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Žižek, Badiou e la Rivoluzione Culturale Cinese

di Sebastiano Isaia

mao 700Lettera ad Alain Badiou su Mao e sulla Rivoluzione Culturale; per una serie di circostanze non ho trovato il tempo, il modo e la voglia di pubblicarla. Me ne ero quasi dimenticato quando ieri mi sono imbattuto nella Risposta ad Alain Badiou scritta da Slavoj Žižek. Così oggi mi decido a postare la mia Lettera al filosofo francese, senza mutarne una virgola. Il lettore non si lasci ingannare dal titolo: si tratta di un format retorico strumentale all’esigenza di esporre nel modo più diretto e sintetico possibile la mia posizione su alcuni importanti eventi storici, la cui spinta propulsiva ideale come si vede è lungi dall’essersi esaurita. Insomma, da parte di chi scrive non si culla alcuna pretesa di poter interloquire da “pari a pari” con un intellettuale di fama e di prestigio internazionali. Premetto alla Lettera alcune considerazioni sulla Risposta di Žižek che in larga parte riprendono i temi esposti nella prima. Mi scuso quindi con il lettore per le ripetizioni.

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1. Sulla Risposta di Žižek alla Lettera di Badiou. Scrive Žižek a Badiou alludendo agli esiti disastrosi dello stalinismo e del maoismo: «La nostra tesi dev’essere che solo la sinistra radicale è in grado di tracciare tutti i contorni di queste catastrofi». Chi scrive ha mosso politicamente i suoi primi passi sul terreno arato e fertilizzato dai vinti, ossia da quei comunisti che già negli anni Venti del secolo scorso incominciarono a denunciare la battuta d’arresto, ancora vivo Lenin, e poi l’involuzione fino alla piena e totale sconfitta del Grande Azzardo chiamato Rivoluzione d’Ottobre. Parlo di Bordiga, di Gorter, di Pannekoek, di Korsch, di Trotsky e di pochissimi altri ancora. Le loro lezioni della controrivoluzione, non sempre concordi tra loro su tutti gli aspetti della questione e naturalmente in una mia personale ricezione, hanno costituito il mio punto di partenza, la prospettiva dalla quale non solo ho iniziato a interpretare la storia del movimento operaio internazionale del passato e del presente, ma ho anche approcciato gli scritti marxiani. Un conto è leggere Marx dalla prospettiva stalinista (e maoista), un conto abissalmente diverso è leggerlo dal punto di vista antistalinista – ad esempio avendo appreso la differenza che passa tra Capitalismo di Stato (una volta Lenin parlò, a proposito dei Paesi capitalisticamente arretrati, di «Stato borghese senza borghesia») e Socialismo. Questo semplicemente per dire due cose: 1) anch’io ho, come si dice, un passato politico-ideologico che pesa sulle mie spalle come un macigno; 2) personalmente non ho mai avuto nulla a che fare, se non sul terreno della polemica e della critica, con la «sinistra radicale» di cui parla Žižek. Precisato questo, andiamo al merito.

«Sul piano della realtà sociale», scrive Žižek, «di certo c’è una parte di verità nel dire che la Rivoluzione Culturale fu scatenata da Mao con lo scopo di ristabilire il proprio pieno potere (seriamente intaccato all’inizio degli anni sessanta, quando, dopo il fallimento spettacolare del Grande Balzo in avanti, la maggioranza della nomenklatura in seno al Partito organizzò un putsch silenzioso contro di lui). È vero che la Rivoluzione Culturale generò sofferenze incommensurabili, che scavò profonde piaghe nel tessuto sociale e che la sua storia è anche quella di una folla che scandisce grandi slogan, in preda al fanatismo. Ma non si riduce a questo». La mia tesi è, invece, che essenzialmente la Rivoluzione Culturale «si riduce» a una lotta per il potere tra fazioni interne al Partito-Regime riconducibili a interessi diversi ma tutti interni alla prospettiva dello sviluppo capitalistico in Cina (ruolo dello Stato nella sfera economica, peso della grande industria e della campagna nel “decollo” del capitalismo cinese, politica salariale, politica assistenziale, apertura o chiusura nei confronti del mercato mondiale, ecc.) e alla sua proiezione nello scacchiere internazionale come moderna Potenza globale – la prima bomba atomica cinese data 1962.

