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scenari

Risposta ad Alain Badiou

Slavoj Žižek

Qui  la lettera di Badiou

mao e gli altri criminali 1160x480Caro compagno, caro amico,

la forza di pensiero che hai messo nella tua risposta mi ha commosso profondamente. Questa è quella che si dice una vera prova di amicizia: rifiutare le rapide (s)qualificazioni quando non si è d’accordo, e mettersi a pensare. Accetto tutte le critiche a riguardo della situazione politica e ideologica in Cina – qui, la tua conoscenza dello stato delle cose supera di molto la mia. Come sempre, al di là dei dettagli storici, tu tocchi l’essenziale, su due livelli. Innanzitutto, si tratta della particolare dimensione di “tra noi”, in cui viene a svolgersi il dibattito sulle catastrofi della sinistra. Questo è un punto cruciale, che non ha nulla a che vedere con il tentativo di minimizzare i danni. Al contrario, la nostra tesi dev’essere che solo la sinistra radicale è in grado di tracciare tutti i contorni di queste catastrofi . Un caso piuttosto aneddotico è quello del film La vita degli altri (2006), di Florian Henckel von Donnesmarck, celebrato e premiato con l’Oscar per aver fornito una riflessione sulla maniera in cui il terrorismo della Stasi penetrava in ogni singolo poro delle vite private nell’ex-DDR. È davvero così? A ben vedere, è quasi un’immagine rovesciata quella che appare: proprio come succede a molte descrizioni appassionatamente anticomuniste che illustrano la durezza di quei regimi (è utile in proposito ricordare che von Donnesmarck viene da una famiglia della nobiltà della Prussia orientale – il film è la sua rivincita dopo l’espropriazione e l’esilio!). La vita degli altri sfiora soltanto l’orrore vero della situazione, nel suo stesso tentativo di ridipingerlo. Come? Innanzitutto, gli avvenimenti del film si scatenano per mano del ministro della Cultura, corrotto, che cerca di sbarazzarsi del più famoso autore drammatico della DDR, Georg Dreyman, nell’intento di portare avanti senza ostacoli la relazione che ha intrecciato con Christa-Maria, attrice e compagna di Dreyman. Così, l’orrore insito nella struttura del tutto formale del sistema è relegato a risvolto di un personale capriccio – il che fa perdere di vista il fatto che nella DDR uno scrittore famoso come Dreyman sarebbe automaticamente e continuamente tenuto sotto controllo dalla Stasi. Non serve che entrino in gioco la lussuria e la corruzione personali del ministro per mettere in moto la sorveglianza. Il sistema avrebbe funzionato nella stessa identica maniera se al suo posto ci fossero stati burocrati ferventi e devoti. Lo scrittore a cui il ministro vuole sottrarre la donna viene idealizzato in senso inverso. Se è davvero un bravo scrittore, onesto e sinceramente devoto al sistema comunista, personalmente vicino ai personaggi di alto rango del regime (si scoprirà che Margot Honnecker, la moglie del capo del Partito, gli ha dato un libro di Solženycin strettamente vietato alla gente comune), com’è che non è entrato in conflitto con il regime? Com’è che non è stato considerato almeno un po’ problematico dal regime, e che i suoi eccessi siano stati tollerati a causa della sua fama internazionale, come accadde per tutti gli autori celebri della DDR, da Bertold Brecht, a Heiner Müller, a Christa Wolf? Qui non si può che citare una formula umoristica che descrive la vita sotto un regime comunista duro: di caratteristiche quali l’onestà personale, il sostegno sincero al regime e l’intelligenza, era possibile combinarne solo due alla volta, mai tutte e tre. Se si era onesti e si sosteneva il regime, allora non si era molto intelligenti; se si era intelligenti e si sosteneva il regime, allora non si era onesti; se si era onesti e intelligenti, allora non si sosteneva il regime. Il problema, con Dreyman, è che lui riunisce questi tre tratti. Questo e altri aspetti (per esempio, durante il ricevimento con cui si apre il film, un dissidente affronta direttamente, e in modo aggressivo, il ministro, senza incorrere in conseguenze. Se una cosa del genere era possibile, il regime era poi così terribile?) rivelano il paradosso che vuole che il fervore anticomunista stesso impedisca al film di trasporre il vero orrore della vita quotidiana nella DDR. Come tu stesso mi hai fatto notare, Alain, i Racconti della Kolyma di Varlam Chalamov sono infinitamente più precisi e dolorosi che non i testi aspramente anticomunisti di Solženycin… In secondo luogo, mi trovi profondamente d’accordo con il tuo modo di individuare il nucleo esatto del problema: non sono né i diritti dell’uomo, né l’assenza di una democrazia pluripartitica nella Cina di Mao, ecc., ma è l’urgenza di rompere il quadro esclusivo dello Stato-Partito, dell’equazione “dittatura del