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marxxxi

Le prefazioni del Manifesto

Colpo d'occhio sullo sviluppo del marxismo in Italia

di Francesco Galofaro

marx engelsIntroduzione

Perché scrivere una nuova prefazione di un testo? Con Genette (1987) sappiamo che ogni prefazione ha la funzione di orientare l'interpretazione del lettore. Se è così, le introduzioni al Manifesto del partito comunista costituiscono un documento di eccezionale interesse: dicono molto del modo in cui questo scritto, piccolo ma pericoloso, è stato interpretato nel corso dei suoi quasi 170 anni di vita. Un periodo in cui è stato continuamente ristampato mentre mutavano le sorti del movimento dei lavoratori, della filosofia marxista e delle forme di Stato che ad essa si ispiravano e si ispirano tutt'ora. Wikipedia conta una sessantina di edizioni italiane, ma basta dare un'occhiata al catalogo opac per rendersi conto che il computo è largamente incompleto. Fortunatamente, il numero delle prefazioni e delle introduzioni è minore; nonostante questo non è stato possibile reperirle tutte. Il nostro criterio è stato il seguente: abbiamo effettuato un campionamento di grappoli di testi a distanza di più o meno cinquant'anni. In questo modo si sono evidenziate alcune funzioni interessanti delle prefazioni:

- Bilancio della storia del movimento dei lavoratori dal 1848;

- Attualizzazione del Manifesto nel contesto della nuova edizione;

- Orientamento del lettore entro il dibattito marxista coevo, tanto per ciò che riguarda la teoria quanto per le opzioni politiche che ne conseguono;

Abbiamo considerato prefazioni fondamentali, quali quelle di Labriola o di Togliatti; altre ci sono sfuggite. Ci è stato impossibile reperire alcune edizioni rare, come quella a cura del PCdI del 1925, della quale abbiamo notizie indirette. Mancano le poche prefazioni edite dalla così detta Nuova sinistra, quali quella di Corvisieri e Rostagno; come vedremo, alcuni esponenti del dibattito teorico del marxismo degli anni '60 e '70 diverranno prefattori di Marx molto più tardi, a partire dagli anni '90. Ci scusiamo con il lettore per le carenze del nostro lavoro; ne segnaleremo di volta in volta i limiti scientifici e il perimetro e ci ripromettiamo di colmare le lacune in seguito.


Materializzazione dello spettro

Siamo nel 1848 ed uno spettro si aggira per l'Europa: lo spettro del comunismo. Così recita il noto incipit del Manifesto del partito comunista. Il Manifesto fu pubblicato come strumento di lotta politica, finanziato dalla Lega dei giusti, un'organizzazione di operai parigini, composta soprattutto da sarti e falegnami1 . Il titolo è piuttosto interessante: la parola “Partito” non può essere intesa, come oggi, alla stregua di un'organizzazione politica come quelle che di lì a poco avrebbero fatto irruzione sulla ribalta della storia: all'epoca significava semplicemente “tendenza” o “opinione”. Il Manifesto fu scritto per avere una diffusione immediata e stampato in diverse lingue. Tra le quali una versione italiana (perduta), inglese, francese, tedesca, fiamminga e danese.

Fu forse un colpo di fortuna o una previsione azzeccata, ma un paio di settimane dopo la sua pubblicazione la rivoluzione scoppiò in tutta Europa. Nell'anno del crollo della Santa Alleanza e della fine delle residue istituzioni feudali, il Manifesto ebbe rapida diffusione e lo si stampò perfino sui quotidiani, a puntate. Poi, con il '49 e il reflusso dell'ondata rivoluzionaria, anche il Manifesto scomparve dalla circolazione per un quindicennio: se letta semplicemente come opera che incita alla rivoluzione, già allora non era più possibile considerarla attuale. Lo stesso Marx inaugura un nuovo periodo della sua vita: costretto ad abbandonare Parigi, si trasferisce a Londra e torna allo studio dell'economia, convinto che l'emancipazione del proletariato abbia bisogno di una teoria scientifica migliore. Gli sforzi del periodo sono raccolti nei Grundrisse.

Il Manifesto ritorna di moda anni dopo, a partire dalla fondazione della prima internazionale, in concomitanza con il successo crescente delle socialdemocrazie in occidente. Si preparano ristampe. Tuttavia, a sottolineare la vocazione scientifica dell'opera, gli stessi autori non mancano di aggiornarne il lessico ed i contenuti, rendendo difficile agli editori di ieri e di oggi la scelta della versione da ristampare. Ad esempio, Engels sostituisce al termine “lavoro” l'espressione “forza-lavoro2, ed esclude la società preistorica dall'ambito di quelle interessate dalla lotta di classe. Anche le prefazioni d'autore sono strumento di lavoro: ad esempio, dopo la Comune di Parigi, Marx ed Engels scrivono che la macchina statale non può essere messa in opera ai fini dei lavoratori semplicemente così com'è3. Nel preparare le prefazioni alle edizioni per ciascuna regione, poi, non dimenticano di effettuare una piccola analisi del suo sviluppo economico, dei suoi problemi e dello stato politico in cui versa. Per esempio, l'edizione polacca del 1892 ricorda che la Polonia è industrialmente più sviluppata della Russia e affida al proletariato il compito di liberare la nazione dal giogo russo, data l'ormai inestricabile connivenza di interessi che si è venuta a creare tra le rispettive aristocrazie. Come possiamo vedere, le prime ristampe del Manifesto sono già da subito un tentativo di attualizzazione. In questa sua capacità di lasciarsi re-inserire in un nuovo contesto consiste la sua pericolosità: per questo non fu mai del tutto riassorbito dalla cultura borghese, essa tenti sempre di sterilizzare e fagocitare ogni movimento rivoluzionario.


La diffusione in Italia

Come nota Hobsbawn (1998), in Italia l'opera si diffonde assai tardi rispetto alla sua riscoperta nel resto d'Europa. Come si è detto, la prima versione italiana del 1848 è oggi perduta. In seguito, gli italiani leggeranno Marx prevalentemente in francese. Alcune traduzioni parziali cominciarono a girare negli anni '80 dell'Ottocento, quando nel resto dell'Europa occidentale l'opera di Marx era ormai uno strumento acquisito tra i partiti socialisti dell'epoca. Nelle biblioteche ambulanti della socialdemocrazia tedesca il Capitale era presente insieme alle opere di Darwin 4 . Curiosamente, le prime operazioni divulgative del marxismo in Italia sono opera non dei socialisti, ma degli anarchici. Pensiamo al compendio del Capitale ad opera di Carlo Cafiero (1879).


