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sinistra

L'anima umana sotto il capitalismo

di Jean-Claude Michéa

Postfazione a Cornelius Castoriadis e Christopher Lasch, La cultura dell'egoismo, Elèuthera, 2014

maniNon c'è da sorprendersi per questo incontro, avvenuto nel 1986 durante una trasmissione televisiva di Channel 4 (canale britannico del servizio pubblico), tra Christopher Lasch e Cornelius Castoriadis, incontro animato da Michael Ignatieff1. Lasch e Castoriadis, critici irriducibili della civiltà capitalista, avevano abbastanza punti in comune - e sufficiente stima reciproca - per rendere amichevole e particolarmente fruttuoso il loro dibattito.

D'altra parte, pur attraverso percorsi filosofici differenti, erano entrambi giunti ad avere lo stesso sguardo disincantato sulla triste evoluzione delle moderne sinistre occidentali e su quello che fin dal 1967 Guy Debord definiva «Le false lotte spettacolari delle forme rivali del potere separato» {La società dello spettacolo, tesi 56)2. Ci si sorprende quindi ancor meno del fatto che un tale incontro non abbia praticamente lasciato traccia nei media o nelle università (almeno per quanto riguarda la Francia), al punto che la stessa emittente Channel 4 non ricordava di averlo trasmesso3. Va ricordato che in quegli scoppiettanti «anni Tapie»4 - quando la trasmissione Vive la crise, condotta da Yves Montand e Laurent Joffrin, si prodigava a fornire al grande pubblico gli «elementi linguistici» fondamentali - l'idea che ogni critica radicale della logica capitalista conducesse ineluttabilmente alla miseria generalizzata e alla negazione dei «diritti dell'uomo» era già diventata, per i chierici mediatici e intellettuali, una opinione largamente condivisa (anche se non si lasciava ancora intendere, come ha poi fatto un Luc Boltanski, che questo tipo di critica potrebbe trovare il proprio fondamento nelle idee di Charles Maurras e dell'estrema destra degli anni Trenta).

Era quella l'epoca, ormai quasi dimenticata, in cui la sinistra mitterrandiana e i suoi alleati (grazie soprattutto all'impulso di Jacques Delors, Pierre Bérégovoy e Pascal Lamy) non si era semplicemente allineata all'idea «scientifica» secondo cui «i profitti del capitale sono i posti di lavoro di domani». Ma, come mostra impietosamente Rawi Abdelal nel suo Capital Rules, quella sinistra francese si era addirittura posizionata in prima linea a sostegno di tutte le lotte della borghesia europea per sgombrare il campo di tutti gli ostacoli politici e culturali che si frapponevano all'espansione «civilizzatrice» del mercato mondiale deregolamentato e della sua volontà di crescita illimitata5. Sarà lo stesso Pascal Lamy a riconoscerlo, qualche anno più tardi, quando con il suo cinismo abituale confiderà a Rawi Abdelal che «quando si tratta di liberalizzare, in Francia la destra non c'è. Doveva farlo la sinistra perché la destra non l'avrebbe fatto»6. E' chiaramente in questo contesto a dir poco singolare, e sotto l'accorto magistero di François Mitterrand, che la «lotta contro il razzismo e contro ogni forma di discriminazione» (la cui connessione filosofica con il liberalismo era stata per l'appunto teorizzata qualche anno prima da Friedrich Hayek in persona)7 prendeva del tutto logicamente il posto dell'«arcaica» lotta di classe, diventando la nuova buona novella dell'intellighenzia «illuminata».

Considerata la velocità con la quale le cose mutano, non è quindi impossibile che la tematica centrale di questa conversazione, ovvero la critica degli effetti morali, psicologici e antropologici che lo sviluppo del capitalismo moderno necessariamente induce, appaia in certo qual modo ambigua, se non addirittura esplicitamente «reazionaria», a tutti coloro che hanno ormai fatta propria l'idea che una critica «progressista» del mondo moderno dovrebbe limitarsi, da una parte, a introdurre un po' più di equità nella redistribuzione dei frutti della «crescita» (concetto del quale è diventato sconveniente voler indagare l'immaginario e la realtà) e, dall'altra, a sostenere per principio tutte le battaglie volte a «decostruire» i molteplici «tabù giudaico-cristiani» lasciati in eredità dalle sciocche generazioni precedenti (che si tratti, per esempio, di denunciare la «finzione eterocentrica» secondo cui la differenza tra un uomo e una donna potrebbe avere un qualche rapporto con la loro rispettiva anatomia8, di invitare a liberalizzare il commercio delle sostanze stupefacenti, o ancora di spingere per considerare la prostituzione, ovvero la mercificazione del rapporto sessuale, come «un mestiere fra gli altri» che in quanto tale non pone alcun problema filosofico specifico).

Sarebbe stato sufficiente rileggere, anche solo rapidamente, i principali testi di critica anticapitalista del xx secolo - dalla Scuola di Francoforte all'Internazionale Situazionista, passando per le opere basilari di Jacques Ellul, Ivan Illich e Henri Lefebvre, o ancora della sociologia americana di Lewis Mumford, David Riesman, Vance Packard, Stuart Ewen e Charles Wright Mills - per rendersi immediatamente conto di quanto profonda sia la voragine intellettuale che a partire dalla fine degli anni Settanta separa (in Francia come nell'intera Europa occidentale) questa tradizione critica un tempo fiorente da un progetto filosofico singolarmente povero (una miscela instabile tra Michel Foucault e Bernard-Henri Lévy), su cui attualmente si fondano le politiche della sinistra e della sinistra radicale moderne9.

