’approfondimento, al lavoro culturale organizzato, tipica della sua impostazione. Per Gramsci, cioè, come già era stato per Gobetti, “la cultura è organizzazione”, e agendo sulla formazione della coscienza di singoli e masse ha ricadute decisive sul piano politico1.

Già nel dicembre 1917, dinanzi alla proposta di una “Associazione di cultura” emersa nella sezione torinese del Partito socialista, Gramsci osservava: “Una delle più gravi lacune dell’attività nostra è questa: noi aspettiamo l’attualità per discutere dei problemi e per fissare le direttive della nostra azione”, il che fa sì che non tutti si impadroniscano “dei termini esatti delle questioni”, cosa che provoca “sbandamenti”, disorientamento, “beghe interne”. Non esiste cioè “quella preparazione di lunga mano che dà la prontezza di deliberare in qualsiasi momento”, perché chiari sono i presupposti teorici della decisione politica. “L’associazione di cultura dovrebbe [quindi] curare questa preparazione […]. Disinteressatamente, cioè senza aspettare lo stimolo dell’attualità, in essa dovrebbe discutersi tutto ciò che interessa o potrà interessare un giorno il movimento proletario”2.

Fin dagli anni giovanili, Gramsci è dunque pienamente consapevole dell’importanza del lavoro culturale e teorico, che deve essere “disinteressato” nel senso di non essere legato alla stretta attualità, ma proprio per questo può assumere una valenza politica più profonda e più generale. L’autonomia della ricerca e della cultura, anche di una ricerca e di una cultura programmaticamente partigiane, è qui affermata con grande chiarezza e lungimiranza, secondo una concezione che si ritroverà in Togliatti e che è stata smarrita negli ultimi decenni.

È questo, del resto, quello di costituire un intellettuale collettivo, il ruolo che Gramsci e compagni danno alla rivista “L’Ordine Nuovo”, “rassegna settimanale di cultura socialista”, che – come afferma il suo programma – nasce “per rispondere al bisogno profondamente sentito dai gruppi socialisti di una palestra di discussioni, studi e ricerche”, che consenta di sostituire alla “propaganda parolaia” del vecchio socialismo un discorso più organico, che muovendo dalla critica della società capitalistica e dalla sua crisi, rifletta e faccia riflettere sul possibile “ordine nuovo comunista”3. D’altra parte la nuova rivista è legata organicamente fin dalla nascita alla classe operaia torinese, e sono gli stessi operai socialisti a farsene diffusori, e in molti casi a collaborare attivamente al giornale.

Alla fine del 1919, sempre a Torino, iniziano anche i corsi della “scuola di cultura e propaganda socialista” voluta da Gramsci e dagli altri ordinovisti, e Gramsci stesso sottolinea la particolarità di tale scuola, nella quale “tra chi parla e chi ascolta” si stabilisce “una corrente viva di intelligenza e di simpatia” – quella “connessione sentimentale” di cui egli parlerà nei Quaderni – anche perché tra relatori e pubblico c’è “una unità che preesiste” e che il lavoro di formazione e dibattito rende più forte e cosciente. “La nostra scuola è viva – scrive Gramsci – perché voi, operai, portate in essa la migliore parte di voi […]. Tutta la superiorità della vostra classe la vediamo espressa in questo desiderio […] di acquistar conoscenza, di diventare capaci, padroni del vostro pensiero e dell’azione vostra, artefici diretti della storia della vostra classe”4. La cultura e la formazione, cioè, sono strumenti di emancipazione della classe, mezzi per accorciare le distanze, e non per creare o consolidare un ceto dirigente separato, come era accaduto nello stesso Partito socialista, dove operai e contadini erano stati spesso considerati “come dei bambini”5, e dove il dualismo “tra governanti e governati” aveva fatto sì che “dirigenti dotati di potere carismatico”, spesso di origine borghese o piccolo-borghese, avessero stabilito col movimento operaio “un rapporto di tipo ‘bonapartistico’, o comunque esteriormente strumentale”; è quello che Gramsci stigmatizza come “individualismo giacobino”, il quale produce i Salvemini e i Mussolini6: l’esatto contrario di quell’intellettuale collettivo che inizia a delinearsi nella mente del rivoluzionario sardo.