La prefazione di Pietro Gori

In questo contesto la prima prefazione al Manifesto in cui ci si imbatte è quella di Pietro Gori, intellettuale e poeta anarchico, autore di canzoni di lotta come Addio Lugano bella e La ballata di Sante Caserio. E' il 1891 e la casa editrice è Flaminio Fantuzzi di Milano. La traduzione è piuttosto lacunosa. Nella breve prefazione, le idee del Manifesto vengono definite “demolitrici”, “diroccatrici”: servono a far prendere coscienza alle masse. Gori descrive il movimento socialista in due periodi: la prima fase della lotta di classe aveva per obiettivo la rivendicazione, da parte del proletariato, di alcuni diritti di casta ; con il Manifesto, tuttavia, il socialismo moderno si fa universalista: alla fine della tirannide borghese non deve infatti seguire una nuova tirannide. Chiaramente Gori sottolinea i tratti più messianici del Manifesto con l'impeto rivoluzionario dei romantici. Secondo l'autore, una volta che il proletariato si sia dotato di uno strumento scientifico di questo calibro, non c'è bisogno di perdere ulteriore tempo a studiare: occorre passare all'azione senza ulteriori indugi.

 

La prefazione di Engels

Nel 1893 abbiamo una prefazione d'autore: è Engels in persona, su richiesta di Turati, a scriverla per il lettore italiano. L'editrice è “Uffici della critica sociale” di Milano, la casa editrice della rivista teorica del Partito Socialista Italiano, il cui congresso fondativo si era tenuto a Genova soltanto l'anno prima - cfr. Galli (1980). La traduzione questa volta è completa, a cura del poeta Pompeo Bettini, oggi dimenticato ma all'epoca apprezzato da Croce.

Nell'introdurre la propria opera, Engels compendia le rivoluzioni europee del 1848. A suo giudizio, in quell'anno gli operai portano ovunque al potere i borghesi, e, ove non vi sia uno Stato nazionale, ne pongono le basi. Non si tratta dunque di una rivoluzione socialista in senso proprio; piuttosto, ne crea le premesse. Nel contesto del giovanissimo Stato italiano, il cui destino appare ad Engels molto simile a quello tedesco, si sottolinea così il ruolo importante dell'unità nazionale a fianco della collaborazione internazionale degli operai. I due elementi, unità nazionale e collaborazione internazionale, non si davano ancora nel contesto del 1848. In conseguenza di quei moti, nei quarantacinque anni seguenti la borghesia sviluppa l'industria e pone, dialetticamente, un proletariato più forte e le condizioni per la sua vittoria. Engels tenta perfino un'opera di seduzione nei confronti del proprio lettore: riconosce nell'Italia il luogo dove per prima la borghesia si è sviluppata, nei comuni del tardo medioevo. Cita il rinnovamento culturale e spirituale che in quell'epoca si incarnò in un poeta come Dante, ed auspica che presto possa nascere un novello Dante, in corrispondenza con l'aprirsi dell'era proletaria.


Anarchici e socialisti

Un paragone tra il tentativo anarchico e quello socialista di appropriazione del Manifesto fa ben comprendere la differenza tra i due approcci. Il primo è ancora improntato ad una mitologia romantica: l'Idea, l'Azione, il tirannicidio; il secondo è più scientifico e perfino troppo moderato. Si tratta di una dialettica la cui possibile spiegazione risiede nell'antitesi tra due movimenti all'epoca molto forti e in competizione quali socialismo ed anarchismo. Secondo l'interpretazione di Galli (1980), il socialismo italiano nasceva fin da principio con un'evidente contraddizione interna tra afflato rivoluzionario e bisogno di riconoscimento politico legale. Tuttavia, sarebbe un errore pensare ad un Engels in cui, sopita ogni velleità rivoluzionaria, prevalgono moderazione e riformismo. Nella prefazione all'edizione italiana del 1895 di Le lotte di classe in Francia, Engels contrappone infatti il diritto al colpo di Stato della borghesia al diritto alla rivoluzione del proletariato. Quel che ad Engels non sfuggiva era piuttosto il carattere di transizione incompiuta al capitalismo e lo stato di arretratezza in cui versava l'economia italiana, elementi che certo non facevano pensare ad una rivoluzione imminente – cfr. Ragionieri (1976 : 47). Infatti, se confrontiamo la prefazione italiana e quella polacca dello stesso periodo, la seconda parla di una rivoluzione alle porte, mentre nella prima appare solo come augurio.


La prefazione di Antonio Labriola

Chi in quegli anni si diede davvero da fare per far conoscere Marx e per innovare la teoria socialista fu Antonio Labriola. Professore di filosofia della storia a Roma, negli anni '89-'90 tiene un corso sul Manifesto. In seguito scrive il saggio “In memoria del manifesto dei comunisti” per Devenir social, una rivista francese diretta da Sorel, ed in seguito lo pubblica in italiano, sollecitato da Croce. In seguito a questa lettura Croce stesso ha una breve conversione al marxismo. In seguito il saggio viene più volte ristampato come prefazione all'edizione del Manifesto del 1901, la cui traduzione è sempre del Labriola.

La posizione discussa da Labriola (1901) è quella del comunismo critico, l'etichetta con cui Marx ed Engels presentarono le proprie proposte politiche alla Lega dei giusti. Labriola recupera questa “denominazione di origine” per farla valere contro alcune caratteristiche filosofiche del marxismo della sua epoca, che specie in Italia assumeva contorni illuministici e positivisti. In polemica con il gruppo dirigente del socialismo italiano, Labriola portò avanti la sua battaglia culturale a stretto contatto con Engels ed Adler. La sua interpretazione del marxismo faticò ad affermarsi in Italia, mentre ebbe maggior fortuna all'estero: influenzò la visione di Plechanov5; anche Lenin, pur criticando quest'ultimo, lesse i Saggi sulla concezione materialistica della storia nel 1897 e ne auspicò la traduzione in russo, traduzione che apparve nel 1898 – cfr. Solomon (1973 : 92). Problematico l'atteggiamento di Trockij: se nella propria autobiografia finì per esprimere apprezzamento per Labriola, secondo la testimonianza dei Quaderni dal carcere egli considerava Labriola un dilettante del marxismo – cfr. Fresu (2007). Infine, non va dimenticato come le idee di Labriola abbiano influito sui giovani Gramsci e Togliatti6, allora studenti a Torino, alla ricerca di una alternativa all'interpretazione positivista del marxismo, in piena crisi ideologica.

Il primo nucleo tematico interessante che caratterizza la prefazione di Labriola è naturalmente una critica serrata nei confronti del positivismo, che descrive come un razionalismo astratto, che annacqua i caratteri originali della posizione marxiana con l'interclassismo riformista di Auguste Comte e col darwinismo sociale di Spencer, improntato all'individualismo borghese. Ad una visione determinista e lineare dello sviluppo storico, che ha il proprio termine nella conquista del potere da parte del proletariato, Labriola contrappone una lettura originale del rapporto tra storia e soggettività. Da un lato, i processi storici si compiono intorno a noi e attraverso noi. Dunque il nostro arbitrio è vinto e aggiogato ai processi sociali, e in questo la posizione di Labriola non pare certo contraria al determinismo. D'altro canto, rispetto ai processi sociali noi siamo contemporaneamente soggetto ed oggetto, causa ed effetto, termine e parte. Si tratta di una dottrina che diverrà compiuta in Gramsci e Togliatti che riflettono sul ruolo necessario del partito, soggetto del fare storia, contro il meccanicismo positivista.