Come in ogni periodo di grande scompiglio politico-sociale creato dalle lotte interne alla classe dominante, anche nel corso della cosiddetta Rivoluzione Culturale cinese almeno una parte delle classi subalterne approfittò del marasma politico per conquistare alcune posizioni in termini di rivendicazioni economiche e politiche, ma questo si realizzò contro le intenzioni di Mao e contro la massa fanatizzata dei giovani maoisti, i quali raccomandavano agli operai e ai contadini di non cadere nella “trappola borghese” del «rivendicazionismo economicista». «A Shangai il ruolo primario delle guardie rosse è stato quello di lottare per far ritornare al lavoro gli operai. La lotta degli operai mirava più a conservare le condizioni di lavoro già esistenti che non a ottenerne di migliori; miravano solo a contrastare gli intenti dei maoisti che volevano ridurre i salari e aumentare le ore lavorative» (1). La Rivoluzione Culturale ebbe un carattere fortemente antioperaio (mistificato appunto come contrasto al «Vento nefasto dell’economicismo controrivoluzionario»): su questo aspetto di quella cosiddetta Rivoluzione non si insisterà mai abbastanza. Scriveva Evelyn Anderson nel 1968: «Contrariamente alla volontà degli organizzatori della Rivoluzione Culturale, la rivolta dei lavoratori non ha per obiettivo il “revisionismo contro-rivoluzionario” né altre eresie antimaoiste, bensì quello di cambiare le dure condizioni di esistenza e di lavoro. Secondo le circostanze e gli obiettivi del giorno, le manifestazioni operaie hanno molteplici aspetti, ma dappertutto e in ogni momento possiedono un denominatore comune: avere per obiettivo immediato – e nella maggior parte esclusivo – il  soddisfacimento di rivendicazioni di ordine sociale ed economico. […] Certo, le loro rivendicazioni risentono inevitabilmente della fraseologia maoista [quella che tanto affascinava i devoti occidentali], ma si tratta di esigenze materiali avanzate in tono sempre più imperioso, ed al limite anche minaccioso: riduzione immediata degli orari, aumento della paga base, dei premi e delle prestazioni sociali, costruzione di alloggi; infine abolizione delle condizioni di impiego “penose” riservate a diverse categorie, in particolare alla moltitudine di lavoratori saltuari e a contratto limitato. […] La “Rivoluzione di Gennaio” [1967] di cui Shangai è teatro, segna il primo tentativo delle forze filo-maoiste di metter fine ai movimenti sindacalisti “borghesi” e alla  “mentalità corporativa” che li ispira. Questo è senza alcun dubbio, agli occhi dello stesso Mao, il significato più importante degli avvenimenti di Shangai, che vedono la sua Rivoluzione Culturale seriamente minacciata dal naufragio sugli scogli imprevisti dell’”economicismo”» (2).  La proclamazione, il 5 febbraio 1967, della Comune popolare di Shangai rappresentò il tentativo dei partigiani maoisti di riprendere il controllo della situazione sfuggita dalle mani di tutte le fazioni in lotta, scavalcate da agitazioni “economiciste” non previste, ovviamente non desiderate e strumentalizzabili fino a un certo punto. Lo scontro in seno al Partito-Regime, il disastro economico e il caos politico-istituzionale a Shangai e in altre città cinesi per i maoisti occidentali presero davvero  l’avvincente aspetto di una Grande Rivoluzione Culturale: «Fare come in Cina!» divenne il loro slogan preferito. Peccato che in Cina il compagno Mao si schierasse sempre e puntualmente contro gli «operai conservatori» in lotta per migliori condizioni di vita e di lavoro e per l’ottenimento di un sindacato autonomo dal regime; peccato che egli lanciasse contro le fabbriche in sciopero studenti fanatizzati armati di libretti rossi e militari armati di fucili rigorosamente “popolari”. Se qualcosa del caos cinese le avanguardie basate a Occidente avrebbero fatto bene a valorizzare agli occhi del proletariato occidentale, ebbene questo qualcosa va individuato nel movimento rivendicativo “economicista” degli operai e dei contadini che si sviluppò contro tutte le fazioni interne al Partito-Regime, a cominciare da quella che faceva capo al Grande Timoniere.

La rottura che si consumò fra Mosca e Pechino negli anni Sessanta si spiega benissimo con i forti contrasti economici e politici che esplosero già alla fine degli anni Cinquanta fra Russia e Cina, ma i maoisti nostrani vi vollero vedere una decisa sterzata a sinistra della Cina, impegnata, a loro dire, a costruire «il socialismo» su basi originali rispetto a quelle su cui si era eretto l’edificio stalinista (3). Il “movimentismo populista” di Mao, che si dispiegava interamente sul terreno della conservazione sociale, si sposava a meraviglia con il radicalismo piccolo- borghese di molte “avanguardie” occidentali deluse dallo stalinismo internazionale. Eppure sarebbe bastato un piccolissimo sforzo concettuale per mettere nella giusta prospettiva e nella corretta relazione le teorie elaborate da Mao e dai suoi collaboratori più stretti («fronte unito» anti USA-URSS, «blocco delle quattro classi», «rivoluzione per tappe», «Triplice alleanza», ecc.) con gli interessi – maturati sul terreno interno come su quello internazionale – del Capitalismo di Stato cinese. E ciò avrebbe anche consentito alle “avanguardie” occidentali di mettere nella giusta luce le importanti lotte sociali che si sviluppavano nel Paese di Mezzo sotto l’incalzare di condizioni materiali sempre più dure (l’accumulazione capitalistica non è un pranzo di gala!), di campagne ideologiche strumentali alla lotta di potere che dilaniava il Partito-Regime e di un imminente pericolo di guerra che veniva soprattutto dalla Russia. Sarebbe bastato insomma un minimo salariale di “materialismo storico”. Ma allora in molti giovani militanti prevalse il bisogno imperioso di credere, più che di capire. Un antico proverbio cinese recita: «Uno che sa è meglio di mille che non sanno». Si tratta di capire in che senso «è meglio», ossia per che cosa, in vista di quale obiettivo, per soddisfare quale bisogno.

Scriveva Simon Leys nel lontanissimo 1971: «La “Rivoluzione culturale”, che di rivoluzionario non ebbe che il nome e di culturale che il pretesto tattico iniziale, fu una lotta per il potere, condotta al vertice da un gruppetto d’individui e dietro la cortina fumogena d’un fittizio movimento di massa. […] In Occidente, alcuni commentatori insistono a rifarsi alla versione ufficiale dei fatti, e pertanto prendono, come punto di partenza delle loro analisi, il concetto di “rivoluzione della cultura” o anche di “rivoluzione della civiltà”. Di fronte a un tema così esaltante, ogni tentativo di ridurre il fenomeno alla dimensione bassa e triviale d’una “lotta per il potere”, suona in modo offensivo e persino diffamatorio, alle orecchie dei maoisti europei. I maoisti di Cina sono meno suscettibili: la definizione di “Rivoluzione culturale” come lotta per impadronirsi del potere (quanli douzheng) non è stata coniata dagli avversari del regime, ma è la definizione ufficiale proposta da Pechino e costantemente ripresa negli editoriali del Renmin ribao, Jiefang jun bao e Hong qi, fin dai primi del 1967, da quando cioè il movimento si era sufficientemente rinforzato per poter abbandonare  definitivamente il paravento culturale, dietro al quale aveva mosso i suoi primi passi. Che Mao Tse-tung avesse effettivamente perduto il potere, sembrò cosa difficile da ammettere, da parte degli osservatori europei. Ma fu proprio per recuperarlo, ch’egli scatenò questa lotta. È incredibile che si renda ancora necessario (a distanza di quattro anni dalla “Rivoluzione culturale”!) dover ricordare cose tanto evidenti» (4).