Del resto, questa visione di Gramsci si lega a una precisa concezione del Partito. Quest’ultimo – scrive in un importante articolo del dicembre 1919 – nel portare avanti la sua agitazione e propaganda socialista “si viene […] identificando con la coscienza storica delle masse popolari”, e così “ne governa il movimento spontaneo, irresistibile”, ma “questo governo è incorporeo, funziona attraverso milioni e milioni di legami spirituali”7, ossia politici; attraverso il consenso e l’identificazione tra partito e masse, e non come un’imposizione o comunque qualcosa di meccanico ed estraneo al movimento di massa.

È questa l’idea che Gramsci ha del Partito comunista, come si ricava anche da un articolo scritto a poche settimane dal Congresso di Livorno:

Questo miracolo dell’operaio che quotidianamente conquista la propria autonomia spirituale […] lottando contro la stanchezza, contro la noia, contro la monotonia del gesto che tende a meccanizzare e quindi a uccidere la vita interiore, questo miracolo si organizza nel Partito comunista.

È qui che l’operaio “collabora a ‘scoprire’ e a ‘inventare’ modi di vita originali […] collabora ‘volontariamente’ alla attività del mondo […] pensa, prevede, ha una responsabilità […] è organizzatore oltre che organizzato”, e infine “sente di costruire un’avanguardia” che trascina con sé “tutta la massa popolare”8.

Come ha osservato Leonardo Paggi, la risposta che Gramsci dà alla crisi del socialismo italiano e della sua forma partito alla vigilia della nascita del Partito comunista mira dunque a “una più stretta correlazione tra socialismo e cultura” e sottolinea “il ruolo che l’autoeducazione della classe operaia può svolgere nella selezione di un personale dirigente capace di sbarrare la strada alla ‘dittatura’ degli intellettuali”, il che però non porta “ad una negazione del partito politico, ma anzi ad una più forte sottolineatura del suo ruolo”9.

Gramsci lo afferma con grande nettezza: “Politicamente – scrive nel settembre del ’21 – le grandi masse non esistono se non inquadrate nei partiti politici”, i quali sotto la spinta dei movimenti sociali e di opinione “si scindono prima in tendenze”, poi “in una molteplicità di nuovi partiti”; ma “attraverso questo processo di disarticolazione, di neoassociazione, di fusione tra gli omogenei si rivela un più profondo ed intimo processo di decomposizione della società democratica per il definitivo schieramento delle classi in lotta”, pro o contro il vecchio ordine10. Di qui la necessità che il Partito comunista “diventi una unità”, cosciente e omogenea, e lavori “per determinare la coalizione di tutte le forze anticapitalistiche” – Gramsci usa proprio questa espressione – sotto la guida del proletariato11. C’è qui peraltro un’anticipazione interessante di quella idea di Fronte popolare che nel movimento operaio europeo maturerà solo dieci anni dopo, sotto l’incalzare del nazifascismo.

Quando Gramsci scrive queste righe siamo invece nel 1925, in Italia il fascismo è saldamente al potere e il Pcd’I rappresenta in pratica la sola forza organizzata antifascista rimasta in piedi. Nelle stesse settimane il rivoluzionario sardo, che assieme a Togliatti, Terracini e Tasca ha ormai preso nelle sue mani le redini del gruppo dirigente, torna a insistere sulla “necessità di una preparazione ideologica di massa”, ancora una volta non come esigenza “accademica” o peggio ancora dogmatica, ma al contrario volta a rafforzare il carattere di lotta del Partito: perché quest’ultimo “viva e sia a contatto con le masse – scrive Gramsci – occorre che ogni [suo] membro […] sia un elemento politico attivo, sia un dirigente”: per questo “è necessario che il Partito, in modo organizzato, educhi i suoi membri e ne elevi il livello ideologico”, in modo che tutti i militanti siano “posti in grado di orientarsi, di saper trarre dalla realtà gli elementi per stabilire una direttiva”, per essere insomma anche dei dirigenti di massa12. “Siamo un’organizzazione di lotte, – aggiunge in uno scritto sulla “scuola di Partito” che egli ritiene indispensabile come le cellule di officina – e nelle nostre file si studia per accrescere, per affinare le capacità di lotta dei singoli e di tutta l’organizzazione”. La “coscienza teorica” è “un’arma”, senza la quale addirittura “il Partito non esiste”13.