Labriola è anche il primo a trarre un bilancio del Manifesto e a interrogarsi sulla sua scientificità. Labriola insiste sul carattere morfologico, e non cronologico, delle previsioni del marxismo. Ovvero, Marx non fornisce date, come farebbe un Nostradamus. Quel che Marx descrive è la forma della società, proprio come un botanico descrive la morfologia di una foglia. E nella foglia sono già inclusi i suoi possibili sviluppi. Un punto di vista che fa pensare al naturalismo di Goethe7.

Labriola non contrappone il comunismo critico di Marx ed Engels ai movimenti socialisti. Il comunismo critico si pone su un piano teoretico: il suo scopo è fornire ai movimenti un'interpretazione della storia e un'arma. E infatti il punto di vista storiografico del Manifesto poteva dirsi molto avanzato per la propria epoca: come testimonia Labriola, fu scritto quando la orientazione storica non andava più in là del mondo classico (ibid. p. 82). Anche Labriola cerca nella storia successiva al '48 alcune conferme della validità del marxismo. Tra queste, nota come sia sempre vero che l'affermazione dei movimenti socialisti passi sempre attraverso due stadi, seppur con ritmi diversi: un socialismo agrario, propugnato da piccolo-borghesi, déclassé, rivoluzionari per istinto; un secondo socialismo, più autenticamente proletario. Si trattava forse di un auspicio per l'Italia: sempre Labriola notava che il Partito Socialista nato a Genova aveva una composizione di classe prevalentemente borghese - cfr. Galli (1980).

Infine, Labriola vede il marxismo come un completamento dell'Economia classica. La teoria del valore dei classici ne costituisce il centro. Secondo Labriola, dopo Marx gli economisti borghesi sconfessano la teoria del valore perché si rendono conto essa conduce direttamente al marxismo attraverso leggi come quella della caduta tendenziale del saggio di profitto. Val la pena di ricordare che tale caduta è prima di tutto un fenomeno empirico che prima di Marx anche altri economisti, a partire da Adam Smith, avevano tentato di spiegare. Il bersaglio polemico di Labriola, ancora una volta aggiornatissimo, è costituito da economisti suoi contemporanei come Carl Menger e Vilfredo Pareto.


Le edizioni successive fino al '25

Nella prima terna di edizioni italiane del Manifesto che abbiamo considerato, vediamo, nell'arco di soli dieci anni, la dialettica tra un punto di vista anarchico, socialista, e infine critico nei confronti del socialismo stesso. L'attualizzazione del Manifesto in seguito viene perseguita anche allegando ad esso documenti importanti: ad esempio, nel 1918 in appendice si riportano le decisioni di Zimmerwald e di Kienthal, le due grandi conferenze internazionali socialiste tenutesi durante la guerra mondiale, nelle quali la posizione della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile, sostenuta da Lenin, era prevalsa su un paficismo generico ed astratto. Quando, nel 1925, esce la prima edizione del PCd'I, per la Libreria editrice del Partito Comunista, la traduzione è ancora quella del Labriola. In questo modo si costruisce una continuità ideale tra il suo comunismo critico ed il nuovo partito. Con il 1925 si interrompono le nuove edizioni del Manifesto, in concomitanza con la trasformazione del fascismo in dittatura.


La prefazione di Togliatti

Nel '43 le strutture dello Stato fascista crollano: in concomitanza, il Manifesto viene immediatamente ristampato a Padova, per Guerrini. Nel '48 esce un numero speciale di Rinascita contenente uno scritto di Togliatti (1948) sul Manifesto8, che verrà in seguito ripubblicato più volte, sia in forma di prefazione sia in allegato a diverse edizioni del Manifesto9. Si tratta di un atto di rivendicazione dell'eredità marxiana da parte del PCI appena uscito dalla guerra e dalla clandestinità, in un periodo in cui tale eredità poteva dirsi ancora contesa dal PSI10. Togliatti si pone in connessione con Labriola, del quale apprezza la visione della dialettica, antipositivista, che aveva influito sulla sua formazione e su quella di Gramsci. Secondo Togliatti sono invece trascurate dal Labriola le problematiche connesse al movimento operaio.

Ciò che rende attuale il Manifesto per Togliatti è la realizzazione della sua previsione scientifica, con la rivoluzione del '17 e con la comparsa di una nuova forma statale, socialista. Nota Togliatti che in passato liberali, gesuiti e socialdemocratici concedevano di più alla qualità di un classico che andrebbe letto a scuola; nel '45 invece la polemica ideologico-culturale arriva al punto di negargli ogni valore.

Il punto di vista veramente originale di Togliatti riguarda la stessa nozione di scientificità di una dottrina politica: ad essere interessante non è tanto la capacità della teoria di azzeccare previsioni, quanto piuttosto il suo potere di trasformare la realtà. Non bisogna dimenticare che in Togliatti e in Gramsci, a differenza che nel socialismo positivista, un grande ruolo è riconosciuto al soggetto delle trasformazioni storiche, quel principe che nella loro modernità si incarnava nel partito politico11. La teoria esibisce una caratteristica singolare: è come se, presa coscienza delle leggi storiche, essa ci aprisse una possibilità, per quanto piccola, di deviarne il corso: uno spazio tecnico e politico in precedenza inesistente. Questa visione è ancora una volta lontana dal determinismo positivista, per cui le leggi inesorabili della storia portano inevitabilmente alla rivoluzione e alla vittoria del proletariato, un modello che a Togliatti e a Gramsci appariva già del tutto superato negli anni '10 del Novecento – cfr. Togliatti (2013).

Col Manifesto, secondo Togliatti, il proletariato prende coscienza di se stesso, si dota di un programma di azione e di critica teorica alle altre correnti del socialismo (cristiano, aristocratico, borghese …). Togliatti considerava attuali tali critiche. Un'altro segno della vitalità del Manifesto consiste nella lunghissima sopravvivenza del marxismo, fatto raro tra le dottrine sociali, che ha permesso di comprendere lo sviluppo capitalista, la sua estensione all'intero globo, lo scoppio di ben due guerre mondiali.