Naturalmente Žižek non è così stupido da negare l’evidenza: «Mao stesso [mise] a tacere l’agitazione (una volta raggiunto il suo scopo, cioè la ripresa del potere e l’eliminazione dei membri avversari dall’alta nomenklatura)»; ma vuole a tutti i costi vedere in quella furibonda lotta di potere interborghese (che, detto en passant, causò la morte di centinaia di migliaia di persone) un eccesso rivoluzionario, un resto di utopia, per così dire. «Ci fu la “Comune di Shangai”: un milione di operai che, semplicemente prendendo sul serio gli slogan, esigettero l’abolizione dello Stato e del Partito stesso, nonché l’organizzazione diretta della società per mano della Comune. È significativo notare che in quel preciso momento Mao ordina all’esercito di intervenire per ristabilire l’ordine. Il paradosso risiede nel fatto che un leader, cercando di esercitare un potere personale totale, scatena un sollevamento popolare incontrollato: è la sovrapposizione di una dittatura estrema a un’estrema emancipazione delle masse». Se uno vuole vedere per forza «un’estrema emancipazione delle masse» (che peraltro si sarebbe concretizzata contro Mao!) dove purtroppo non si verificò alcun tipo di «emancipazione delle masse» (confuse, in parte sobillate strumentalmente dalle molte fazioni in lotta, disilluse dopo anni di false promesse, insofferenti nei confronti dell’indottrinamento “comunista” e di uno sfruttamento crescente) non sarò certo io a poterlo convincere del contrario. Non ne avrei nemmeno le capacità né le “competenze specifiche”. Posso però fare un’altra citazione: «Verso la fine del 1965, quando Mao decreta la Rivoluzione Culturale, è perché conta di isolare – e poi abbattere – con questo strumento i suoi nemici all’interno del Partito, dell’esercito e della gerarchia ufficiale. Egli incita la popolazione, ed in particolare la gioventù, a prendere l’iniziativa nel contesto di un grande movimento destinato, in ultima analisi, a detronizzare gli anti-maoisti. Così facendo, Mao non ignora affatto che una purga camuffata da “lotta di classe” comporta maggiori pericoli che una purga effettuata da una polizia segreta, strettamente vincolata ai suoi comandi; così per lui, la Rivoluzione Culturale si presenta – almeno all’inizio – come un rischio accuratamente calcolato. Tuttavia sembra poco probabile che Mao abbia potuto immaginare ciò che l’esperienza di Shangai ha dimostrato con l’incontestabile evidenza dei fatti: cioè che in una situazione come quella della Cina, la prolungata esortazione alla ribellione generalizzata non può non scatenare, prima o poi, forme inopportune di rivolte spontanee, orientate verso quegli obiettivi “economicisti” che Mao vuole cancellare dalla mente degli uomini. È altrettanto poco probabile che Mao abbia calcolato l’intera pericolosità degli odii  che tali lotte di massa lasciano vivi (una volta cessate), e che dividono e contrappongono in campi ferocemente opposti, non solo i quadri del Partito, ma l’insieme della popolazione, trascinando il paese sull’orlo della guerra civile» (5). Questa mi sembra una ricostruzione e una lettura più corrispondenti alla realtà dei fatti; fatti che, a mio avviso, non autorizzano in alcun modo una chiave di lettura “emancipativa”, sempre al netto della fraseologia e delle illusioni che le masse cinesi allora poterono usare e cullare attingendo dalle ideologie che, per così dire, passava il convento, ma anche pescando nel passato, nel ricco repertorio della secolare lotta di classe in Cina. Il fatto che Mao accettasse di correre il rischio di provocare indesiderati “effetti collaterali” la dice lunga sulla magnitudo della posta in gioco, sul grado di divisione del Partito-Regime e sulla crisi sistemica che attanagliava da anni la Cina.

La Risposta dell’intellettuale sloveno al filosofo francese mi conferma nella convinzione che si possono dire tante cose intelligenti e “dialettiche” (ad esempio sul rapporto Sade-Kant, piuttosto che sulla corretta interpretazione lacaniana di quel rapporto, oppure sul funzionamento della democrazia nei Paesi capitalisticamente avanzati del pianeta, o sul rapporto tra spontaneità delle masse e organizzazione politica rivoluzionaria) per sostenere un’interpretazione storica (nella fattispecie: dello stalinismo, del maoismo, della Rivoluzione Culturale) che personalmente trovo in assoluto contrasto con un pensiero che aspira a un’autentica radicalità concettuale e politica. Sotto questo aspetto è significativo il modo in cui Žižek cerca di “destrutturare” il film La vita degli altri (2006), di Florian Henckel von Donnesmarck, «celebrato e premiato con l’Oscar per aver fornito una riflessione sulla maniera in cui il terrorismo della Stasi penetrava in ogni singolo poro delle vite private nell’ex-DDR. È davvero così?». Alla fine per lui il tutto si riduce al fatto che gli «orrori del comunismo» (sic!) possono essere compresi nel loro giusto significato, nella loro abissale verità, solo dai “comunisti”, mentre gli “anticomunisti” (al cui albo appartengo orgogliosamente da sempre) sono capaci solo di grattarne la superficie. Dinanzi a cotanta profondità “comunista” io mi tengo cara la mia indigenza filosofica e politica.

Quanto è importante afferrare alla radice la natura storico-sociale di un grande Evento, per usare indegnamente il suggestivo linguaggio di Žižek, nello sforzo di comprendere ciò che accade nel presente? È la domanda che volentieri giro al lettore.