 Ma a quale tipo di partito pensa dunque Gramsci? È qui che si affaccia più chiaramente il tema dell’intellettuale collettivo. Nell’articolo scritto in morte di Lenin, intitolato “Capo”, egli sottolinea che “finché sarà necessario uno Stato […] si porrà il problema di avere dei capi”, e tuttavia aggiunge: “Nella quistione della dittatura proletaria il problema essenziale non è quello della personificazione fisica della funzione di comando”, ma quello della “natura dei rapporti che i capi o il capo hanno col Partito” e dei rapporti tra quest’ultimo e la classe operaia. Solo se sono rapporti “di carattere storico e organico”, frutto cioè di un processo di immedesimazione, e non “puramente gerarchici, di tipo militare”, la cosa può funzionare14. In questo senso, come osserva ancora Paggi, “il partito cessa di essere […] una macchina politica sovrapposta ai produttori, solo nella misura in cui esso funziona come organismo collettivo”, solo allorché il rapporto con le masse non è di estraneità e separatezza, ma è un legame organico e direi simbiotico, e allorché la collegialità della direzione politica si fa garante di questo carattere15. Lo stesso gruppo dirigente centrale si forma e vive non attraverso un processo che avvenga tutto ‘dall’alto con sistemi autocratici’, e nemmeno imitando le dinamiche del parlamentarismo, con un continuo scontro di gruppi, singoli e frazioni, ma attraverso un processo organico di costruzione di una volontà collettiva. Tra partito e masse – come ha notato Alberto Burgio – c’è allora un rapporto dialettico che non è mai “ a senso unico”, ma è anzi un rapporto di ‘educazione reciproca’; ed è questa anche la chiave del concetto di egemonia, che Gramsci non intende mai in termini “giacobini” ma sempre in termini leninisti, ossia appunto come un ‘rapporto pedagogico’ e un interscambio continuo tra partito e masse16.

 

2. L’elaborazione dei Quaderni

Questa concezione si ritroverà, nella sostanza immutata, anche nei Quaderni del carcere. Qui Gramsci afferma esplicitamente che “nel sistema egemonico, esiste democrazia tra il gruppo dirigente e i gruppi diretti, nella misura in cui la legislazione [dunque il sistema di regole che fissa il funzionamento di un partito come di uno Stato] favorisce il passaggio molecolare dai gruppi diretti al gruppo dirigente”, nella misura in cui cioè questa differenziazione tende a essere superata17. Nelle stesse note egli torna a porsi “il problema della formazione di una volontà collettiva”, e in particolare di come si formino “le volontà collettive permanenti”, ossia – nella sua epoca – di come si costituisce un partito:

Si tratta di un processo molecolare, minutissimo, di analisi estrema, capillare, la cui documentazione è costituita da una quantità sterminata di libri, opuscoli, di articoli […] di conversazioni e dibattiti […] che nel loro insieme gigantesco rappresentano questo lavorio da cui nasce una volontà collettiva di un certo grado di omogeneità, di quel certo grado che è necessario e sufficiente per determinare un’azione coordinata18.

In questa concezione, il partito politico nasce e si forma come intellettuale collettivo, e quello dell’analisi, della discussione e dell’approfondimento è un elemento addirittura costitutivo del suo essere, nella fase della sua formazione come nella sua vita quotidiana.

Il collegamento con l’idea dell’egemonia e col pensiero di Lenin è affermato esplicitamente: “La realizzazione di un apparato egemonico”, come è o almeno può essere un partito, per Gramsci “crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza”; in tal senso è “un fatto filosofico”, che crea “una nuova morale conforme a una nuova concezione del mondo”19. In questo senso il Partito è “moderno Principe”20, artefice di una “riforma intellettuale e morale” della società.