Nel migliore dei casi, ovvero quando la «nuova filosofia» di questa sinistra autorizza ancora la denuncia di taluni aspetti della cosiddetta logica «neo-liberale», il capitalismo viene quasi sempre presentato - senz'altro per effetto di un super Io «marxista» spogliato da ogni implicazione critica - come una semplice forma di organizzazione economica della società, forma che peraltro si trova sempre più spesso ridotta alla sola influenza perversa della «finanza speculativa», esercitata su una «economia reale» ritenuta virtuosa per natura, che va quindi nuovamente liberata. Ma di fatto questa «economia reale» risulta sempre più orientata, per via dei vincoli imposti dalla globalizzazione, dall'imperativo di produrre prioritariamente, e secondo le regole del «nuovo management», solamente quei valori di scambio suscettibili di rispondere alla domanda solvibile (business is business) di un mercato che si pretende «autoregolato». Un mercato il cui dinamismo, come ben sappiamo, dipende dall'insoddisfazione strutturale dei consumatori, che deve essere mantenuta quotidianamente dalla propaganda pubblicitaria e dall'industria del divertimento, o meglio dal neuro-marketing (e questo anche nel caso in cui le scintillanti merci nelle quali si incarna questo fugace valore di scambio si rivelassero profondamente distruttive per l'animo di quegli stessi consumatori, per la loro salute o per l'ambiente naturale in cui vivono).

Eppure, oggi più che mai, è evidente (quanto meno a chiunque si sforzi di mantenere un minimo di buon senso e di capacità di indignarsi) che il sistema capitalista, considerato nella sua dinamica complessiva, si configura ormai come un fatto sociale totale (riprendendo l'espressione coniata da Marcel Mauss) i cui principi hanno finito per estendersi ben al di là della sola sfera del mercato e persino delle semplici modalità di consumo in senso stretto. Beninteso, questa naturale tensione della logica capitalista a invadere l'intero campo dell'esistenza umana (per giungere fino agli aspetti più intimi del rapporto dei soggetti con se stessi) esisteva già in potenza nei dogmi originari del liberalismo, ovvero nell'epoca fondatrice in cui, «verso il 1750, la nazione, infine sazia [...] di riflessioni morali e dispute teologiche sulla grazia e sulle convulsioni, si mise a ragionare sul peculio»10 (Voltaire, Dizionario filosofico).

Il fatto è che il progetto liberale, se si fa lo sforzo di coglierlo nella sua unità dialettica11, è sempre stato filosoficamente inseparabile, di fatto e di diritto, da una profonda volontà di rivoluzionare l'insieme delle strutture tradizionali della società (anche se la maggior parte dei padri fondatori del liberalismo sarebbero di certo rimasti sorpresi dalle conseguenze a lungo termine di questa volontà rivoluzionaria)12. Se, come voleva per esempio Adam Smith, la condizione primaria per un mondo libero, prospero e pacifico - dal momento in cui viene plasmato dal «commercio gentile» e dai «diritti dell'uomo» - è senz'altro la progressiva eliminazione di tutti gli Acts of Settlements esistenti, ovvero di tutti gli ostacoli istituzionali e consuetudinari che, stando alle sue parole, «sono di intralcio alla libera circolazione del lavoro e dei capitali, sia da un posto di lavoro a un altro sia da un luogo a un altro» (ed è ovviamente solo in presenza di questa condizione globalizzante che la «mano invisibile» del libero mercato è ritenuta capace di accordare la domanda con l'offerta), allora è chiaro che il radicale sradicamento degli individui e la metodica svalutazione di ogni forma di appartenenza storica e culturale che lega affettivamente tali individui a un passato, a dei luoghi o ad altri esseri (o, in altri termini, l'interiorizzazione da parte di ciascuno dell'imperativo incondizionato della «flessibilità» e della mobilità geografica e professionale generalizzata)13 dovevano prima o poi apparire per ciò che essenzialmente sono: l'imperativo categorico primario del nuovo modo di vita capitalista, e dunque la verità ultima di qualsiasi liberalismo realmente esistente.

Per convincersene è sufficiente dare una scorsa ai documenti «riservati» del Big Business (e dei suoi molteplici think tanks), oppure, in mancanza di questi, immergersi nella letteratura, molto più accessibile e molto più candida, dei «nuovi movimenti sociali» e delle «nuove radicalità»14.