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Note
(1) C. Reeve, La tigre di carta. Saggio sullo sviluppo capitalistico in Cina dal 1949 al 1972, p. 127, Ed. La Fiaccola, 1974.
(2) Citazione tratta da Le Contrat Social, numero di aprile-settembre 1968.
(3) Occorre anche dire che contro Kruscev, accusato di essere diventato il più grande «revisionista» che la storia del movimento operaio mondiale avesse mai conosciuto,  Mao riabilitò Stalin.
(4) S. Leys, Gli abiti nuovi del presidente Mao, pp. 18-19, Ed. Antistato, 1977.
(5) E. Anderson, Le Contrat Social.

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2. Lettera ad Alain Badiou sulla natura nazionale-borghese dell’opera di Mao Tse-tung.

Caro Badiou,

chi le scrive è un lettore di non pochi dei suoi numerosi saggi filosofici e politici, che a volte si è trovato a polemizzare sul modesto Blog (Il Nostromo) che gestisce tanto con la sua concezione “comunista” (noti le polemiche virgolette) quanto con quella elaborata dal suo amico e vecchio compagno di lotta politica e culturale Slavoj Žižek. Non desidero farle perdere tempo e perciò arrivo subito alle «procedure di verità», per citarla indegnamente.

Solo oggi, e quindi con imperdonabile ritardo, ho avuto il piacere di leggere la sua Lettera a Slavoj Žižek sull’opera di Mao Tse-Tung: uno scritto davvero interessante e a volte perfino spassoso, ad esempio là dove lei sembra rinfacciare a Žižek una sua certa predilezione per lo stalinismo che lo porterebbe, forse lui malgrado, a sottovalutare gravemente la portata del lascito maoista, ciò che della straordinaria lezione maoista rimane, a suo dire, ancora vitale e degno di essere testimoniato e, quando possibile, praticato. Ma forse si tratta di una mia personale interpretazione; forse traviso del tutto i termini della sua critica all’intellettuale sloveno. Poco importa, anche perché il punto che desidero discutere brevemente con lei è un altro.

Nella Lettera lei ricorda una celebre frase di Mao: «La gente si chiede dov’è da noi la borghesia. Io rispondo: è nel Partito comunista». Ebbene, anche a mio avviso il Grande Timoniere diceva il vero, ma, come vedrà, in un senso che certamente lei non può condividere, e che provo a sintetizzare come segue: il Partito Comunista Cinese con caratteristiche maoiste fu lo strumento 1) della rivoluzione nazionale-borghese in Cina e 2) del processo di accumulazione capitalistica in quel gigantesco Paese socialmente arretrato. Naturalmente queste due fondamentali funzioni storiche vanno considerate alla luce della collocazione geopolitica della Cina prima e dopo la proclamazione della Repubblica  Popolare (1949), e in relazione al rapporto del “comunismo” (rispuntano le virgolette!) cinese con l’Unione Sovietica di Stalin – e poi dei suoi eredi più o meno “revisionisti”. Per chiarirle il mio punto di vista sul “comunismo” di Mao è forse utile precisare la mia posizione sullo stalinismo, il quale, com’è noto, influenzò in modo decisivo, anche se non esclusivo, il maoismo (1).

Come cerco di argomentare in un mio studio sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre (Lo scoglio e il mare), lo stalinismo va considerato, al contempo e “dialetticamente”, per un verso come espressione/strumento della controrivoluzione, se visto dalla prospettiva della rivoluzione proletaria (internazionale, non solo russa); e, per altro verso, come espressione/strumento della rivoluzione se considerato dalla prospettiva dello sviluppo capitalistico nel grande spazio geosociale e geopolitico dell’”eterna” Grande Madre Russia – ribattezzata dai socialnazionalisti Patria Socialista. Per questo quando Žižek attribuisce, ad esempio ne Il soggetto scabroso (2) proprio allo stalinismo una forte radicalità rivoluzionaria non sbaglia affatto, salvo che per un “trascurabile” punto: quella radicalità venne messa interamente al servizio 1) dell’accumulazione capitalistica a tappe forzate della Russia di nuovo conio nominalistico (Repubblica Socialista), e 2) dell’ascesa della Russia come moderna potenza mondiale: due momenti di uno stesso processo storico-sociale. Per usare la categoria di Terrore tematizzato nel citato libro di Žižek, lo stalinismo fu l’espressione, al contempo e senza soluzione di continuità, di un Terrore controrivoluzionario (antiproletario, anticomunista) e di un Terrore rivoluzionario (in chiave di sviluppo capitalistico, di industrialismo, di modernizzazione).

A mio avviso l’incomprensione del processo sociale appena abbozzato (un processo rivoluzionario borghese che si dà, alle spalle dei suoi stessi protagonisti, come controrivoluzione proletaria; una negazione della prospettiva proletaria in Russia e nel mondo che si dà come affermazione di compiti borghesi mistificati in guisa di compiti “socialisti” e financo “comunisti”) costituisce probabilmente per le classi subalterne di tutto il mondo la tragedia più grande del Novecento; tale incomprensione ha reso possibile l’Evento che ha letteralmente devastato il movimento operaio internazionale a partire dalla fine degli anni Venti del secolo scorso, e le cui conseguenze si fanno ancora sentire. Naturalmente la datazione qui adottata ha un significato relativo, più che altro orientativo, perché come lei converrà il processo sociale non conosce puntuali soluzioni di continuità, cesure chirurgiche fra un “prima” e un “dopo”, e ciò vale tanto più quando approcciamo fenomeni complessi quale indubbiamente fu quello che rubrichiamo, più che altro per ragioni di sintesi, sotto il nome di un singolo individuo: Stalin, appunto.