Dunque, ragiona Gramsci, “che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come intellettuali” è “un’affermazione che può prestarsi allo scherzo; pure, se si riflette, niente di più esatto”. Certo, “sarà da fare una distinzione di gradi” ma “non è ciò che importa: importa la funzione che è educativa e direttiva, cioè intellettuale”. E se nel sindacato “la funzione economico-corporativa […] trova il suo quadro più adatto”, nel partito “gli elementi di un gruppo sociale economico superano questo momento del loro sviluppo storico e diventano agenti di attività generali, di carattere nazionale e internazionale”. Il partito politico, cioè, tende a “elevare i membri ‘economici’ di un gruppo sociale alla qualità di ‘intellettuali politici’, cioè di organizzatori di tutte le funzioni inerenti all’organico sviluppo di una società”Dunque, ragiona Gramsci, “che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come intellettuali” è “un’affermazione che può prestarsi allo scherzo; pure, se si riflette, niente di più esatto”. Certo, “sarà da fare una distinzione di gradi” ma “non è ciò che importa: importa la funzione che è educativa e direttiva, cioè intellettuale”. E se nel sindacato “la funzione economico-corporativa […] trova il suo quadro più adatto”, nel partito “gli elementi di un gruppo sociale economico superano questo momento del loro sviluppo storico e diventano agenti di attività generali, di carattere nazionale e internazionale”. Il partito politico, cioè, tende a “elevare i membri ‘economici’ di un gruppo sociale alla qualità di ‘intellettuali politici’, cioè di organizzatori di tutte le funzioni inerenti all’organico sviluppo di una società”21.

Il Partito, insomma, osserva H.H. Holz, “diviene lo strumento per un’ampia chiarificazione, mediante cui l’individuo si trasforma in attivista politico, in membro di un collettivo organizzato, i cui spontanei rapporti col mondo subiscono una progressiva integrazione nella razionalità comune e, dunque, un processo di raffinamento intellettuale e teorico”22. Non si tratta di un processo semplice o automatico, ma del “frutto di un duro apprendistato”, di quella severa auto-disciplina, “frutto del riconoscimento delle ragioni fondanti una volontà collettiva”, su cui pure Gramsci insiste molto23.

C’è peraltro in questa visione non solo una nuova concezione del Partito, ma anche una nuova concezione dell’intellettuale, entrambe legate a quella società di massa che, esplosa dopo la prima guerra mondiale, Gramsci in carcere vede crescere parallelamente allo sviluppo del fordismo. In questo tipo di società, l’intellettuale tradizionale tende a perdere peso o vede cambiare il suo ruolo, che diventa sempre di più quello dell’“intellettuale organizzatore” o dell’intellettuale politico24. Il nesso tra teoria e pratica si fa dunque sempre più stretto, e la vecchia idea della teoria come “ancella della pratica” e dunque della politica diventa largamente anacronistica.

Una massa umana non si “distingue” – osserva Gramsci – e non diventa indipendente “per sé” senza organizzarsi […] e non c’è organizzazione senza intellettuali, cioè senza organizzatori e dirigenti, cioè senza […] uno strato di persone “specializzate” nell’elaborazione concettuale e filosofica. Ma questo processo di creazione degli intellettuali è lungo, difficile, pieno di contraddizioni, di avanzate e di ritirate.