Ebbene, se questa «perdita dei legami comunitari e di vicinato» (Michael Ignatieff) rappresenta sicuramente uno degli aspetti più devastanti e disumanizzanti del programma liberale15, è facile capire come il radicale rifiuto di un mondo fondato - in nome della «libertà individuale» e dei «diritti dell'uomo» - sulla concorrenza estenuante di tutti contro tutti (ciò che Michel Houellebecq ha così ben definito «l'estensione del dominio della lotta»); il rifiuto del primato egoista dell'«interesse correttamente inteso» (che ha sostituito l'arte di vivere con la scienza contabile); e il rifiuto della conseguente riduzione degli esseri umani allo statuto di «atomi isolati privi di consapevolezza generale»16, abbiano costituito fin dall'origine il centro di gravità intellettuale di tutte le proteste morali del nascente socialismo. Resta il fatto che è solo a partire dal XX secolo (quando la logica liberale, sempre spronata dalla necessità di scoprire nuovi «sbocchi», condurrà pian piano alla costituzione di una «società dei consumi» basata sul credito, sull'obsolescenza programmata e sulla propaganda pubblicitaria) che il sistema capitalista, ormai definitivamente affrancatosi da tutti i suoi iniziali compromessi con le forze dell'Ancien Régime, comincerà veramente a incarnarsi in un modo di vita specifico e completamente «moderno». Un modo di vita mobile e «senza tabù» di cui la cultura mainstream e la religione del progresso tecnologico simbolizzano oggi l'indispensabile complemento spirituale. E' allora, e solo allora, che il progetto di un'accumulazione infinita del capitale (ovvero il progetto di una «crescita» illimitata, se si preferisce il termine più «neutro» adottato dagli ideologi contemporanei) riuscirà a dispiegare progressivamente tutto il suo potenziale distruttivo, sia sul piano psicologico e morale sia sul piano ecologico. Diventando infine in modo esplicito ciò che era fin dalle sue origini - cioè una trasformazione storica che ha debuttato a metà degli anni Venti negli Stati Uniti e nel corso degli anni Cinquanta per quanto riguarda la vecchia Europa - il sistema capitalista avanzato ha offerto la più eclatante conferma delle intuizioni che, a partire da Simonde de Sismondi, Charles Fourier e Pierre Leroux, avevano nutrito la critica socialista del secolo precedente.

Rimane ora da affrontare un'ultima questione. Denunciando in tal modo, nel solco di quella insostituibile tradizione socialista, il processo storico di privatizzazione integrale di tutti i valori comuni che la dinamica liberale comporta per sua propria essenza (per esempio mostrando, con Castoriadis, che tale dinamica trasgressiva arriva a dissolvere ogni sentimento di continuità storica, ogni idea di spazio pubblico17 e ogni riferimento a una vera temporalità condivisa; oppure mostrando, con Lasch, che essa riduce progressivamente l'individuo moderno a un «io minimo» e narcisista obbligato dal proprio vuoto interiore a esaurirsi psichicamente in compiti di quotidiana sopravvivenza), non siamo allora inesorabilmente spinti a soppesare costi e benefici di questo ideale di autonomia individuale (l'idea che ognuno sarebbe sempre piazzato nella migliore delle posizioni per decidere come condurre i propri affari che senza dubbio costituisce l'apporto filosofico più seducente della dottrina liberale? E di conseguenza, uno spirito «realista» non dovrebbe trarne la conclusione, con Louis Rougier18, che il desiderio apparentemente legittimo «di realizzare una società più giusta, più morale e più prospera, nella quale l'egoistica ricerca del profitto personale venga sostituita dalla soddisfazione altruista dei bisogni collettivi di massa» potrà storicamente realizzarsi solo nelle forme di una società oppressiva, chiusa su se stessa e senza altra ambizione se non quella di fornire a tutti i suoi membri intercambiabili «una gavetta, una caserma e una uniforme»? Questa maniera, a prima vista plausibile, di contrapporre le esigenze moralmente vincolanti di qualsiasi forma di vita collettiva (soprattutto quelle che discendono dal vecchio imperativo della solidarietà) all'ideale moderno di una vita interamente «libera» (della quale Sade, come Lasch aveva ben visto, rappresenterebbe la figura esemplare), riposa tuttavia su una rappresentazione puramente utilitarista della società, della quale il minimo che si possa dire è che si tratta di una visione particolarmente semplicistica e ingenua. Si tratta, notava già Marx, di quelle «robinsonate» fondative che affondano le proprie radici «nelle piatte narrazioni del XVIII secolo» («il cacciatore e il pescatore singoli e isolati, da cui prendono le mosse Smith e Ricardo»). Questo genere di antropologia speculativa (sulla quale ancora oggi poggia la maggior parte delle costruzioni ideologiche dell'economia ufficiale) non tiene evidentemente in considerazione il fatto che l'essere umano, come appunto sottolineava Marx riferendosi esplicitamente ad Aristotele, «è non solo un animale sociale, ma altresì un animale che può isolarsi solo nella società»19.

Sarebbe dunque quanto meno azzardato sostenere che questo bell'ideale di libertà individuale (al quale Lasch e Castoriadis, se ci fosse bisogno di ribadirlo, erano profondamente ancorati) potrebbe trovare le proprie condizioni di realizzazione concreta solamente attraverso la preventiva liquidazione di ogni eredità storica e culturale, e anche di ogni riferimento all'idea di un «mondo comune» (come se l'altro compito politico di ogni movimento rivoluzionario realmente emancipatore non fosse sempre stato, per riprendere la formula utilizzata da Camus nei suoi Discorsi di Svezia, quello di «impedire che il mondo vada in pezzi»). Così, il vero problema, da quando esiste il progetto socialista, si è sempre posto negli stessi termini. Nella misura in cui l'emancipazione delle classi lavoratrici si mostri indissociabile da quella dell'umanità intera (lo stesso Engels scrisse nel 1892 che si trattava «di liberare l'intera società, compresi i capitalisti stessi»), questo progetto non potrebbe di fatto mirare unicamente a rendere impossibile il moderno sfruttamento dell'uomo sull'uomo e le sue nuove condizioni industriali. Ma implica simultaneamente il progressivo superamento di tutte quelle forme di dominazione e di soffocante condizionamento psicologico (è il caso per esempio della subordinazione delle donne, del diritto di anzianità o della persecuzione degli omosessuali) legate in genere al tradizionale modo di vita comunitario e che oggi costituiscono altrettanti ostacoli moralmente inaccettabili per l'ideale di realizzazione personale che dovrebbe caratterizzare ogni società moderna decente.