Ecco, mutatis mutandis, che poi non è poco (a iniziare dal fatto che il maoismo si affermò in Cina come espressione politico-ideologica di una rivoluzione che non andò mai oltre i limiti di una rivoluzione borghese a base sociale contadina), l’esperienza che porta il nome di Mao va inquadrata nello schema concettuale appena considerato.  Più che «profetica», come scrive lei in riferimento alle “famigerate” riforme di Deng Xiaoping (3), la frase maoista sulla borghesia interna al PCC mi appare dunque non solo realistica ma soprattutto programmatica, appena la si consideri depurata del consueto involucro ideologico pseudo marxista e prescindendo da quale fosse l’intenzione cosciente del suo autore, il quale in ottima fede credeva di lavorare per il “comunismo”. Ma, occorre ancora precisarlo, per quella concezione di “comunismo” che prevalse nella Terza Internazionale con lo stalinismo, il quale, ad esempio, propugnava un “socialismo” che non si discostava di un solo millimetro dal Capitalismo di Stato («più la dittatura del proletariato», cioè del Partito-Regime), nonostante i teorici più in vista del bolscevismo post leniniano (a partire da Bucharin) ce la mettessero tutta per dimostrare, in primo luogo a se stessi, il contrario: di qui, ad esempio, le bizzarre tesi circa una fantomatica «accumulazione originaria del socialismo». Il «socialismo reale» impiantato da Mao in Cina a mio avviso si spiega inoltre, com’è ovvio e come ho già accennato sopra, con le condizioni sociali del Paese di Mezzo, con il suo lunghissimo retaggio storico (e qui lo studio delle antiche comunità contadine può dare un notevole contributo alla comprensione del fenomeno “maoismo”, almeno nella sua fase di lenta genesi), con i suoi rapporti con il Giappone e la Russia, in particolare, e con l’insieme della costellazione imperialistica mondiale, in generale.

Sul carattere nazionale-borghese della rivoluzione cinese e sull’autentico significato della cosiddetta Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (altro che «forma finalmente trovata della dittatura del proletariato»! altro che «circolazione di idee, di parole d’ordine, di forme di organizzazione, di schemi teorici di cui noi, oggi, non abbiamo ancora esaurito la forza»!)  la rinvio ai miei appunti di studio Tutto sotto il cielo – del Capitalismo. Certo, sulla scorta di quanto ho già scritto lei potrebbe sempre obiettarmi che, alla maniera dei trotzkisti (sempre secondo la vulgata stalinista), sottovaluto l’importanza della classe contadina «in nome del feticismo operaista», una critica che farebbe sorridere i pochi che conoscono la mia posizione sul «feticismo operaista».

Qualche mese fa un lettere di un mio post sulla Cuba castrista mi scriveva: «Nazionalizzazione e riforma agraria non sono misure socialiste?». La mia risposta a quel lettore può forse chiarirle ulteriormente il mio punto di vista sullo stalinismo e sul maoismo, due aspetti della storia del “comunismo novecentesco” che, a quanto pare, intrigano molto entrambi, quantunque da prospettive politiche del tutto diverse (forse addirittura opposte). Mi scuso in anticipo per la non breve autocitazione.

"In linea generale l’abolizione della rendita fondiaria e il superamento di tutti i rapporti agrari precapitalistici che impediscono, o solamente rallentano, l’accumulazione capitalistica rientrano classicamente nello schema della rivoluzione borghese. La riforma agraria può benissimo prendere la forma della la nazionalizzazione della terra senza esorbitare di un solo millimetro dalla dimensione capitalistica. Tutt’altro! Alla radicalità della riforma agraria corrisponde un’ascesa capitalistica più rapida e impetuosa, ed è esattamente quello che non è avvenuto ad esempio in Italia, in grazia alla nota alleanza fra capitale industriale del Nord e proprietà terriera del Sud, con le implicazioni sociali e politiche che conosciamo e il cui retaggio ancora in qualche modo avvertiamo.

Com’è noto Lenin manifestò un grande interesse e una grande simpatia per il populismo cinese e per l’insieme del movimento democratico cinese in generale, il quale ebbe come suo leader riconosciuto Sun Yat-sen. Questo però non gli impedì di criticarne l’ideologia impregnata di socialismo piccolo-borghese, di fare luce sui «sogni socialisti», sulla «speranza di risparmiare alla Cina la via del capitalismo, di prevenire il capitalismo». L’analogia con il populismo russo è evidente. Commentando il Programma rivoluzionario-borghese di Sun Yat-sen Lenin tenne particolarmente a precisare, e non certo per un prurito dottrinario, che la riforma agraria sostenuta in quel Programma era certamente storicamente rivoluzionaria, ma non perché debordasse dai compiti borghesi quanto, al contrario, perché essa rispondeva nel modo più radicale alla necessità storicamente data in Cina di distruggere i rapporti sociali feudali. «Questa è la sostanza del “populismo” di Sun Yat-sen, del suo programma progressivo, combattivo, rivoluzionario, che propugna riforme agrarie democratiche borghesi, e della sua teoria cosiddetta socialista. Questa teoria, dal punto di vista della dottrina, è la teoria di un “socialista”-reazionario piccolo-borghese. […] E Sun Yat-sen, con una semplicità inimitabile, vorrei dire verginale, distrugge egli stesso completamente la propria teoria populista reazionaria, riconoscendo ciò che la vita costringe a riconoscere, e precisamente: “La Cina è alla vigilia di un gigantesco sviluppo industriale” (cioè capitalistico); in Cina “il commercio” (cioè il capitalismo) “raggiungerà proporzioni enormi”, “fra cinquant’anni vi saranno da noi molte Sciangai” e cioè molti centri con milioni di abitanti, di ricchezza capitalistica e di indigenza e miseria proletaria» (Lenin, Democrazia e populismo in Cina, 1912, Opere, XVIII, pp. 155-156). Quando il rivoluzionario radicale borghese si mette in testa di poter percorrere una via originale al socialismo (o, più correttamente, a ciò che egli pensa sia il “socialismo”), ecco che egli appare, agli occhi Lenin, un reazionario piccolo-borghese da combattere sul piano politico-dottrinario perché le sue idee possono far breccia anche nel proletariato e sicuramente fra i contadini poveri. «E questo è il bello: la dialettica dei rapporti sociali della Cina consiste appunto nel fatto che i democratici cinesi, simpatizzando sinceramente col socialismo in Europa, lo hanno trasformato in una teoria reazionaria, e sulla base di questa teoria reazionaria che vuole “prevenire” il capitalismo, attuano un programma agrario puramente capitalistico, capitalistico al massimo grado». Adesso viene la parte che tocca il problema della nazionalizzazione: «In sostanza, a che cosa conduce la “rivoluzione economica” di cui parla Sun Yat-sen? Al passaggio della rendita fondiaria allo Stato, cioè alla nazionalizzazione della terra. […] Fare in modo che l’”aumento del valore” della terra sia “proprietà del popolo” significa trasmettere la rendita, cioè la proprietà della terra, allo Stato, o in altre parole: nazionalizzare la terra». È possibile una simile riforma nel quadro del capitalismo? Non soltanto è possibile, ma rappresenta di per sé il capitalismo più puro, conseguente al massimo grado, idealmente perfetto. Marx lo rilevò nella Miseria della filosofia, lo dimostrò particolareggiatamente nel III volume del Capitale e sviluppò questa tesi in modo particolarmente chiaro nella polemica con Rodbertus nelle Teorie del plusvalore». E poi Lenin continua illustrando la natura altamente capitalistica della nazionalizzazione della terra.