Togliatti dedica però alcune riflessioni anche ad elementi di inattualità del Manifesto: il Migliore mette in guarda dal pensare che ogni possibile sviluppo storico possa essere già previsto dalla teoria e dall'idea che la rivoluzione sia in qualche modo imminente: la sua carica rivoluzionaria si spiega con il contesto storico del '48, mentre Marx ed Engels sono normalmente più prudenti. Si legge qui tra le righe la convinzione togliattiana che la “guerra di movimento” tra le classi e tra i rispettivi partiti si sia trasformata, in campo NATO, in “guerra di posizione” - cfr. Togliatti (2014). Inoltre, secondo Togliatti il Manifesto è incompleto: è Lenin con la dottrina dell'imperialismo e del partito rivoluzionario a integrare la teoria.

Il bilancio di Togliatti è comunque positivo: negli anni, l'accesso al potere delle classi subalterne si è allargato e così pure il fronte contrario alla borghesia; l'imperialismo ha perduto il proprio prestigio. Togliatti si sentiva parte di un movimento storico vincente nonostante il disastro della seconda guerra mondiale e le condizioni estremamente difficili in cui versavano le masse dell'epoca. Il Manifesto serviva allora a rinsaldare l'ottimismo del popolo, la fiducia in un avvenire di progresso.

 

La prefazione di Zangheri

Il lettore ci perdoni se effettuiamo un salto di altri 40 anni. Non è nostra intenzione tacere il dibattito marxista degli anni '60 e '70. In parte ce ne occupiamo leggendo le prefazioni del Manifesto degli anni '90. Se andiamo direttamente allo scritto di Zangheri è per il contrasto abissale rispetto al quadro dipinto da Togliatti. La prefazione di Renato Zangheri esce per l'edizione Editori Riuniti del 1983. E' stato in seguito ristampato nel 2001, l'edizione che abbiamo potuto consultare12.

Si tratta di un testo poco interessante dal punto di vista della ricostruzione della cornice storica della cornice del Manifesto, per la quale Zangheri si affida svogliatamente al Labriola – ovvero ad una fonte vicina agli eventi, ma arretrata dal punto di vista dell'analisi storiografica. Nel complesso si tratta di una prefazione paradossale, perché dichiara la totale inattualità del volume che introduce. Zangheri presenta Marx come profeta, un tratto in comune con l'interpretazione politica della destra. Zangheri fa propria una genealogia liberale, per cui Marx è padre di rivoluzioni violente e di Stati totalitari. Se il socialismo dell'URSS è un binario morto, perfino i socialismi democratici si trovano per Zangheri a una battuta d'arresto. Per questi motivi, interrogarsi sull'attualità del socialismo di Marx è del tutto inutile. E' vero, scrive Zangheri, che esiste un altro Marx da far valere accanto a quello rivoluzionario: un Marx che lotta per il suffragio universale e per la democrazia. Tuttavia, neppure in quanto padre della socialdemocrazia del Novecento Marx può essere recuperato: infatti, che sia condotta con mezzi pacifici o violenti, è l'impianto stesso della lotta di classe a fare problema, e a portare a vicoli ciechi ed ai ripensamenti. La prefazione di Zangheri è un'apologia dell'homo laicus liberale, che abbandona le fedi religiose e politiche ed adotta un impianto interclassista. Zangheri accetta pienamente il capitalismo come tecnica di governo, e rappresenta un sentire comune della sinistra dell'epoca: quella del liberismo vincente di Reagan e della Tatcher, quando tassi di crescita costanti sembravano garantiti anche se minimi. Ecco che a entrare in crisi in Occidente è la socialdemocrazia stessa, la sua forma di Stato basata sull'intervento in economia, sul debito pubblico e sulla redistribuzione del reddito attraverso i servizi pubblici, e perfino i riferimenti culturali classici dei socialdemocratici. Nell'89 la fine spettacolare dell'URSS distrae dalla devastante crisi dei modelli di riferimento, dell'impianto ideologico e programmatico delle socialdemocrazie mondiali. Nello stesso anno infatti l'SPD adotta il Berliner programm, così detto “post-materialista”, in cui fa propri valori di libertà individuale accanto alle tematiche dei movimenti ambientalisti degli anni '80.


Il 1998

L'anno 1998 è il 150o anniversario dalla pubblicazione del Manifesto. L'anniversario sembra cadere nel periodo di massima debolezza del movimento operaio, così come il centenario aveva segnato quello di massima forza. Così, in un articolo commemorativo, Rossana Rossanda (1998) si chiede «perché centocinquant'anni dopo, la classe spossessata, e tuttavia arricchita da innovatrici esperienze di lotta in occidente, e in presenza di una rete prima sconosciuta dei mezzi di comunicazione, non si associ, non si organizzi, non si pensi unita e come soggetto transnazionale capace di unificarsi». Ne nasce un dibattito, raccolto in Rossanda (2000), che ha veduto tra i suoi protagonisti alcuni tra i principali interpreti del marxismo di fine secolo. Purtroppo, non possiamo entrare nel merito per non allontanarci dal nostro tema. Ad ogni modo, a dieci anni dalla caduta del muro di Berlino si moltiplicano pubblicazioni e prefazioni. Ne prendiamo in considerazione quattro, a partire da un'edizione molto insolita: quella della Silvio Berlusconi Communication, tradotta da Lucio Caracciolo, con prefazione di Lucio Colletti.

 

Lucio Colletti

Filosofo di formazione marxista, Colletti in seguito aderì al PSI e abbandonò il marxismo stesso per divenire, infine, divenne ideologo di Forza Italia. In un primo tempo, negli anni '60, si schierò insieme a coloro che cercavano di far valere un Marx scienziato ed economista contro un Marx profeta e filosofo. Per quanto oggi possa apparire una discussione futile e perfino paradossale, in realtà la sua portata era internazionale, segno dell'egemonia culturale del marxismo nel suo complesso: ad esempio, in Francia, filosofi strutturalisti come Althusser cercarono di sbarazzare Marx delle proprie radici hegeliane, nel tentativo di autoaffermazione di una nuova generazione di intellettuali in un'accademia ancora molto influenzata dalla filosofia di Sartre – Cfr. Dosse (1997)13. In Italia, invece, chi dava letture anti-hegeliane di Marx tendeva a riscoprirne le radici kantiane, a partire dall'insegnamento di Galvano Della Volpe, che di Colletti fu maestro14. In realtà già nel 1985 Colletti aveva pubblicato una prefazione del Manifesto per Laterza. Quando, nel 1998, la Silvio Berlusconi communication tenta una operazione di accaparramento rispetto ad un classico della letteratura politica di ogni tempo, affida il lavoro al suo ideologo di punta. Si tratta di una operazione di egemonia politica attraverso la quale la destra fornisce la propria interpretazione del pensiero marxiano, quel pensiero al quale i suoi avversari, gli inetti ed indegni epigoni del PCI, avevano, come si è visto, rinunciato. Nella sua prefazione, Colletti contrappone ancora il Marx scienziato al profeta. Lo scienziato ha previsto il fenomeno della globalizzazione: una tesi che ritorna in tutte le prefazioni del Manifesto del '98, di destra e di sinistra. E' il Marx ripreso da sociologi come Weber ed economisti liberali come Schumpeter e Keynes. D'altro canto il Marx profeta è quello hegeliano. Secondo Colletti, la radice del male consisterebbe ovviamente nella convinzione hegeliana che la storia abbia un proprio fine, e che tale traguardo finale non possa che consistere nella società di eguali, senza classi e senza proprietà privata. Il che, evidentemente, per la Silvio Berlusconi communication sarebbe stato un grave danno. Questo anti-Marx avrebbe dato origine a Lenin e all'Unione sovietica, una prospettiva fallimentare. Come vediamo, le argomentazioni di Colletti non sono troppo distanti da quelle di Zangheri; tuttavia, per lo meno, la destra riconosce un ruolo positivo al Marx scienziato ed economista, mentre la sinistra del periodo, ansiosa di accreditarsi nella City, ne rifiuta in toto l'eredità.