La difficoltà consiste dunque nello scoprire quali siano i mezzi politici per portare a compimento un tale programma egualitario e liberatore, senza però che quel medesimo movimento, al pari del rullo compressore incarnato dal mercato capitalista, travolga rovinosamente le condizioni antropologiche del fatto comunitario in sé. E innanzi tutto, come ci ha insegnato Marcel Mauss, quella che fin dalla più lontana preistoria ha sempre costituito il terreno originario delle relazioni umane (e quindi il fondamento obbligato di ogni possibile comunità), ossia il triplice obbligo universale a «donare, ricevere e rendere»20 di cui ogni civiltà nota (eccezion fatta per la sfiancante civiltà capitalista contemporanea) rappresenta uno sviluppo storico e culturale necessariamente particolare e quindi, in quanto tale, un insostituibile contributo alla storia dell'umanità21. Beninteso, neppure per un istante si intende qui negare che, nell'affrontare concretamente questo problema fondamentale, il movimento socialista, dopo un inizio promettente, abbia finito per accumulare un ritardo considerevole. Un ritardo di cui i responsabili principali sono la religione del progresso a ogni costo (cuore nevralgico, a partire dal xix secolo, di tutti i discorsi derivati dalla filosofia dell'Illuminismo) e la lunga parentesi storica del «comunismo» stalinista.

E tuttavia potrebbe darsi che Marx ci aiuti ancora una volta a chiarire una parte del problema. Dopo aver ricordato (in una lettera indirizzata nel 1881, al tramonto della sua vita, a Vera Zasulic e ai populisti russi) che la «vitalità delle comunità primitive» era «incomparabilmente maggiore rispetto a quella delle società capitaliste», era giunto alla conclusione, riprendendo a modo suo una formula dell'antropologo americano Lewis Morgan, che una società socialista avanzata si sarebbe senza dubbio dovuta intendere come una «rinascita (a revival) in una forma superiore {in a superior form) di una forma sociale arcaica» (aggiungendo addirittura, qualche decennio prima di Marcel Mauss e per le stesse ragioni, che non bisognava «farsi troppo spaventare dalla parola arcaico»). Concretamente, dal suo punto di vista, questo portava a determinare sotto quali forme sarebbe stato ancora possibile conservare le tradizionali strutture di solidarietà comunitaria, indispensabili a ogni esistenza davvero umana (quel che E.P. Thompson più tardi celebrerà sotto il nome di customs in common), sforzandosi al tempo stesso non solo «di integrare alla comune tutte le acquisizioni positive elaborate dal sistema capitalista», ma anche di assimilare tali acquisizioni senza per questo obbligarsi a passare «sotto le forche caudine» del sistema capitalista, cioè senza «assoggettarsi al suo modus operandi» atomizzatore e desocializzante (si noterà come il suo dibattito con i populisti russi l'abbia infine condotto a stemperare fortemente il suo iniziale determinismo storico). Tra queste «acquisizioni positive» della modernità - di cui ogni popolo dovrebbe riappropriarsi, in maniera ogni volta specifica, svincolandole dalle forme storiche uniformanti e alienanti che imprime loro la modalità liberale di «emancipazione» degli individui - Marx includeva anche tutto ciò che avrebbe potuto favorire un reale «sviluppo dell'individualità», così come la capacità correlata di accettare «il contatto con gli stranieri».

Definire le istituzioni concrete grazie alle quali una «società libera, egualitaria e decente» (George Orwell) possa conferire tutto il proprio senso a questa dialettica creatrice tra il particolare e l'universale22 costituisce senz'altro un programma politico e filosofico estremamente sottile ed esigente (che di fatto dipenderà sempre molto più dalla naturale inventiva della gente comune che dai calcoli sapienti di intellettuali specializzati). Date queste condizioni, non possiamo che rammaricarci ancora di più che il breve scambio tra Christopher Lasch e Cornelius Castoriadis si concluda proprio su questo punto filosoficamente cruciale. Ma quanto meno possiamo essere sicuri di una cosa: non è certo demonizzando e bollando come «reazionario» ogni sentimento di appartenenza e di filiazione, non è etichettando per principio come «passatista» l'attaccamento legittimo dei popoli alla propria lingua, alle proprie tradizioni e alla propria cultura (ed è proprio questo oggi il nucleo residuale di tutte le metafisiche di sinistra), che gli individui moderni potranno trovare il sentiero verso una emancipazione possibile, individuale e collettiva, che sia al tempo stesso reale e davvero umana. Ecco dove sta tutta la differenza fra una lotta politica che, sulla scorta di quella degli anarchici, dei socialisti e dei populisti del XIX secolo, mirava innanzi tutto a offrire agli individui e ai popoli i mezzi per accedere a una vita realmente autonoma (condizione basilare per ogni vita «bella» e, possibilmente, felice), e un processo storico di perpetua fuga in avanti (sotto il triplice pungolo del mercato «autoregolato», del diritto astratto e della cultura mainstream) che quasi più nessuno, quanto meno tra le file delle nostre sfavillanti «élite», si cura di padroneggiare a fondo e che potrà solamente condurre (ancorché santificato con il nome di «Progresso») a una definitiva atomizzazione della specie umana.