Ebbene, mutatis mutandis, credo che la posizione di Lenin sul socialismo reazionario possa aiutarci a fare luce sullo stalinismo, sul maoismo, sul castrismo e su tutti i movimenti borghesi che si sono autoproclamati socialisti o, addirittura, comunisti, senza peraltro tralasciare di esaltare la propria caratteristica nazionale: ancora oggi si parla del «socialismo con caratteristiche cinesi»!

Fine della citazione. Anche per quanto riguarda il rapporto tra l’Unione Sovietica e la Cina maoista mi permetto di esporle il mio punto di vista. Dal febbraio 1950 in poi la Cina fu costretta a rivolgersi al “Paese fratello” per ottenere il capitale fisso e le conoscenze tecniche e scientifiche di cui difettava e che le erano assolutamente necessarie per avviare il processo capitalistico di trasformazione della campagna e delle città – «accumulazione capitalistica originaria», per usare la terminologia marxiana, «accumulazione socialista originaria» secondo la già ricordata ideologia stalinista poi ripresa dai “comunisti” cinesi. Ciò appariva tanto più necessario alla luce del lungo ciclo della guerra civile/nazionale che aveva sconvolto il già debole e arretrato tessuto sociale cinese. Al PCC apparve meno rischioso, dal punto di vista della strategia politico-economica di lungo respiro, rivolgersi all’Unione Sovietica piuttosto che agli Stati Uniti, ossia all’Imperialismo egemone nell’area del Sud-Est asiatico dopo la capitolazione del Giappone. Un numero davvero considerevole di industrie vennero impiantate direttamente dai russi, che insieme al capitale fisso portarono una forza-lavoro qualificata. Nei dieci anni seguenti al 1950 oltre 10 mila tecnici russi avranno di fatto la direzione dell’industria pesante cinese.

Col tempo la natura imperialistica dell’«aiuto fraterno» russo si andrà precisando, fino a provocare la rottura fra i due Paesi nel luglio 1960. Ma già da subito nel PCC presero corpo le due linee di politica economica che avranno modo di scontrarsi duramente nel corso degli anni, generando enormi disastri economico-sociali (puntualmente reclamizzati dal regime sotto suggestive insegne, del tipo: Cento Fiori, Grande Balzo in Avanti, Grande Rivoluzione Culturale Proletaria), con relativo cospicuo versamento di sangue operaio e contadino. Com’è noto, l’«accumulazione capitalistica originaria» non è un pranzo di gala! Mao incarnò la fazione autarchica del capitalismo di Stato cinese, quella più ostile all’integrazione del Paese nel Capitalismo internazionale, e quindi ostile pure a un’alleanza strategica con il Capitalismo Russo.

Questa «linea rossa» postulava misure particolarmente pesanti di sfruttamento dei contadini e degli operai, questi ultimi sempre tenuti in pessima considerazione da Mao a causa del loro «scarso senso di responsabilità» nei confronti della «Patria Socialista», ossia dell’ancora arretrata economia capitalistica, la quale esigeva bassissimi salari, un tenore di vita di mera sussistenza e una produttività almeno consona alle ambizioni di potenza della Nuova Cina. Agli operai era chiesto di abbandonare il vecchio «spirito piccolo-borghese e corporativo», e di «servire il popolo», ossia la Nazione impegnata in un colossale sforzo di transizione sociale in direzione del moderno Capitalismo. «Per l’operaio, la coscienza “socialista” è così ridotta all’accettazione del proprio sfruttamento, che è evidentemente una necessità per il successo dell’accumulazione di capitale; ma è una mistificazione politica identificare quest’ultima come il socialismo o il comunismo» (Charles Reeve, La tigre di carta, 1974). Non c’è dubbio. Naturalmente parlo per me, non per lei.