La prefazione di Sanguineti

Ancora nel 1998 Sanguineti pubblica una prefazione al Manifesto per un piccolo editore coraggioso di Roma, ovvero Meltemi15. La pubblicazione suscitò una polemica, perché venne “scomunicata” dall'Unità16 con la paradossale accusa di dogmatismo. Certo è strano che un Bruno Gravagnuolo qualsiasi si sia assunto il rischio di criticare la prefazione di un grande poeta come Sanguineti: la storia della letteratura finisce inevitabilmente per sbeffeggiare questo genere di pincopalli. In realtà è una prova del terribile sforzo dispiegato dal PDS nei dieci anni successivi alla caduta del muro di Berlino per sradicarsi da sé.

In primo luogo, Sanguineti critica violentemente il dibattito accademico sulla scientificità del Manifesto. Siamo alla fine degli anni Novanta, era appena scomparso Popper e i suoi orecchiabili slogan sulla scienza stavano conoscendo un revival. Le tesi del Manifesto venivano dunque suddivise in “falsificate” e “infalsificabili”. Alla luce del percorso compiuto fin qui, è interessante porsi una domanda: non è strano che alcune tesi del Manifesto siano state considerate “verificate” negli anni '50 e “falsificate” negli anni '90? Probabilmente qualcosa nel criterio della falsificabilità andrebbe riveduto, a partire dal fatto che Popper si propone di misurare la scienza politica col metro della fisica. Un concetto di scientificità molto lontano da quello che abbiamo apprezzato in Togliatti, per cui le teorie politiche sono valide in base alla loro capacità di trasformazione del reale.

Ad ogni modo, nota Sanguineti, in quel periodo la massima lode concessa dagli intellettuali al Manifesto riguardava la sua efficacia retorica, con lo scopo di venire citati nella quarta di copertina. Il riferimento polemico, qui, è ovviamente ad Umberto Eco (1998). Sanguineti nota come negli anni Novanta si affermi un'ideologia che nega la lotta di classe perché nega l'esistenza stessa del proletariato, il quale si sarebbe ormai felicemente proiettato nell'ideale borghese per scordare le proprie frustrazioni. Una tesi, quella della fine del proletariato, diffusa anche nella sinistra più radicale, in ambito post-operaista, e che infine sarà perfino fatta propria dal segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti, come vedremo.

Anche Sanguineti vaglia la tesi che vede il Marx scienziato contrapposto al Marx profeta. Ad accostare marxismo e religione non è solo, spregiativamente, Popper, ma anche un altro filosofo di riferimento della destra come Augusto Del Noce. Sanguineti riconosce una componente profetica e teologica nel materialismo e concorda con Benjamin nell'ascriverla alla radice ebraica del pensiero di Marx. Tuttavia – chiarisce – in Marx è il materialismo a servirsi della teologia per i propri scopi, non viceversa: l'obiettivo di Marx è fondare una teoria scientifica, non una pseudo-religione. La profezia azzeccata del Manifesto e la sua attualità consistono proprio nell'affermazione planetaria del capitalismo, nella globalizzazione, nel Weltmarkt. Con la globalizzazione, il disastro prodotto dalle contrapposizioni tra borghesie nazionali rischia di riproporsi a livello di interi continenti. Secondo Sanguineti, la sconfitta stessa del movimento dei lavoratori è in qualche modo già inscritta nella violenza trasformatrice del Capitalismo. Tuttavia ciò non comporta la fine delle forme del lavoro fordista; lungi dallo scomparire, esse vengono al contrario estese al lavoro intellettuale, dello scienziato, del direttore della cassa di risparmio e perfino del ministro e del cardinale. Qui leggiamo un riferimento polemico nei confronti delle profezie del post-operaismo nei primi anni '80 circa il lavoro intellettuale e la “liberazione” operata dal personal computer17.

Secondo Sanguineti quel che si rende davvero necessario è un nuovo “Che fare”. Dissolta la sinistra, ad occuparsi dei poveri rimane solo la Chiesa. Sanguineti nota come la sostituzione dell'opposizione ricchi/poveri a borghesia/proletariato non sia affatto neutrale: la seconda non allude all'organizzazione sociale, ma ad una sorta di sfortuna, frutto della modernità, e presuppone uno sguardo nostalgico al feudalesimo e alla teocrazia. La critica della Chiesa alla modernità è dunque reazionaria, non progressiva. Al contrario, nel Manifesto, lo sbarazzarsi dei valori del passato è sempre un fenomeno positivo. Parliamo ad esempio dei valori della famiglia tradizionale, che prevedono la sottomissione della donna; che portano al controllo sull'erotismo femminile e alla prostituzione; che in epoca moderna sono abbattuti da lotte sul divorzio, sull'aborto, sulla contraccezione18 . Se l'interesse di classe si nasconde dietro a valori obsoleti come l'amor di patria, chi vuole abolire le classi ha interesse a demistificare questi valori. Per questo la critica del Manifesto ad alcuni socialismi reazionari, che agitano la bisaccia del mendicante, è sempre di attualità.

Sanguineti rivendica anche di aver criticato per questi stessi motivi gli atteggiamenti di Pasolini. Ancora negli anni Novanta i progetti di ricostruzione di un Partito comunista si annacquavano e si diluivano in prospettive pauperiste, poetiche, che guardavano a un passato remoto incontaminato e lo trasformavano in proposta economica, come le teorie della decrescita. La forza del Manifesto è dunque fornire strumenti di critica al movimento operaio per resistere a mode, fascinazioni, teorie pseudoscientifiche19.