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Note
1. Di Michael Ignatieff, filosofo e uomo politico canadese, si veda in francese l'appassionante saggio su La Liberté d'ètre hu-main: essai sur le désir et le besoin, La Découverte, Paris, 1986.
2.  Già nel 1986 Cornelius Castoriadis riteneva che ormai «da lungo tempo il divario destra-sinistra, in Francia come nel resto del mondo, non corrisponde più ai problemi del nostro tempo, né riflette scelte politiche radicalmente opposte» (Castoriadis, un deçù du gauche-droite, «Le Monde», 12 luglio 1986). Quanto a Christopher Lasch, di lì a poco avrebbe dedicato l'introduzione della sua storia dell'idea di progresso ( The True and Only Heaven: Progress and Its Critics, W.W. Norton, New York, 1991: trad. it.: Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica, Feltrinelli, Milano, 1992) a stabilire una volta per tutte «l'obsolescenza del divario fra destra e sinistra».
3. Per questa ragione ci è voluto più di un anno per ritrovare la registrazione della trasmissione.
4.  Bernard Tapie, uomo d'affari e politico francese di area socialista, negli anni Ottanta fu protagonista di una irresistibile ascesa sulla scena sociale e di una successiva clamorosa caduta dopo essere stato incriminato per corruzione nel 1994 [N.d.T.].
5.  Rawi Abdelal, Capital Rules: The Construction of Global Finance, Harvard University Press, Cambridge, 2007.
6. Dichiarazioni pubblicate nell'articolo di Rawi Abdelal, Le consensus de Paris: la France et les règles de la finance mondiale, «Critique internationale», 3/2005 (n. 28), pp. 87-115, consultabile online su www.cairn.info/revue-critique-internationale-2005-3-page-87.htm
7.  Nell'articolo Liberalism, redatto nel 1973 per l'Enciclopedia del Novecento, Hayek ricordava infatti che «la lotta per l'uguaglianza formale, ovvero la lotta contro tutte le discriminazioni basate sull'origine sociale, la nazionalità, la razza, le convinzioni religiose, il sesso ecc., hanno costituito da sempre una delle caratteristiche più importanti della tradizione liberale». Questo articolo viene ripreso nei suoi New Studies in Philosophy, Politics, Economics and the History of Ideas (Routledge & Kegan Paul, London, 1978).
8.  Secondo Judith Butler, gran sacerdotessa dei Gender Studies e ninfa egeria dell'estrema sinistra liberale francese, il più importante vantaggio filosofico della teoria che considera il genere «come una costruzione che non ha nulla a che vedere con il sesso» risiede appunto nel fatto che consente di rendere il genere «un artificio liberamente fluttuante» (citato da Sylviane Agacinski in Femmes entre sexe et genre, Seuil, Paris, 2012, p. 14). Ricordiamo che questa curiosa ideologia neospiritualista, che per inciso toglie ogni significato concreto al principio di parità, è stata introdotta ufficialmente nei manuali scolastici di Scienze della Vita e della Terra (in quanto incontestabile verità «scientifica») sotto il regno liberale di Nicolas Sarkozy.
9.  In occasione di una trasmissione di France 2 (Des paroles et des actes del 12 aprile 2012), David Pujadas sembra essersi divertito parecchio a porre questa domanda sorprendente e particolarmente perversa al simpatico Philippe Poutou (va notato che, in qualità di membro di spicco dell'associazione Le Siècle, uno dei più esclusivi club della classe dirigente francese, questo giornalista di certo non nutre alcuna illusione sulla reale natura del sistema che ha scelto di servire): «Ho letto attentamente il suo programma. E non ho trovato nulla contro la società dei consumi. Non è forse vero che oggi una delle maggiori forme di alienazione è la dittatura dei grandi marchi, la corsa all'ultimo modello di schermo al plasma o di smartphone? Eppure non ho trovato una sola parola in merito! Non è forse anche questa una forma di alienazione?». Ecco la risposta del candidato alle presidenziali della nuova sinistra radicale «anticapitalista» a questa domanda cinicamente debordiana: «Be', in definitiva secondo noi non è questo il problema principale». Ed è vero che per la maggior parte dei sinistrorsi radicali e dei «cittadini» (anche se bisogna riconoscere che il Nouveau Parti Anticapitaliste non si è ancora spinto fin là), il «problema fondamentale» è in genere - a scelta - il matrimonio omosessuale, la legalizzazione delle droghe leggere, il voto agli stranieri o il divieto delle corride.
10.  La maggior parte delle implicazioni psicologiche e morali del nuovo paradigma liberale era già state esplicitamente identificate in occasione della celebre «querelle sul lusso» che aveva fatto seguito alla pubblicazione nel 1734 dell'Essai politique sur le commerce {Saggio politico sul commercio) di Jean-Francois Melon. Quest'ultimo scriveva per esempio: «Lasciamo ai teologi la penosa occupazione di conciliare la severità della loro morale con il necessario interesse per il mantenimento della società». In un certo senso Jean-François Melon metteva l'accento con grande anticipo, e solo qualche anno più tardi di Bernard Mandeville, sull'impasse teorica in cui si sarebbero trovati a dibattere in seguito i futuri «neoconservatori» e i pretesi «liberali di destra».