proletariato = dittatura del Partito”, e di porre come problema teorico e pratico quello delle forme politiche dell’organizzazione delle masse al di fuori della forma del Partito (unico o plurale). Questo problema, certo, continua a essere anche il nostro. Walter Lippmann, icona del giornalismo americano del XX secolo, ha giocato un ruolo chiave nel modo in cui la democrazia americana si autocomprende. Benché progressista da un punto di vista politico (difendeva una politica leale nei confronti dell’Unione Sovietica, etc.) ha proposto una teoria dei media di comunicazione pubblica il cui effetto è di un’agghiacciante verità. È stato lui a coniare il termine di “fabbricazione del consenso” (manufactoring consent), reso ulteriormente celebre da Chomsky. Ma Lippman lo intendeva in senso positivo. In Public Opinion (1922), scrive che una “classe governante” deve levarsi per affrontare una sfida – come per Platone, il pubblico ai suoi occhi è solo un grosso animale, o un gregge impazzito che si dimena nel “caos delle opinioni locali”. Il gregge dei cittadini, dunque, dev’essere governato da “una classe specializzata i cui interessi conducano al di là del locale”, e questa élite deve agire come una macchina del sapere, capace di tamponare il difetto principale della democrazia, ossia l’ideale impossibile del “cittadino onnicompetente”. È così che funzionano le nostre democrazie, con il nostro consenso: non c’è nulla di misterioso in quel che dice Lippmann, è un fatto evidente. Il mistero risiede piuttosto nel fatto che, conoscendolo, noi stiamo al gioco. Agiamo come se fossimo liberi e decidessimo liberamente, non solo accettando in silenzio, ma esigendo anche che un’ingiunzione invisibile (iscritta nella forma stessa del nostro libero discorso) ci dica cosa fare e cosa pensare. Come sapeva anche Marx, già molto tempo fa, il segreto sta nella forma stessa. Da questo punto di vista, in una democrazia ogni comune cittadino è effettivamente re, ma re di una monarchia costituzionale, un re che decide solo formalmente e la cui funzione è quella di vagliare le misure proposte da un’amministrazione esecutiva. Ecco perché il problema dei grandi rituali democratici è omologo al grande problema della monarchia costituzionale: come proteggere la dignità del re? Come conservare l’apparenza di un re che decide effettivamente, quando tutti sanno che non è vero? Il rimprovero essenziale che indirizziamo alla democrazia parlamentare non è il suo dare troppo potere alle masse non educate, ma, paradossalmente, il fatto che rende le masse troppo passive, lasciando l’iniziativa all’apparato del potere di Stato (in contrasto con i “soviet” dove le classi lavoratrici si mobilitano ed esercitano direttamente il potere). Quello che chiamiamo “crisi della democrazia” non si produce dunque quando la gente smette di credere al proprio potere, ma, al contrario, quando smette di avere fiducia nelle élites, in coloro che sono tenuti a sapere per la gente e a fornire delle linee di condotta, quando fa l’esperienza dell’angoscia che segnala che “il (vero) trono è vuoto”, che ormai la decisione non le appartiene VERAMENTE. Noam Chomsky ha sottolineato che “le forme democratiche non possono essere considerate serenamente se non quando la minaccia della partecipazione popolare è superata” . Così dicendo, prendeva di mira quel nucleo di “passività” della democrazia parlamentare che la rende incompatibile con l’auto-organizzazione diretta del popolo. È quello che fa di Haïti un caso particolarmente esemplare negli ultimi due decenni. Come ha scritto Peter Hallward in Damning the Flood – resoconto dettagliato della “contesa democratica” della politica radicale haïtiana durante gli ultimi vent’anni: “La tattica comprovata della ‘promozione della democrazia’ non era ancora stata applicata con effetti più devastanti di quelli che ebbe a Haïti tra il 2000 e il 2004”. Il movimento Lavalas (“inondazione”), che guadagnò il potere a due riprese in quel periodo, e che fu interrotto da golpe militari appoggiati dallo Stato, è una combinazione unica tra un agente politico, giunto sì al potere tramite libere elezioni, ma che s’inserisce coerentemente negli organi della democrazia popolare locale dell’auto-organizzazione diretta del popolo. La “libera stampa” dominata dai suoi nemici non fu mai intralciata, le manifestazioni violente e sfrenate che minacciavano in continuazione la stabilità del governo legalmente in vigore erano pienamente tollerate: ma il fine degli Stati Uniti e della Francia era d’imporre a Haïti una democrazia “normale”, che non interferisse con il potere economico della piccola élite. Ed erano ben coscienti che, per funzionare in questa maniera, la democrazia deve recidere i suoi legami con l’auto-organizzazione popolare diretta.