La prefazione di Hobsbawn

Il '98 è anche l'anno della prefazione di Hobsbawn, edita in Italia da Rizzoli. Si tratta di una ricostruzione scientificamente molto interessante della storia del Manifesto e del suo successo, e fin qui ce ne siamo serviti ampiamente. La seconda parte della sua introduzione è dedicata agli elementi che hanno reso presto inattuale il Manifesto: come si è detto, il fallimento delle rivoluzioni del '48 e il mutato contesto politico, l'evoluzione del dibattito socialista e i cambiamenti nel lessico della politica. Gioca un ruolo anche la maturazione delle idee di Marx e di Engels: nel '48 l'argomentazione non è ancora pienamente economica, ma di carattere storico. Ciò che colpisce dell'economia capitalista è la sua forza, il suo potenziale di sviluppo e di trasformazione sociale. Secondo Hobsbawn, gli effetti di lungo periodo di tali trasformazioni si ritrovano nella nostra modernità: se la distruzione della famiglia ad opera della borghesia descriveva bene gli anni '60, negli anni '90 i processi di globalizzazione planetaria stavano conoscendo un'accelerazione inedita, smentendo teorie altermondiste che in precedenza consideravano la divisione tra nord e sud del mondo il vero esito del capitalismo su un piano storico e geopolitico. In questo senso, anche se Hobsbawn non lo dichiara, la formazione degli stati socialisti sembra quasi una deviazione rispetto alla teoria standard marxiana: un curioso contrasto con la visione di Togliatti. Ma a dire il vero non vediamo qui contraddizioni logiche vere e proprie: là l'apparizione di una forma di stato socialista mostra la forza trasformatrice della teoria; qui il crollo di un sistema economico riporta la storia su binari noti e pericolosi. Hobsbawn si spinge anche oltre, portando argomenti per sostenere che Marx ed Engels non prevedevano affatto l'avvento di una società socialista e di una rivoluzione. La reale previsione riguarda semmai il peso storico crescente che il proletariato avrebbe esercitato nel corso del Novecento attraverso le sue organizzazioni politiche tanto rivoluzionarie quanto riformiste. L'argomento centrale di Marx è che il proletariato non avrebbe potuto liberare se stesso senza liberare anche il resto della società. Che poi ci riuscisse o meno, non era detto allora e non è detto ora : Marx si limitava ad auspicarlo. Tutt'altro che determinista in politica, il Manifesto suggerisce strategie, tattiche, prevede la possibilità di arretramenti e sconfitte. La prefazione di Hobsbawn si chiude con l'interrogativo su un futuro lontano dall'ottimismo dell'epoca di Togliatti e con l'alternativa tra socialismo e barbarie.


La prefazione di Losurdo

Nel 1999 è la volta dell'introduzione di Domenico Losurdo, per Laterza. Questa edizione mantiene elementi di attualità ed è ancora ristampata ai giorni nostri; è perfino sopravvissuta a prefazioni successive. Si tratta di uno scritto in sintonia con le ricerche di quest'autore che lo hanno portato, in seguito, alla Controstoria del liberalismo - Losurdo (2005): opera straordinaria che viene qui in parte anticipata. E' interessante come nell'età del liberalismo trionfante e indiscutibile Losurdo ritorni sull'opposizione tra comunisti e liberali per ribadirne le ragioni di fondo. Ripensarle sembrava indispensabile nei vent'anni precedenti la crisi del 2007, quando a sinistra gli elementi più radicali recuperavano piuttosto, con Toni Negri, il liberalismo delle origini e la guerra civile inglese: una mitologia politica le cui batterie dovrebbero essere, chissà perché, meno esauste delle rivoluzioni novecentesche20.

Losurdo mostra con citazioni dai classici del pensiero liberale, da Tocqueville a Stuart Mill a Constant, i tratti più crudi dello stato liberale, fondato su una ristrettissima base censitaria per cui qualche centinaio di migliaio di persone avevano il potere su masse di milioni di individui. Una stridente contraddizione, che i liberali risolvevano relegandola a sfere rigorosamente non politiche: individuale (incontinenza sessuale del proletariato) e sociale (contrattuale). Secondo Losurdo, Marx opera una rivoluzione epistemologica nel riconsegnare la contraddizione di classe alla sfera politica.

Il pensiero liberale contemporaneo sottolinea, con Isaiah Berlin, l'importanza della libertà negativa, ovvero della libertà individuale da ogni costrizione. Losurdo sostiene che questa dimensione è a tutti gli effetti presente in Marx sotto la forma di libertà dal dispotismo di fabbrica, contro i suoi critici di destra. In realtà, la libertà negativa di Berlin è solo libertà dell'individuo dallo Stato: perché ciò avvenga, l'individuo deve poter decidere nella propria sfera privata senza interferenze. Tale sfera dunque si estende all'insieme delle sue proprietà, ovvero alla fabbrica dove l'individuo instaura un ordine dispotico. Dunque è proprio la dimensione negativa della libertà a creare la gerarchia criticata da Marx. D'altro canto, i liberali imputano al pensiero di Marx l'assenza di questa dimensione (libertà dallo Stato). Tale assenza porterebbe allo Stato totalitario sovietico, o così almeno pensano costoro. In questo essi aderiscono completamente all'epistemologia pre-marxiana: sono teorie più arretrate come il liberalismo, il radicalismo, l'anarchismo, il socialismo utopistico, a identificare Stato e Potere; la rivoluzione di Marx consiste proprio nell'aver colto la dimensione sociale della lotta di classe21.

Cosa è attuale nel Manifesto, secondo Losurdo? Ancora una volta, la globalizzazione. Un processo che ai tempi di Marx era in realtà già in corso, dato che una prima globalizzazione in qualche modo si compie con la prima guerra mondiale – abbiamo ritrovato la stessa convinzione in Togliatti. Marx intuisce la forza del capitalismo come modello economico, in grado di travolgere altri modelli sociali (nelle colonie) imponendo ovunque la propria forma22. Marx ed Engels non avevano visto nei popoli colonizzati il potenziale rivoluzionario che al contrario Lenin seppe intuire. Invece, già Marx ed Engels denunciavano il pericoloso nesso tra globalizzazione e guerra, che oggi è di drammatica attualità.


La prefazione di Bertinotti

A rischio di terminare questa rassegna con un anticlimax, devo citare la prefazione di Fausto Bertinotti per le edizioni Alegre, 2005. Letta oggi, l'interpretazione dell'allora segretario di Rifondazione comunista risulta profondamente inattuale: solo dieci anni ci separano da quel periodo, e tuttavia la crisi economica appare come uno spartiacque che pone fine al trentennio aperto dalle politiche neoliberiste di Reagan e della Tatcher. La prefazione di Bertinotti si colloca dopo la stagione dei movimenti contro il G8, alla vigilia del secondo governo Prodi, che avrebbe segnato la fine di Rifondazione comunista e del resto della “sinistra alternativa” dal punto di vista dell'efficacia politica.