D’altra parte, la “dialettica intellettuali-massa” è complessa e articolata: “lo strato degli intellettuali si sviluppa quantitativamente e qualitativamente, ma ogni sbalzo verso una nuova ‘ampiezza’ e complessità dello strato degli intellettuali è legato a un movimento analogo della massa […] che si innalza verso livelli superiori di cultura”, riducendo quindi il distacco e mettendo in discussione la separatezza del ceto intellettuale. In questo quadro, “i partiti selezionano individualmente la massa operante […] con un rapporto tanto più stretto tra teoria e pratica quanto più la concezione” generale del Partito è “innovatrice e antagonistica dei vecchi modi di pensare”. In tal senso, “i Partiti sono gli elaboratori delle nuove intellettualità integrali, cioè il crogiolo dell’unificazione di teoria e pratica intesa come processo storico”25. Si forma dunque una nuova intellettualità che non può essere racchiusa nelle competenze specialistiche o anche enciclopediche di un singolo, ma che necessariamente si identifica con strutture collettive, i partiti appunto, ma anche – se volgiamo lo sguardo ad oggi – i centri studi, i centri di ricerca, quelli che si chiamano i think-tanks, che la grande borghesia ha saputo organizzare con enorme abilità, proprio mentre le organizzazioni dei lavoratori smantellavano o ridimensionavano i loro. Come si vede, dunque, il tema dell’intellettuale collettivo, lungi dall’essere un reperto archeologico di un’epoca passata, è di estrema, stringente attualità.

Gramsci coglie questi processi in tempo reale, evidenzia “il sostituirsi, nella funzione direttiva, di organismi collettivi (i partiti) ai singoli individui, ai capi […]. Con l’estendersi dei partiti di massa – prosegue – […] il processo di standardizzazione dei sentimenti popolari […] diventa consapevole e critico”, avviene cioè “per ‘partecipazione attiva e consapevole’, per ‘compassionalità’ […]. Così si forma un legame stretto tra grande massa, partito, gruppo dirigente e tutto il complesso […] si può muovere come un ‘uomo collettivo’”26.

È questo uno dei passaggi dove Gramsci accenna più compiutamente a quella idea di intellettuale collettivo, la cui formulazione si deve in realtà a Palmiro Togliatti. E in effetti, come è stato osservato, è proprio al partito nuovo togliattiano, al Pci del dopoguerra, che essa può applicarsi nel modo più compiuto27. La forma del partito di massa, il suo ampio e capillare dibattito interno privo però delle cristallizzazioni correntizie, l’attenzione al momento formativo e al dibattito culturale, la promozione di migliaia di militanti al ruolo di quadri dirigenti, nel partito stesso, nelle organizzazioni di massa, nelle istituzioni locali e parlamentari, la rete di organismi e riviste collaterali al partito, tutto questo delinea una concretizzazione storica dell’intellettuale collettivo ancora da studiare e da valorizzare.

 

3. L’intellettuale collettivo nel mondo di oggi

Oggi però, rispetto ai tempi di Gramsci e di Togliatti, molte cose sono cambiate: quella straordinaria costruzione storica che è stata il Pci è stata liquidata, la forma partito di massa vive una fase di grande crisi (almeno in Italia) e i legami tra politica e cultura si sono molto allentati. Tutto questo ci impone dunque una serie di riflessioni supplementari.

Ancora una volta, però, può essere utile partire da Gramsci. “Non può esserci elaborazione di dirigenti – si legge nei Quaderni – dove manca l’attività teorica, dottrinaria dei partiti […]. Quindi scarsità di uomini di Stato, di governo, miseria della vita parlamentare, facilità di disgregare i partiti”, “il giorno per giorno […] invece della politica seria”; ma anche “miseria della vita culturale e angustia meschina dell’alta cultura”, sempre più staccata dalla realtà storica. In questo contesto, scrive Gramsci pensando alla Germania del primo dopoguerra, la burocrazia “sostituiva la gerarchia intellettuale e politica”28. Oggi basterebbe sostituire la parola “burocrazia” con “tecnocrazia” o “tecnostruttura” per avere un quadro abbastanza simile a quello descritto.

In un altro passo dei Quaderni Gramsci fa un altro ragionamento di grande interesse: “A un certo punto della vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali”, che “non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe”. A quel punto la situazione “diventa delicata e pericolosa, perché il campo è aperto […] all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici”, mentre si rafforza il “potere della burocrazia […] dell’alta finanza”. In questa che si configura come una vera e propria “crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso”, la classe dominante “muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo”; dunque “mantiene il potere, lo rafforza […] e se ne serve per schiacciare l’avversario e disperderne il personale di direzione”, i quadri politici. Ne deriva “il passaggio delle truppe di molti partiti sotto la bandiera di un partito unico [ma possono essere anche due o tre, aggiungerei] che meglio rappresenta e riassume i bisogni dell’intera classe” dominante: avviene cioè “la fusione di un intero gruppo sociale sotto un’unica direzione ritenuta sola capace di risolvere” la situazione. Insomma, “non sempre [i partiti] sanno adattarsi ai nuovi compiti e alle nuove epoche”, ma le conseguenze del loro disgregarsi sono di solito molto pesanti29.