Malgrado i suoi errori – fin troppo evidenti – e per riprendere la formula dello stesso Aristide, che fu il primo a riconoscere gli errori del Lavalas – è meglio avere torto con il popolo che avere ragione contro di lui effettivamente, il regime Lavalas fu una delle figure di ciò a cui somiglierebbe oggi la “dittatura del proletariato”: impegnandosi realisticamente in tutti i compromessi inevitabili, è sempre rimasto fedele alla sua “base”, alla folla di gente comune, sprovvista di mezzi. Ha agito parlando nel nome di questa gente, senza “rappresentarla”, ma facendo direttamente leva sulla sua auto-organizzazione locale. Rispettando le proprie regole democratiche, il Lavalas ha mostrato chiaramente che la lotta elettorale non è il luogo in cui si decidono le cose: è molto più cruciale completare la democrazia con l’auto-organizzazione politica diretta degli oppressi. Per quanto riguarda Mao, in fondo, siamo d’accordo: benché sia un fallimento, la Rivoluzione Culturale proletaria è stata unica poiché si fondava su di un aspetto strategico, che consisteva non solo nell’impadronirsi del potere di Stato, ma nel riorganizzare economicamente la vita quotidiana. Fallì propriamente nel suo progetto di creare una nuova forma di vita quotidiana: il suo tentativo restò un’azione dell’ordine dell’eccesso carnevalesco, mentre l’apparato statale (sotto il controllo di Zhou Enlai) garantiva che la vita quotidiana e la produzione continuassero. Sul piano della realtà sociale, di certo c’è una parte di verità nel dire che la Rivoluzione Culturale fu scatenata da Mao con lo scopo di ristabilire il proprio pieno potere (seriamente intaccato all’inizio degli anni sessanta, quando, dopo il fallimento spettacolare del Grande Balzo in avanti, la maggioranza della nomenklatura in seno al Partito organizzò un putsch silenzioso contro di lui). È vero che la Rivoluzione Culturale generò sofferenze incommensurabili, che scavò profonde piaghe nel tessuto sociale e che la sua storia è anche quella di una folla che scandisce grandi slogan, in preda al fanatismo. Ma non si riduce a questo. Alla fine di tutto, prima che Mao stesso mettesse a tacere l’agitazione (una volta raggiunto il suo scopo, cioè la ripresa del potere e l’eliminazione dei membri avversari dall’alta nomenklatura), ci fu la “Comune di Shangai”: un milione di operai che, semplicemente prendendo sul serio gli slogan, esigettero l’abolizione dello Stato e del Partito stesso, nonché l’organizzazione diretta della società per mano della Comune. È significativo notare che in quel preciso momento Mao ordina all’esercito di intervenire per ristabilire l’ordine. Il paradosso risiede nel fatto che un leader, cercando di esercitare un potere personale totale, scatena un sollevamento popolare incontrollato: è la sovrapposizione di una dittatura estrema a un’estrema emancipazione delle masse. Anche se ciò è vero, in proposito resta privo di pertinenza l’argomento secondo cui la grande Rivoluzione Culturale proletaria sarebbe stata scatenata da Mao per allontanare i suoi avversari nella lotta interna al Partito e per riaffermare la sua autorità, e sarebbe stata domata grazie all’intervento dell’esercito, nel momento in cui la Comune di Shangai minacciava di diventare incontrollabile. Ciò non fa altro che ribadire il fatto che gli avvenimenti acquisirono una dinamica autonoma. Il che significa che si può leggere la Rivoluzione Culturale su due livelli diversi. Se la si legge come facente parte della realtà storica (“essere”), è facile sottoporla all’analisi “dialettica” che percepisce il risultato finale di un processo storico come “verità” di questo: in definitiva, il fallimento della Rivoluzione Culturale testimonia l’incoerenza insita nel progetto stesso (“concetto”) di Rivoluzione Culturale: è la spiegazione-dispiegamento-attualizzazione di quelle incoerenze (allo stesso modo, secondo Marx, il quotidiano volgare e non-eroico della ricerca del profitto capitalista è la “verità” del nobile eroismo rivoluzionario giacobino). Se tuttavia la si analizza come Evento, come realizzazione dell’idea eterna di Giustizia egualitaria, allora il prodotto fattuale finale della Rivoluzione Culturale, il suo catastrofico fallimento e il suo rivolgimento nella recente esplosione capitalista, non esauriscono il reale della Rivoluzione Culturale: l’idea eterna della Rivoluzione Culturale sopravvive alla sua sconfitta nella realtà sociostorica, continua a condurre la vita spettrale e sotterranea dei fantasmi e delle utopie mancate, che perseguitano le generazioni future, aspettando pazientemente la prossima resurrezione. Questo ci riporta a Robespierre, il quale ha espresso in maniera commovente la fede semplice nell’idea eterna di libertà, che persiste malgrado tutte le sconfitte e senza la quale, questo per lui era evidente, una rivoluzione “resta un crimine eclatante, che distrugge un altro crimine”. Tale fede si espresse in maniera estremamente struggente nel suo ultimo discorso, quello dell’8 Termidoro, anno II (26 luglio 1794), giorno che precedette il suo arresto e la sua esecuzione:

Ma essa esiste e io ne porto testimonianza, animi sensibili e puri; esiste, questa tenera passione, imperiosa, irresistibile, tormento e delizia dei cuori magnanimi, quest’orrore profondo della tirannia, questo zelo compassionevole per gli oppressi, questo sacro amore per la patria, questo amore più sublime e più santo dell’umanità, senza il quale una grande rivoluzione resta un crimine eclatante che distrugge un altro crimine. Esiste, questa generosa ambizione di fondare sulla terra la prima repubblica del mondo. (Histoire parlementaire de la Révolution française, P.-J. B. Buchez et P.-C. Roux, Paris, Paulin, 18341838, p. 419.)

Questo non vale forse altrettanto, e ancora di più, per l’ultimo grande episodio nella vita di quest’idea, la Rivoluzione Culturale maoista? Senza quest’idea che nutriva l’entusiasmo rivoluzionario, la Rivoluzione Culturale non sarebbe stata, ad un grado più elevato, altro che “un crimine eclatante che distrugge un altro crimine”. Qui bisognerebbe ricordare le sublimi parole di Hegel sulla Rivoluzione francese, in Lezioni sulla fi losofia della storia:

Hanno detto che la Rivoluzione francese è venuta fuori dalla filosofia e non è un caso se hanno chiamato la filosofia saggezza universale [Weltweisheit], dato che essa non è solo la verità in sé e per sé, in quanto pura essenza, ma anche la verità per come diventa vivente nel mondo reale. Dunque, qui non si devono sollevare obiezioni in merito, quando si dice che la Rivoluzione ha ricevuto il suo primo impulso dalla filosofia. […] Da che il sole si trova nel firmamento e da che i pianeti vi ruotano intorno, non si era visto l’uomo mettersi con la testa in basso, cioè basarsi sull’idea e costruire la realtà a partire da essa. […] È solo ora che l’uomo è giunto a riconoscere che il pensiero deve reggere la realtà spirituale. Dunque, quello era un superbo tramonto. Tutti gli esseri pensanti hanno celebrato quell’epoca. Una sublime emozione ha governato, in quel tempo. L’entusiasmo dello spirito ha fatto rabbrividire il mondo, come se in quel mentre si fosse giunti alla vera e propria riconciliazione del divino con il mondo. (Leçons sur la philosophie de l’histoire, trad. Gibelin, Paris, Vrin, 1963, pp. 339-340.)