Nel 2005 Bertinotti si rammaricava di come il pensiero di Marx non fosse più di moda, a paragone della reputazione di cui godeva presso gli intellettuali francesi e statunitensi. In Italia una destra e una sinistra retriva lo consideravano entrambe superato. A dire il vero, neppure i giovani altermondisti e pacifisti dell'epoca lo leggevano; tuttavia, con il consueto gusto del paradosso, Bertinotti dichiara che quei giovani avevano cominciato a riscrivere i classici del marxismo e li proclama eredi del movimento operaio del Novecento. Certamente all'epoca questa fascinosa tesi poteva perfino suonare convincente, visto che quei movimenti apparivano vitali ed agguerriti. Come la storia seguente avrebbe presto dimostrato, si trattava di un errore di valutazione.

Secondo Bertinotti, l'attualità del pensiero di Marx consiste nella critica dell'economia politica, della quale costituisce il momento più alto; in questo modo Bertinotti cancella d'un tratto tutto il pensiero marxista successivo. Ad ogni modo, senza il prezioso strumento critico fornito da Marx non è possibile conciliare sviluppo economico, preservazione dell'ambiente, assenza di guerre e terrorismo: il Manifesto presenterebbe la teoria nella sua versione più radicale. Questo giudizio è mutuato da Franco Rodano: Bertinotti strizza l'occhio ai cattolici di sinistra, al mondo delle marce per la pace di Assisi e delle manifestazioni no-global. Tuttavia, è opportuno precisare che Bertinotti circoscrive la forza del Manifesto al genere della propaganda: il Marx teorico si esprime altrove. Nonostante questo limite, il Manifesto è un'opera che ha cambiato il modo in cui l'uomo guarda a se stesso, insieme alla Lettera ai Romani di San Paolo, al Contratto sociale di Rousseau, e all'Origine della specie di Darwin. In proposito, Bertinotti compendia alcune tesi che abbiamo già incontrato sulla presa di consapevolezza del proletariato che si fa soggetto della storia.

Bertinotti entra poi in un dibattito che in effetti animava la sinistra di quegli anni e si rifletteva anche nel suo partito. Una posizione, che abbiamo già reperito in Sanguineti, sosteneva che il proletariato fosse vivo e vegeto e che la tesi della fine del lavoro in seguito alla terziarizzazione fosse ideologica e infondata23. Per convincersene, bastava uscire dal piccolo perimetro dell'Occidente post-industriale, e guardare al mondo, alle sue periferie, ad economie come quella indiana, cinese, latino-americana, economie che già in quel periodo discutevano l'egemonia occidentale sul pianeta. Contro questa tesi Bertinotti fa valere i Grundrisse di Marx. In questo modo strizza l'occhio all'altra anima di Genova, che vedeva in Impero di Negri e Hardt il proprio riferimento ideologico24. Ad ogni modo, secondo Bertinotti, se la forma di produzione della fabbrica si estende alla totalità del corpo sociale, a maggior ragione la figura dell'operaio perde di centralità rispetto al precario, al lavoratore flessibile, al disoccupato. La classe operaia si presenterebbe allora frammentata e non più accomunata dai metodi tayloristi. Una conclusione che sembra un non-sequitur: al contrario, il taylorismo si estende grazie a nuove tecnologie che permettono l'intensificarsi del ritmo di lavoro e della sua produttività – Head (2014); si tratta di un controllo pervasivo che entra perfino tra le mura domestiche abolendo le differenze tra spazio di lavoro e spazio privato. Come è possibile che Bertinotti e altri con lui abbiano compiuto tale errore e che non abbiano visto ciò che si stava compiendo sotto i loro occhi? Il punto è l'incapacità di cogliere gli elementi strutturali che accomunano lo sfruttamento della forza-lavoro, soffermandosi sulla sua varia fenomenologia, sul colore della tuta.

Come i suoi illustri predecessori, anche Bertinotti trova attuale il Marx profeta della globalizzazione, ammirato dalla forza del capitalismo di imporre le sue forme ovunque sul pianeta. Tuttavia, secondo Bertinotti, quella forza non si è manifestata in maniera lineare nella storia, dato che l'imperialismo ha creato un nord ed un sud del mondo: una tesi altermondista che, come si è visto, già Hobsbawn trovava superata. In realtà Bertinotti prende le distanze dall'idea marxiana che lo sviluppo capitalista costituisca in qualche modo un progresso rispetto alle forme sociali precedenti – pensiamo al feudalesimo. Secondo Bertinotti, progresso e sviluppo non coincidono più nella nostra contemporaneità, portando solo alla distruzione dell'ambiente, alla guerra, alla catastrofe. Aver creduto in una nozione lineare di progresso costituisce il peccato della terza internazionale, scientista e positivista. Come abbiamo visto le cose in realtà non stanno precisamente in questi termini: con Lenin e Gramsci i comunisti portano nuova linfa al marxismo rivalutando il ruolo della dialettica nella storia, contro le visioni positiviste della seconda internazionale. Ma a Bertinotti non interessa una filologia del marxismo, quanto piuttosto interrompere una tradizione per rincorrere mode più recenti: espiantare Marx dal marxismo, in particolare quello di matrice leniniana e gramsciana. Il socialismo può nascere solo se trova un altro modello di sviluppo, di economia e di relazione tra persone, sessi, popoli. Secondo Bertinotti, la sinistra antagonista ha dunque di fronte l'obiettivo della ricomposizione di classe e della costruzione di un “nuovo soggetto” in grado di costruire una alternativa anticapitalista e antiliberista. Bertinotti è il mitografo di un marxismo eterodosso che diverrà una ossessione nei suoi epigoni, ma che porta inevitabilmente ad una pratica del tutto inefficace e priva di radici nella propria contemporaneità.


Qualche conclusione

Come abbiamo visto, il Manifesto è stato letto in diversi modi in corrispondenza a periodi storici differenti: nella prima fase dei movimenti socialisti spingeva le masse all'azione; in seguito, servì come strumento di lotta su un piano teorico. Al loro primo affacciarsi sulla storia i movimenti politici se ne appropriano, alla ricerca di radici: più sono nuovi, più hanno bisogno di inventarsi una tradizione allo scopo di legittimarsi. Vale per gli anarchici, per i socialisti, per i comunisti e per la sinistra altermondista di Genova e di Porto Alegre.

Il confronto con il Manifesto ha anche una seconda funzione, quella di trarre un bilancio del movimento dei lavoratori: così in Labriola, a mezzo secolo dal '48; così nel secondo dopoguerra, quando la sua forza travolgente sembra inarrestabile, perché esistono forme di stato socialiste vincenti; così infine nel 150mo anniversario, laddove occorre fare i conti con la sconfitta e con il reflusso e cercare alternative. A seconda della fase, l'attualità del Manifesto consiste nell'aver descritto la forza trasformatrice del socialismo, in grado issare il proletariato a soggetto del fare storia; oppure del capitalismo, in grado di travolgere il socialismo stesso e, data la portata globale della trasformazione e i rischi di guerra ad essa connessi, di pregiudicare perfino l'esistenza della vita sulla Terra. Come abbiamo visto, l'eredità di Marx interessa anche i nemici del marxismo, a sinistra come a destra. Gli oppositori di sinistra ne dichiarano più o meno apertamente l'inattualità e ne apprezzano il valore retorico; la destra tende al contrario a rivalutare il Marx economista: un processo ancora in atto, dato che dopo la crisi si sono moltiplicate le letture liberali del Capitale.