11. Da questo punto di vista, l'esortazione dei liberisti a sottrarre tutte le attività di mercato agli interventi - percepiti come inevitabilmente arbitrari e dispotici - dello Stato o della collettività non è altro che l'applicazione allo specifico campo dell'economia del principio cardine del liberalismo politico e culturale, secondo il quale ognuno ha il diritto di organizzare la propria vita privata come meglio gli piace (che si tratti dell'uso che intende fare del proprio corpo oppure del proprio denaro). Nonostante tutti gli sforzi profusi da innumerevoli accademici di sinistra, a partire dall'inizio degli anni Ottanta, per distinguere un «buon» liberalismo politico e culturale (che sarebbe per natura «di sinistra») da un «cattivo» liberismo economico (che sarebbe necessariamente «di destra»), appare quindi evidente che questo diritto di ciascuno di gestire i propri affari personali a modo proprio ( «il godimento pacifico», diceva Benjamin Constant, «dell'indipendenza privata») non potrebbe in alcun modo fermarsi, come per miracolo, ai confini degli scambi di mercato. Il che spiega per esempio come mai l'attuale lotta delle «lavoratrici del sesso» liberali contro tutte le forme di «stigmatizzazione» dei rapporti sessuali a pagamento possa configurarsi sia come una lotta «di sinistra» (ovvero come una coerente difesa dei dogmi del liberalismo politico e culturale), sia come una lotta «di destra» (ovvero come una coerente difesa dei dogmi del liberismo economico). Di converso, l'unica cosa sulla quale non sussiste il minimo dubbio (in proposito basta riferirsi ai noti testi di Marcela Iacub, Virginie Despentes, Daniel Boriilo o di Ruwen Ogien) è che una simile lotta non ha nulla a che vedere, né da vicino né da lontano, con una qualsiasi forma di messa in discussione dell'ordine capitalista.
12.  Era questo, per esempio, l'obiettivo radicale che si prefiggeva la legge Le Chapelier, promulgata dall'Assemblea Costituente nel giugno 1791 per abolire le antiche barriere protezionistiche che ancora impedivano agli individui di entrare in concorrenza gli uni con gli altri (in altri termini, di sviluppare la loro «competitività» personale) e di realizzare in tal modo le condizioni pratiche della «libertà» capitalista. Per inciso, è interessante notare come tali barriere tradizionali venissero già allora presentate da Isaac Le Chapelier - nella più pura tradizione liberale - come «attentati alla libertà e alla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo» (articolo 4 della legge). Va inoltre notato che è proprio riprendendo e sviluppando il principio di queste associazioni e confraternite ora proibite dalla rivoluzione borghese - inizialmente in forme clandestine, per esempio dando vita a casse di mutuo soccorso illegale, a confraternite segrete o a comitati di sciopero che agivano nell'ombra - che gli operai e gli artigiani dell'epoca vennero progressivamente spinti a gettare una delle basi principali del futuro movimento socialista, sindacale e cooperativo.
13.  Se la condizione proletaria rappresenta «la punta estrema e la manifestazione più visibile della miserabile situazione sociale attuale» (Friedrich Engels, nella prefazione a La Situation de la classe laborieuse en Angleterre, Editions sociales, Paris, 1975; trad. it.: La condizione della classe operaia in Inghilterra), è proprio perché il «proletario» (termine introdotto da Sismondi), non possedendo ormai, in teoria, nient'altro che la propria «forza lavoro» (in altri termini, come scriveva ancora Engels, era stato spogliato «delle ultime vestigia della propria attività indipendente»), concentrava nel suo statuto e nella sua persona tutti gli effetti disumanizzanti dello sradicamento integrale (e «precarietà» è solo uno dei possibili nomi di questo completo spossessamento di sé). Ecco perché il socialismo originario si definiva innanzi tutto per la volontà politica di eliminare questa condizione proletaria, abolendo il controllo illimitato che l'appropriazione privata del «capitale» consente di esercitare sulla vita altrui.
14. Si veda, fra i mille esempi possibili, il rapporto pubblicato nel giugno 2011 dall'associazione La Cimade {Inventer une politique d'hospitalité). Questo testo allucinante, che tra le altre cose auspica una «governance democratica mondiale del pianeta», propone semplicemente di istituire «un diritto alla mobilità per tutti» (senza interrogarsi nemmeno per un momento sugli effetti e sulle condizioni ecologiche e antropologiche di un simile moto browniano su scala planetaria e permanente), diritto che dovrebbe «necessariamente inglobare» per ogni individuo una libertà integrale di circolazione e di insediamento. Tuttavia risulterà meno stupefacente l'orientamento risolutamente liberale (per non dire «ultraliberale») di questo curioso rapporto sapendo che a partire dal 2006 il presidente della Ci made è niente meno che Patrick Peugeot, ex amministratore delegato del gruppo assicurativo La Mondiale, ex collaboratore di Jacques Chaban-Delmas e di Jacques Delors, e soprattutto uno dei membri più attivi di Siècle (come d'altronde il suo collega Louis Schweitzer, presidente della filiale internazionale della Medef e primo storico dirigente della Halde).