L’opzione a favore dell’industria pesante, secondo il modello staliniano, generò una serie di ripercussioni fortemente negative a livello della produzione dei beni di consumo e dello sviluppo agricolo, e ciò nel momento in cui la demografia, un fattore decisivo nella storia cinese, attestava un’inaspettata accelerazione verso l’alto, rendendo in prospettiva esplosiva la situazione del mercato del lavoro. Secondo Jean Deleyne (L’economia cinese, 1971), alla fine degli anni Cinquanta entravano sul mercato del lavoro dieci milioni di cinesi, mentre la capacità industriale del Paese consentiva l’assorbimento di soli 500 mila. I contadini, che peraltro erano stati la base sociale fondamentale della rivoluzione nazionale-borghese che portò il PCC al potere, reagirono al supersfruttamento (il surplus agricolo avrebbe dovuto sostenere l’accumulazione nell’industria pesante) e al decadimento delle loro già difficili condizioni di esistenza con sommosse e diminuendo la produttività del loro lavoro. Questa reazione compresse anche l’approvvigionamento alle città di beni alimentari, creando nel proletariato industriale nuove ragioni di malumore e di rivendicazioni salariali. Come sempre, Mao denunciò le «tendenze borghesi» in seno alla classe operaia. Tutto questo marasma, che ho cercato di descriverle a grandi linee, ebbe come risultato di prima grandezza anche la rottura della Cina con l’Unione Sovietica, che aveva cercato di inserirla organicamente nella propria sfera di influenza, e il rafforzamento della linea maoista  (che propugnava un più graduale, “armonico” e “originale” sviluppo economico) in seno al Partito-Stato.

L’incontro Mao-Nixon che ebbe luogo nel febbraio del 1972, peraltro in una fase particolarmente sanguinosa della guerra in Vietnam, la dice lunga sulla spregiudicatezza politica del leader cinese e sui difficili, per usare un eufemismo, rapporti tra i due Paesi “comunisti”. Naturalmente se si rimane alla superficie della schiuma ideologica; se si rimane invischiati nella guerra ideologica fra maoismo e “revisionismo sovietico” non è possibile afferrare la reale posta in gioco della contesa.

Come può capire, mi risulta alquanto difficile, diciamo così, concordare con il suo giudizio su Mao come «ultimo grande rivoluzionario marxista della storia mondiale». Né ultimo, né grande, né medio, né piccolo: la radicalità rivoluzionaria di Mao (il Terrore maoista di cui parla in termini più che elogiativi, forse financo apologetici, lo stesso Žižek nel saggio Sulla pratica e sulla contraddizione) (4) fu, infatti, interamente messa al servizio della Cina come moderna, grande (anche a spese di altre nazionalità ed etnie) e indipendente Nazione – e qui occorre ancora una volta ricordare l’aspra lotta che il regime maoista ingaggiò contro le due Super Potenze del tempo. Sotto questo aspetto si può senz’altro parlare del maoismo nei termini di uno stalinismo con caratteristiche cinesi. Né posso applaudire quando lei mette nello stesso sacco “rivoluzionario” «figure come Robespierre, Saint-Just, Babeuf, Blanqui, Bakunin, Marx, Engels, Lenin, Trotzkij, Rosa Luxemburg, Stalin, Mao Tse-tung, Zhou Enlai, Tito, Enver Hoxha, Guevara, Castro e qualche altro (penso in particolare a Aristide)». Mi auguro che ciononostante lei non mi associ «al contesto di criminalizzazione e di aneddoti spettacolari in cui, da sempre, la reazione tenta di chiudere e annullare queste figure». Anche perché attribuisco un peso abbastanza relativo alla «funzione della personalità nella storia»: sono più interessato a capire i processi sociali (psicologia di massa compresa, eccome!) che stanno alla base degli eventi storici che usiamo rubricare con i nomi di Tizio o di Caio: stalinismo, maoismo, castrismo, e via di seguito. Poi naturalmente faccia come crede: me ne farò una ragione. Certo è, che «l’emancipazione egalitaria» di cui lei parla si amalgama assai poco con l’idea di emancipazione universale che ha in testa chi le scrive sulla scorta della critica marxiana dei rapporti sociali capitalistici (certo, nella sua personale ricezione) e del giudizio che ha maturato sullo stalinismo e sul maoismo.

Caro Badiou, bisogna por fine in qualche modo a questa interminabile lettera, mi rendo conto. E allora concludo osservando che più che di un «comunismo sepolcrale», come dice ironicamente lei riferendosi alla vostra (sua e di Žižek) «ipotesi» o «idea comunista», io parlerei piuttosto di una concezione certamente sepolcrale ma che definire “comunista” mi riesce francamente impossibile. Dicendo questo so di non sconvolgerla neanche un po’, né il mio intento era quello di graffiare con le mie deboli e spuntate unghie la sua granitica posizione. D’altra parte, da Stalin in poi quell’aggettivo è stato così abusato, violentato, tradito e svuotato di contenuti autenticamente rivoluzionari che personalmente preferisco farne a meno, se non altro per non finire anch’io dentro imbarazzanti sacchi e sepolcri. Né posso e voglio attribuire o ritirare patenti ideologiche di sorta a chicchessia. E allora mi scuso per le provocatorie virgolette apposte al suo e all’altrui Comunismo e la saluto cordialmente.