Peraltro, una diagnosi in tempo reale della incipiente crisi dei partiti e della democrazia rappresentativa giunse alla fine degli anni Settanta da un altro importante marxista del Novecento, nato in Grecia e vissuto in Francia, Nicos Poulantzas. Quasi riprendendo il discorso dove lo aveva lasciato Gramsci, Poulantzas scriveva:

Un nuovo statalismo autoritario prende forma ai nostri giorni nei paesi capitalisti avanzati, parallelamente al declino del ruolo dei partiti politici […] lo Stato risponde alla propria crisi riorganizzandosi. […] Per mascherare questa evoluzione, la destra […] integra nel suo discorso i temi libertari che l’avevano scossa dopo il ’68 […] attraverso l’irrazionalismo ingaggia un’offensiva contro il marxismo […] nel nome di un neoliberalismo […] si appropria di temi antistatalistici.

[…] lo Stato continua a controllare la sfera della riproduzione del capitale, mentre abbandona, nel momento della crisi economica, le funzioni di stato assistenziale che le masse popolari gli avevano imposto; in nome della sicurezza […] l’ideologia dominante diffonde un discorso sulla legge e l’ordine, o sulla necessità di restringere ‘gli abusi’ delle libertà democratiche […] pratica l’autoritarismo […] ispira un ritorno razzista contro i lavoratori immigrati, contro il Terzo mondo o i paesi produttori di petrolio […].

È un testo del 1979, ma sembra scritto oggi. Poulantzas esamina poi le ricadute di questa situazione anche sul terreno della formazione del consenso. Come Gramsci, vede anch’egli un passaggio delle “procedure di legittimazione dello Stato” dai partiti agli apparati burocratici, all’“amministrazione”, a quella che egli chiama la “logica tecnocratica degli esperti”. “Attualmente – prosegue Poulantzas – l’amministrazione si pone come organizzatore politico principale, reale partito delle classi dominanti, destinato ad assimilare anche le masse popolari”; in questo quadro la socialdemocrazia “non rappresenta una soluzione di ricambio politico reale”, le élites dirigenti appaiono “intercambiabili”, si forma – e qui sembra quasi che si descriva l’Italia di questi mesi e il progetto renziano di “partito della nazione” – “un nucleo di partito unico attraverso una mistura istituzionale di forze del partito maggioritario e del principale partito di opposizione”. Infine, “la funzione ideologica principale” nella costruzione del senso comune di massa tende a passare dalla scuola e dall’università agli organi di informazione, ai mass-media, che a loro volta rilanciano l’immagine di una tecnocrazia neutra, efficiente, al di sopra delle parti. In questo quadro, a cui reagiscono sporadiche “rivolte” di carattere perlopiù settoriale, Poulantzas riteneva essenziale rilanciare il nesso democrazia-socialismo, costruire “una democrazia rappresentativa approfondita” e “nuclei di autogestione della democrazia diretta”. I partiti – aggiungeva –, lungi dall’aver esaurito la loro funzione, “costituiscono un mezzo importante di questa articolazione”, a patto che si rinnovino: in particolare i partiti dei lavoratori devono puntare su una forte “democratizzazione interna”, assumere al loro interno la “diversità sociale” di società molto più articolate, in cui il peso di intellettuali e tecnici è aumentato, e infine modificare i loro rapporti con le organizzazioni di massa e i movimenti socialipuntare su una forte “democratizzazione interna”, assumere al loro interno la “diversità sociale” di società molto più articolate, in cui il peso di intellettuali e tecnici è aumentato, e infine modificare i loro rapporti con le organizzazioni di massa e i movimenti sociali30.