15. «Dissolvendo le nazionalità, l'economia liberale ha fatto del suo meglio per generalizzare l'ostilità, per convertire l'umanità in un'orda di bestie feroci, visto che i concorrenti non sono altro che bestie feroci pronte a divorarsi reciprocamente proprio perché gli interessi di ciascuno sono uguali a quelli di tutti gli altri. Dopo questo lavoro preliminare, all'economia liberale rimaneva solo un passo da compiere per raggiungere il suo obiettivo: doveva ancora dissolvere la. famiglia». Il che, come osservava Engels nel 1843, spiegava perché fosse sempre meno raro incontrare bambini che, a causa delle condizioni di vita quotidiana imposte dallo sfruttamento capitalista moderno, arrivavano a considerare, «a partire dall'età di nove anni, il focolare domestico come un semplice albergo» (Engels, Esquisse d'une critique de l'economie politique, Allia, Paris, 1998, pp. 19-20; trad. it.: Per la crìtica dell'economia politica).
16. Engels, Esquisse d'une critique de l'economie politique, cit., p. 43. In La Situation de la classe laborieuse en Angleterre, Engels precisava: «Anche se sappiamo che questo isolamento dell'individuo e questo limitato egoismo sono ovunque il principio fondamentale della società contemporanea, non si manifestano in nessun luogo con l'impudenza e l'arroganza che mostrano nella ressa della grande città. La disgregazione dell'umanità in monadi, ciascuna dotata di un principio di vita e di una finalità particolari, insomma l'atomizzazione del mondo, viene spinta qui all'estremo. Ne deriva che la guerra sociale, la guerra di tutti contro tutti, si trova qui apertamente dichiarata» (cit., p. 60). Si apprezzerà quindi maggiormente l'obiezione formulata contro questa idea da Emmanuel Terray (uno dei principali partigiani, nelle file dell'estrema sinistra, della totale deregolamentazione di tutti i flussi migratori del pianeta) in una intervista pubblicata dal settimanale «Marianne» del 28 aprile 2012. A voler credere alle sue dichiarazioni, tutti questi discorsi «sulla perdita dei valori, sul fatto che ogni individuo sia ormai libero di fare ciò che vuole senza tener conto degli altri» rappresentano solo la ripresa di un «vecchio ritornello», che costituisce il marchio peculiare di una destra eterna (poiché secondo Terray è chiaro che «qualunque siano i regimi politici e i regimi sociali, ci sarà sempre una destra e una sinistra», che si tratti del regno franco di Clodoveo o di una tribù del paleolitico inferiore). Sarebbe davvero difficile mostrare più chiaramente la distanza politica che separa oggi un «uomo di sinistra» (o di estrema sinistra) da un partigiano della rivoluzione socialista. Non solo, qui possiamo cogliere al meglio anche quali siano i nuovi puntelli filosofici (dopo «l'affaire Heidegger», che da questo punto di vista ha giocato un ruolo decisivo a partire dalla fine degli anni Ottanta) che inducono sempre più spesso gli ideologi della sinistra liberale ad assimilare ogni critica della «crescita» e ogni progetto di rottura radicale del controllo capitalista sulla vita a una ripresa pura e semplice, da parte dei «nuovi reazionari», di idee vetuste espresse dal «fascismo» e daH'«estrema destra».
17. Proprio come l'esistenza di una vera comunità non implica affatto la scomparsa di ogni vita privata e di ogni intimità, così l'esistenza di un mondo liberale in via di atomizzazione non implica che ciascuno sia condannato a condurre una vita eremitica di eterna solitudine (già Hobbes aveva asserito che l'amor proprio e l'interesse sono sufficienti a spingere gli individui centrati su se stessi a «ricercare in permanenza la compagnia degli altri»). Anzi, si potrebbe persino sostenere che mai nella storia dell'umanità c'è stata una società più mimetica e interconnessa di questa moderna società liberale che celebra a distanza di schermo la meravigliosa indipendenza degli individui che contribuisce a produrre. Tale apparente contraddizione si risolve però rapidamente non appena si prende in considerazione il fatto che questa nuova «socialità», tanto affascinante per i sociologi di Stato (si pensi solo alla montagna di sciocchezze accademiche scritte sulle virtù rivoluzionarie di Twitter, Facebook e di altre «reti sociali»), per la maggior parte del tempo si concretizza in una patetica contraffazione di legami umani autentici e di autentica amicizia (già Aristotele notava che «non si possono avere molti amici veri»). Come scriveva Guy Debord, nella società capitalista giunta al suo stadio spettacolare-mercantile «ciò che lega gli spettatori non è che un rapporto irreversibile allo stesso centro che mantiene il loro isolamento. Lo spettacolo riunisce il separato, ma lo riunisce in quanto separato» {La società dello spettacolo, tesi 29). Per comprendere appieno quest'ultima formula basta osservare da vicino lo svolgimento di un «evento Facebook».
18.  Discorso di apertura del Convegno Lippmann (26 agosto 1938).
19.  Karl Marx, Introduction à la critique de l'économie politique, 1857; trad. it.: Introduzione alla critica dell'economia politica.