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Note
(1) Tanto per fare un solo esempio, non fu certo un caso se l’astro maoista iniziasse a salire nella costellazione del “movimento operaio internazionale” con caratteristiche staliniste solo dopo la bruciante sconfitta subita nel biennio 1926-1927 dal giovane e ancor debole proletariato cinese a Shangai e negli altri pochi centri industriali della Cina del tempo. Siccome non esistono capi politici buoni per tutte le stagioni, solo dopo il disastro del 1927, auspice anche la politica collaborazionista del Comintern nei confronti del Kuomintang, in Cina si aprì la stagione propizia per Mao.
Per un’approfondita conoscenza della genesi del pensiero politico e filosofico di Mao segnalo l’interessante studio di Paolo Selmi (Il substrato confuciano e tradizionale del “marxismo” di Mao Zedong, Università degli Studi di Napoli L’Orientale, 2011), dal quale cito i passi che seguono:
«Il Pensiero di Mao Zedong è il marxismo-leninismo, che lui conobbe nella variante staliniana, fuso con la filosofia politica confuciana tradizionale, in particolare col pensiero di Mencio focalizzato sulla bontà della natura umana e sulla necessità di lavorare continuamente sulle persone perché seguissero la loro naturale inclinazione. […] Si tenga conto inoltre del fatto che Mao, dopo tale infarinatura di seconda mano ricevuta dai testi anarchici letti in gioventù, lesse testi che citavano i classici del marxismo nell’unica forma all’epoca reperibile in cinese: la versione sovietica (staliniana) del materialismo dialettico. Mao aveva una logica ben precisa, e nel seguito di questo studio saranno sviluppati gli elementi di questo pensiero tradizionale che in Mao tornava a nuova vita. […] Un’arte della guerra antica applicata al fucile mitragliatore, figlia di una concezione dove taoisticamente l’elemento liquido prevale sul solido e diviene metafora della vittoria dell’apparentemente debole sull’apparentemente forte; la necessità di una piena rieducazione dell’esercito prima, e delle masse poi, che di neoconfuciano non ha soltanto il sapore, ma la logica e il metodo, rappresentano soltanto alcuni esempi. In questo modo di ragionare analogico e non strettamente causale, ricombinando elementi vecchi e nuovi in funzione di obbiettivi vitali e concreti, sta la grandezza del pensiero di Mao e dei mentori a cui si ispirò. Quanto affermato ci porta a un’ulteriore conclusione che, per quanto possa risultare scomoda, costituisce però il naturale sviluppo del ragionamento finora svolto: il marxismo-leninismo-pensiero di Mao Zedong non è il marxismo arricchito di un nuovo sviluppo. Tale pensiero è una struttura ideologica che, pur impiegando un lessico tratto dal bagaglio terminologico del pensiero di Marx, Engels e Lenin, di fatto lo riformula sin da subito negli anni Venti e Trenta in maniera del tutto diversa, collocando i vari tasselli su architravi che non sono disposte alla stessa maniera delle originali, ma che bensì rispettano distanze e composizioni antiche.  […] Nel pensiero di Mao, tali concetti divenivano veicoli di un “marxismo” potenzialmente libero di muoversi lungo qualsiasi direzione, recuperando e assumendo in sé schemi tradizionali e modelli di pensiero consolidati, al fine di condurre la trasformazione sociale lungo la strada desiderata. Visto in prospettiva, questo meccanismo costituì uno dei “contributi” maggiori del maoismo al “socialismo con caratteristiche cinesi”: la sua estrema duttilità nel maneggiare concetti e manipolarne strumentalmente ordine e significato in un ordine diverso dall’originale, sarebbe stata ripresa dopo la sua morte da ogni gruppo dirigente il partito, fino alla generazione attuale: come già sottolineato, ciascuno di loro  “avrebbe arricchito” il marxismo di nuovi elementi, riducendo il pensiero originario a un mero discorso formale».
In effetti, per capire il Mao-pensiero non occorre studiare le opere di Marx (né quelle di Hegel, almeno sulla scorta della critica marxiana), mentre è indispensabile studiare la millenaria e densissima storia della società cinese, per un verso, e il “materialismo dialettico” (Dialektičeskij Materializm, ovvero Diamat) canonizzato dalla scuola sovietica, per altro verso.
(2) «Anche per quanto riguarda l’effettiva trasformazione sociale, o “taglio nella sostanza del corpo sociale”, la vera rivoluzione non fu quella di ottobre, ma la collettivizzazione degli ultimi anni Venti. La rivoluzione di ottobre lasciò la sostanza del corpo sociale intatta; da questo punto di vista, essa fu simile alla rivoluzione fascista, la quale impose soltanto una nuova forma di potere esecutivo sulla rete preesistente di relazioni sociali, proprio per mantenere questa rete di relazioni sociali … Fu soltanto la collettivizzazione forzata degli ultimi anni Venti a sovvertire e smembrare completamente la “sostanza sociale” (la rete di relazioni che era stata ereditata dal passato), perturbando e intaccando profondamente i tessuti sociali elementari» (S. Žižek, Il soggetto scabroso, p. 243, Raffaello Cortina ed., 2003).
(3) Nel ‘78 una Cina sull’orlo del disastro sistemico (politico, economico, sociale, nazionale) avviò una rapida transizione verso un Capitalismo sempre più aperto alla concorrenza internazionale e alla gestione delle azienda da parte dei capitalisti privati, cinesi e di altri Paesi. La transizione si dipanò tutta nel segno della continuità capitalistica e, cosa da valutare con grande attenzione, della continuità nazionale, ossia nel segno della Cina come moderna Potenza di rango mondiale, prima in fieri e poi in forma dispiegata. L’unità nazionale cinese non è mai stata garantita una volta per sempre. Sotto questo aspetto, Mao Tse-tung ha lavorato bene in circostanze, interne e internazionali, davvero eccezionali. Una medaglia appesa al petto della Nazione (leggi: del Capitale) cinese, non certo a quello del proletariato – cinese e internazionale. Oggi il Paese di Mezzo si confronta con un’altra difficile sfida: passare dallo sviluppo capitalistico quantitativo, diciamo così, a quello più qualitativo; da un’epoca di eccezionalità capitalistica, segnata da stratosferici tassi di crescita (e da un super sfruttamento degli uomini e della natura: vedi catastrofi ecologiche), a una «nuova normalità».
(4) Mi riesce davvero difficile capire come un intellettuale così sofisticato e intelligente come Žižek possa credere che sia minimamente credibile il tentativo di mobilitare la migliore filosofia occidentale per accreditare di un qualche valore filosofico-politico la concezione del mondo che informa gli scritti di Mao sulla pratica e sulla contraddizione. Eppure, sembra che l’operazione dell’intellettuale sloveno riesca perfettamente in certi ambienti dell’ultrasinistra europea e nei mitici “salotti radical-chic” dell’intellighentia occidentale: buon per lui!

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