Sono riflessioni che in parte si trovano anche nell’ultimo Berlinguer, quello della riforma della politica e del rinnovamento dei partiti. E il tema delle nuove forme dell’intellettuale collettivo, e si intreccia con quello del rilancio della “via democratica al socialismo” nel contesto sempre più difficile e degradato degli ultimi decenni. D’altra parte, questo contesto sempre più degradato sul piano politico offre anche degli appigli non secondari a chi voglia rilanciare un discorso sull’intellettuale collettivo e le forme della partecipazione politica adeguate a produrre il cambiamento. Nel capitalismo dei nostri giorni, quello che Manuel Castells ha definito “capitalismo informazionale”, nella odierna società dell’informazione e della comunicazione, nonostante una percentuale allarmante di “analfabetismo di ritorno”, le masse popolari sono più alfabetizzate e informate rispetto a qualche decennio fa; nell’ambito dei processi produttivi e lavorativi le abilità richieste sono sempre di più non solo di tipo manuale, il ruolo dei tecnici è fortemente cresciuto e in generale la scissione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale si va attenuando. Tutto questo crea condizioni nuove anche per la formazione di una nuova intellettualità di massa, rispetto alla quale è chiaro che il vecchio modello pedagogico del partito educatore e in qualche caso alfabetizzatore va quanto meno rivisto. La rete e i social-network creano nuovi canali di comunicazione e anche di organizzazione politica che almeno in parte sono di tipo orizzontale. E tuttavia l’esigenza del partito politico, come luogo e strumento capace di portare a sintesi una serie di istanze e battaglie che altrimenti rischiano di rimanere frammentate e parziali, mi pare rimanga immutata; di un partito però che sappia davvero essere intellettuale collettivo.

Credo che questo elemento sia centrale in particolare nel lavoro per la ricostruzione nel nostro paese di un Partito comunista unitario, che sia a sua volta parte di un fronte più ampio delle sinistre, con l’obiettivo di ridare organizzazione e rappresentanza al mondo del lavoro salariato, e di un fronte ancora più vasto delle forze democratiche, intendendo con questo aggettivo forze che siano coerentemente fedeli alla nostra Costituzione, agli ideali dell’antifascismo, del progresso sociale e della pace.

Ottant’anni fa, nel 1935, il VII Congresso dell’Internazionale comunista sanciva solennemente lo sviluppo di una grande fase della lotta politica del Novecento, quella dei fronti popolari antifascisti, nei quali oltre a comunisti e socialisti trovarono posto anche radicali, repubblicani, talvolta anarchici e cattolici di sinistra. E anche oggi, in altre latitudini del mondo – penso all’America Latina – dove si attuano grandi trasformazioni sociali e politiche e in qualche caso si sperimentano nuovi percorsi verso il socialismo, la formula dei fronti ampli sta risultando efficace e vincente. Nei fronti nessuna forza è chiamata a rinunciare alla sua autonomia, alla sua identità, alla sua organizzazione; e tutte sono chiamate a costruire processi unitari sulla base di una nuova partecipazione e di un nuovo protagonismo di massa.

Per chi nell’Italia e nell’Europa di oggi si richiama al pensiero gramsciano, tenere assieme questi aspetti – la costruzione del Partito come nuovo intellettuale collettivo, l’idea della rete e il rapporto con una più ampia intellettualità di massa che richiedono una nuova strategia egemonica, la costruzione di un fronte ampio delle sinistre – mi pare la sfida all’ordine del giorno: una sfida estremamente difficile, ma che pure vale la pena di tentare.