20. Ricordiamo che i termini «comune», «comunità» o «comunismo» si formano a partire dalla radice latina munus, che fra l'altro indicava gli obblighi (o gli «oneri») che derivavano tradizionalmente dalla logica del dono e dell'onore e che da questo punto di vista costituiscono il vero zoccolo culturale e antropologico di tutte le relazioni personali o «faccia a faccia». Se, come è evidente, nulla vieta che una comunità allargata possa sviluppare, all'interno di certi limiti morali e culturali, un settore di mercato e delle istituzioni giuridiche (detto in altri termini, quei sistemi impersonali e anonimi di messa in relazione delle persone che danno forma a ciò che Alain Caillé chiama «socialità secondaria»), per contro è chiaro che tali strutture, fondate sulla mera logica del «do-ut-des» e dell'«interesse correttamente inteso», non possono in alcun modo definire (come vuole invece il dogma liberale) il fondamento primario del legame sociale quale si manifesta in maniera privilegiata nella vita quotidiana. E quindi ancor meno il principio filosofico fondante di una società decente. Una «comunità» composta esclusivamente da uomini d'affari mossi dalla cupidigia e da uomini di legge osservanti delle procedure (ovvero una comunità nella quale l'insieme dei membri applica, in tutte le sue relazioni quotidiane, la «morale» concreta di questi due tipi umani) sarebbe semplicemente invivibile. Eppure è proprio a questo risultato che il sistema liberale tende logicamente.
21. Non si tratta di giustapporre, in maniera meccanica e astratta, un mondo tradizionale che si suppone immobile e omogeneo (per esempio il mondo indiano, la civiltà islamica o le culture indigene dell'America latina) e il processo di modernizzazione promosso dall'Occidente liberale. Per quanto esistano invarianti antropologiche, come il senso dell'onore e la logica del dono, le varie culture che storicamente danno forma a queste modalità invarianti si incarnano in «tradizioni» in perenne trasformazione ed evoluzione. Beninteso, la natura concreta e l'esatto ritmo di queste trasformazioni simboliche dipendono, da una parte, dalla struttura interna di queste diverse culture e, dall'altra, dalle circostanze storiche che devono affrontare (per esempio l'incontro di una comunità indigena con l'invasore coloniale, il missionario, il turista o la multinazionale straniera). Ma in tutti i casi non è possibile assimilare le molteplici riorganizzazioni simboliche alle variazioni programmate che regolano, su una scala temporale sempre più breve, il succedersi continuo delle diverse mode legate all'industria culturale del capitalismo avanzato. Perciò il problema non è tanto quello di giustapporre l'immobilità sempre mortifera al cambiamento sempre salvifico (secondo l'abituale retorica della sinistra), ma di imparare a distinguere i cambiamenti che possono verificarsi a un ritmo umano (si rivela qui centrale la questione del tempo sociale e della sua accelerazione moderna) e quelli che vengono imposti solo in base alla logica omogeneizzante del mercato globale, del diritto astratto e della cultura alienante che ne è la traduzione. Sul modo in cui le molteplici tradizioni culturali, ciascuna secondo il proprio genio, possono riuscire (o non riuscire) ad addomesticare l'innovazione, l'apporto straniero e persino le vere e proprie «rivoluzioni morali» (Kwame Appiah), ci si potrà riferire all'opera fondamentale pubblicata nel 1983 sotto la curatela di Eric Hobsbawm e Terence Ranger, L'Invention de la tradition (Editions Amsterdam, Paris, 2012; trad. it.: L'invenzione della tradizione, Einaudi, Torino, 2002).
22. In una conversazione del dicembre 1994 con Alain Caillé, Serge Latouche, Jacques Dewitte e altri rappresentanti del Movimento Anti-Utilitarista nelle Scienze Sociali (il MAUSS), Cornelius Castoriadis, che all'inizio privilegia soprattutto il «momento greco», arriva a riconoscere la necessità di fondare il progetto socialista di autonomia individuale e collettiva su un movimento che «conservi, riprenda e sviluppi con modalità diverse i valori di socialità e di comunità che sussistono - nella misura in cui continuano a sussistere - nei paesi del Terzo mondo. Poiché ci sono ancora valori tribali in Africa. Sfortunatamente, si manifestano sempre più nei massacri reciproci; e tuttavia continuano a manifestarsi anche in talune forme di solidarietà fra le persone, che sono invece praticamente scomparse in Occidente, rimpiazzate da modalità ben più miserevoli» {Démocratie et relativisme, Mille et Une Nuits, Paris, 2010; trad. it.: Democrazia e relativismo, elèuthera, Milano, 2010, p. 45). Per ritrovare, a partire da quest'ultima indicazione di Castoriadis, l'autentico fondamento antropologico della common decency orwelliana, basterebbe aggiungere, in sintonia con le analisi sviluppate dai ricercatori del MAUSS, che tali «valori di socialità e di comunità» sono ben lungi dall'essere scomparsi, persino nelle società occidentali moderne. Ed è innanzi tutto nella vita quotidiana delle classi diventate mediaticamente invisibili (e che tuttavia costituiscono la condizione ordinaria della popolazione) che bisogna andare a scovarli (già Engels nel 1845 scriveva che «nella vita quotidiana l'operaio è ben più umano del borghese [...] perché non vede ogni cosa attraverso il prisma dell'interesse»). In proposito si possono trovare una gran quantità di approfondimenti indispensabili nell'opera pionieristica di Christophe Guilluy.

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