Naturalmente, ciò non impedì a Hegel di analizzare in maniera fredda la necessità, interna a questa esplosione di libertà astratta, di trasformarsi nel proprio contrario, il terrore rivoluzionario autodistruttore. Tuttavia, non si deve perdere di vista che la critica di Hegel è immanente e ammette il principio fondamentale della Rivoluzione francese (e il suo supplemento decisivo, la Rivoluzione haïtiana). Ed è esattamente quel che si dovrebbe fare con la Rivoluzione d’ottobre (e, più in là, con la Rivoluzione cinese): come hai sottolineato tu, Alain, quello fu il primo caso in tutta la storia dell’umanità in cui una rivolta di pochi sfruttati ebbe un qualche esito: quelli che erano i membri di grado zero della nuova società ne definirono i criteri. La rivoluzione si cristallizzò in nuovo ordine sociale, un nuovo mondo fu creato, e miracolosamente sopravvisse per più decenni, sopportando incredibili pressioni, in condizioni d’isolamento economico e militare. Infatti, fu un’“alba superba”. Contro tutti gli ordini gerarchici, l’universalità egualitaria accedeva direttamente al potere. Un dilemma filosofico fondamentale sottende quest’alternativa: sembrerebbe che l’unico punto di vista hegeliano conseguente sia quello che consiste nel valutare il concetto sulla base del successo o del fallimento della sua attualizzazione, in maniera tale che nella prospettiva della totale mediazione dell’essenza tramite il suo apparire, ogni trascendenza dell’idea rispetto alla sua attualizzazione sarebbe screditata. Ne deriva che insistere sul fatto che l’idea eterna sopravvive alla sua sconfitta storica, necessariamente implica una regressione – per dirla in termini hegeliani, dal livello del concetto come unità pienamente attualizzata dell’essenza e dell’apparire, al livello dell’essenza che è supposta trascendere l’apparenza. Eppure è davvero così? Si può anche pretendere che l’eccesso di idea utopistica che soppravvive alla sua sconfitta storica non contraddica la mediazione totale dell’idea e della sua apparizione: permane valida l’idea fondamentale hegeliana, secondo cui il fallimento della realtà nell’attualizzare pienamente un’idea è contemporaneamente il fallimento (il limite) dell’Idea stessa. C’è solo una cosa da aggiungere: la differenza che separa l’idea dalla sua attualizzazione segnala una differenza all’interno di quella stessa idea. Questo spiega perché l’idea spettrale che continua a perseguitare la realtà storica segnala la falsità della nuova realtà storica stessa, la sua inadeguatezza al suo medesimo concetto. Il fallimento dell’utopia giacobina, la sua attualizzazione nella realtà borghese utilitaria, è contemporaneamente il limite di questa stessa realtà utilitaria. È utile quindi rovesciare la lettura comunemente approvata di “Kant con Sade” di Lacan, secondo cui la perversione sadiana è la “verità” più “radicale” di Kant – detto altrimenti, essa giunge a conseguenze che nemmeno Kant ha avuto il coraggio di affrontare. Non è in questo senso che Sade è la verità di Kant. Al contrario, la perversione sadiana appare come il risultato del compromesso kantiano, dovuto al fatto che Kant si è sottratto alle conseguenze della sua stessa apertura. Sade è il sintomo di Kant: se è vero che Kant ha evitato di trarre tutte le conseguenze dalla sua rivoluzione etica, lo spazio della fi gura di Sade viene aperto dal compromesso di Kant, dalla sua reticenza nell’andare fi no in fondo, nel restare interamente fedele alla propria apertura filosofica. Lungi dall’essere semplicemente e direttamente “la verità di Kant”, Sade è il sintomo in quanto Kant ha tradito la verità della sua stessa scoperta: l’osceno jouisseur sadiano è uno stigma, che testimonia del compromesso etico di Kant. La “radicalità” apparente di questa fi gura (la disposizione dell’eroe sadiano ad andare fi no al fondo della sua volontà di godimento) è una maschera del suo esatto contrario. In altri termini, il vero orrore non è l’orgia sadiana, bensì il cuore reale dell’etica kantiana stessa. Parafrasando ancora una volta Brecht, che cos’è mai il male, miserabile, di un’orgia collettiva sadiana, paragonato al “male diabolico” che si rapporta al puro atto etico? E, mutatis mutandis, lo stesso vale per la relazione tra la Rivoluzione Culturale cinese e l’esplosione dello sviluppo capitalista odierno come sua “verità”: questa esplosione è anche un segno del fatto che Mao ha fatto marcia indietro di fronte alle conseguenze della Rivoluzione Culturale. Detto altrimenti, lo spazio dell’esplosione capitalista si è aperto per via di questo compromesso, per via della reticenza di Mao ad andare fi no in fondo, a restare interamente fedele all’idea della Rivoluzione Culturale. E la lezione è ogni volta la stessa, nel caso di Kant così come in quello di Mao. È quella di Beckett in Peggio tutta: “Si deve andare avanti, non posso andare avanti, vado avanti”.

Con tutta la mia amicizia e la mia solidarietà politica, caro Alain

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