* Relazione al convegno “L’intellettuale collettivo”, promosso dal Centro Gramsci di educazione (Roma, Camera del deputati, 29 settembre 2015).
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Note
1 A. Burgio, Il problema dell’arretratezza delle masse e la teoria del partito negli scritti precarcerari, in Gramsci e l’Italia, a cura di R. Giacomini, D. Losurdo, M. Martelli, La Città del Sole 1994, pp. 351-379, p. 357.
2 [A. Gramsci], Per un’associazione di cultura, “Avanti!”, ed. piemontese, 18 dicembre 1917, in A. Gramsci, Scritti politici, a cura di P. Spriano, Editori Riuniti 1978, vol. I, pp. 140-143.
3 “L’Ordine Nuovo”, 1° maggio 1919.
4 [A. Gramsci], La scuola di cultura, “L’Ordine Nuovo”, 20 dicembre 1919, in Gramsci, Scritti politici, cit., vol. II, pp. 76-77.
5 [A. Gramsci], Studi “difficili”, “L’Ordine Nuovo”, 27 dicembre 1919, ivi, pp. 83-84.
6 L. Paggi, Le strategie del potere in Gramsci. Tra fascismo e socialismo in un solo paese 1923-1926, Editori Riuniti 1984, p. 308.
7 [A. Gramsci], Il Partito e la rivoluzione, “L’Ordine Nuovo”, 27 dicembre 1919, in Gramsci, Scritti politici, cit., vol. II, pp. 78-82, p. 80.
8 [A. Gramsci], Il Partito comunista, “L’Ordine Nuovo”, 4 settembre e 9 ottobre 1920, ivi, pp. 148-157, pp. 151-152.
9 Paggi, Le strategie del potere in Gramsci, cit., pp. 308-309.
10 [A. Gramsci], I partiti e la massa, “L’Ordine Nuovo”, 25 settembre 1921, in Gramsci, Scritti politici, cit., vol. III, pp. 11-14, p. 11.
11 A. Gramsci, La situazione interna al nostro Partito ed i compiti del prossimo congresso, “l’Unità”, 3 luglio 1925, in Gramsci, Scritti politici, cit., vol. III, pp. 144-156, p. 156.
12 A. Gramsci, Necessità di una preparazione ideologica di massa (1925), “Lo Stato operaio”, marzo-aprile 1931, ivi, pp. 117-122, p. 122.
13 [A. Gramsci], La scuola di Partito, “L’Ordine Nuovo”, III serie, 1° aprile 1925, ivi, pp. 114-116, pp. 115-116.
14 A. Gramsci, “Capo”, “L’Ordine Nuovo”, III serie, 1° marzo 1924, ivi, pp. 59-62, p. 59.
15 Paggi, Le strategie del potere in Gramsci, cit., p. 310.
16 Cfr. Burgio, Il problema dell’arretratezza delle masse e la teoria del partito, cit., pp. 371, 365-367. Sulla critica del giacobinismo insiste molto Paggi, Le strategie del potere in Gramsci, cit., pp. 307-310.
17 A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Einaudi 1975, p. 1056.
18 Ivi, pp. 1057-1058.
19 Ivi, p. 1250.
20 Ivi, p. 1558.
21 Ivi, p. 478. Cfr. pp. 1522-1523.
22 H.H. Holz, Il soggetto storico e la volontà collettiva, in Gramsci e la rivoluzione in Occidente, a cura di A. Burgio e A.A. Santucci, Editori Riuniti 1999, pp. 23-32, p. 31.
23 Burgio, Il problema dell’arretratezza delle masse e la teoria del partito, cit., p. 374.
24 Paggi, Le strategie del potere in Gramsci, cit., p. 321.
25 Gramsci, Quaderni del carcere, cit., pp. 1385-1387. Cfr. ivi, p. 1042.
26 Ivi, p. 1430.
27 M. Ciliberto, G. Vacca, Prefazione a P. Togliatti, La politica nel pensiero e nell’azione. Scritti e discorsi 1917-1964, a cura di M. Ciliberto, G. Vacca, Bompiani 2014, p. XVI. Per l’espressione togliattiana, utilizzata dal segretario del Pci in alcuni scritti su Gramsci e sul partito, cfr. ivi, pp. 1115, 1161-1162, 1832.
28 Gramsci, Quaderni del carcere, cit., pp. 387-388.
29 Ivi, pp. 1603-1604.
30 N. Poulantzas, La crisi dei partiti (1979), in Id., Il declino della democrazia, a cura di E. Melchionda, Mimesis 2009, pp. 211-215.

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