Inoltre, possiamo contare almeno quattro fasi nell'attualizzazione del pensiero marxiano. In origine consisteva nell'aver predetto e favorito dal punto di vista teorico la nascita di movimenti socialisti. In una seconda fase, i movimenti si erano fatti “Stato”. La terza fase è invece quella della crisi di movimenti e stati: Marx diviene allora profeta della globalizzazione.

Vi è poi una quarta fase, non presente nel nostro corpus, sul quale vorrei spendere qualche parola conclusiva: Marx è infatti il teorico della crisi economica. E' incredibile il fatto che ancora nel 2005, alle soglie della più devastante crisi economica capitalista che si sia veduta, questa parola fosse del tutto assente dalle considerazioni sul Manifesto. E' vero che l'analisi di Marx ed Engels è ancora acerba, ma il tema è descritto in termini apocalittici:

Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta una grande parte non solo dei prodotti ma persino delle forze produttive già costituite. Nelle crisi scoppia un'epidemia sociale che in tutte le altre epoche sarebbe stata considerata un controsenso: l'epidemia della sovrapproduzione. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra di annientamento totale sembrano sottrarle ogni mezzo di sussistenza; l'industria, il commercio appaiono distrutti, e perché? Perché la società ha incorporato troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui essa dispone non servono più allo sviluppo della civiltà borghese e dei rapporti borghesi di proprietà; al contrario, esse sono diventate troppo potenti per quei rapporti, ne sono frenate, e non appena superano questo ostacolo gettano nel caos l'intera società borghese, mettono in pericolo l'esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per contenere la ricchezza che essi stessi hanno prodotto. Come supera le crisi la borghesia? Da una parte con l'annientamento coatto di una massa di forze produttive; dall'altra conquistando nuovi mercati e sfruttando più a fondo quelli vecchi. In che modo, insomma? Provocando crisi più generalizzate e più violente e riducendo i mezzi necessari a prevenirle.

L'assenza della crisi è a nostro modo di vedere indicativa del trionfo dell'egemonia cultuale liberista negli ultimi quarant'anni. Il liberismo ha garantito prospettive di crescita e un modello che pare inarrestabile perfino ai suoi più fieri avversari. Le ragioni per criticarlo divengono esplicitamente di natura etica ed escatologica: si tratta di un modello che produce miseria, fame, sfruttamento e che porta il pianeta sull'orlo della catastrofe. Non che non sia vero, ma queste critiche non colgono più il nocciolo del funzionamento del sistema che è il vero punto di forza dell'argomentazione marxiana: la storia di ogni società finora esistita è storia di lotte di classi. Hobsbawn aveva forse intuito che il crollo degli stati socialisti aveva riportato la storia alle sue regole ottocentesche. Così, il riacutizzarsi dell'offensiva liberista ed il tentativo di riassoggettare la classe operaia riporta l'economia ad uno stato molto simile a quello descritto da Marx, e rende nuovamente possibili devastanti crisi cicliche, a partire dal crollo della borsa del lunedì nero del 1987, che secondo alcuni fu causato proprio dal debutto di quelle tecnologie informatiche che costituiscono le autostrade della globalizzazione finanziaria. Crisi ulteriori si sono avute con il caso Enron e con l'esplosione della bolla speculativa legata ad Internet, cui Bush jr. ha risposto aumentando la spesa militare, dichiarando guerra all'Iraq e finanziando a pioggia ogni genere di impresa privata americana impegnata nella ricostruzione. Bush pose fine ad un periodo di laissez-faire e inaugurò un tentativo di rispondere alla crisi ampliando la spesa dello Stato in termini rigorosamente militari. In seguito le crisi si son fatte sempre più frequenti fino all'attuale recessione continua, di lungo periodo e senza orizzonti. Forse ci troviamo in quel che l'economista sovietico Kondratiev (1935) chiamava l'autunno di un'onda lunga. E se pensiamo ai possibili esiti in occidente del rallentamento cinese, a quanto pare l'inverno si approssima. E dunque, cosa possiamo fare, se non lavorare di nuovo ad una prospettiva comunista? Ancora una volta, non abbiamo da perdere che le nostre catene. E abbiamo un mondo da guadagnare.

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Note
1 Per la parte che segue si veda Hobsbawn (1998).
2 Cfr. Caracciolo (1998, n. 13).
3 Cfr. Hobsbawn (1998, n. 11).
4 Cfr. Steinberg (1976).
5 Cfr. Vranicki (1971).
6 Si vedano le testimonianze dirette – Togliatti (2013). Cerroni, nella sua introduzione del 1973 a Labriola (1902) mette tuttavia in guardia dalle strumentalizzazioni che vorrebbero vedere in Labriola la radice di un marxismo italiano differente, di matrice idealista e riformista negli esiti.
7 Ci riferiamo ovviamente a Goethe (1790). L'influsso di Goethe, Schiller, Lessing, Herder, Klopstock sulla formazione di Labriola è ricordato in Giazzi (2016).
8 Il numero era titolato Il 1848. Raccolta di saggi e testimonianze e conteneva tra gli altri i saggi di F. Cagnetta, “Le traduzioni italiane del Manifesto del Partito comunista” e E.Cantimori Mezzomonti, “Origine del Manifesto”.
9 Noi abbiamo consultato l'edizione 1973 a cura di Gerardo Chiaramonte, in cui il testo togliattiano è purtroppo riportato in maniera incompleta.
10 Ricordiamo che nel 1945 il PSI pubblica la versione 1848 del Manifesto; nello stesso anno una edizione del Manifesto è distribuita da l'Unità.
11 Sarebbe bene chiedersi chi sia oggi, in epoca di crisi dei partiti, il moderno principe.
12 Poiché nel frattempo si era verificata la caduta del muro di Berlino e la scomparsa del PCI, è lecito sospettare che Zangheri abbia accentuato in questa nuova versione i suoi giudizi circa l'inattualità del marxismo.
13 Per completezza dovremmo ricordare il pensiero della differenza, anti-dialettico, rappresentato da autori come Deleuze, e la sua convergenza con l'anti-hegelismo espresso dall'operaismo italiano in una figura emblematica come Antonio Negri. E' difficile far rientrare queste posizioni nell'alveo del marxismo, sia pure eterodosso.
14 Le continuità tra Kant, Hegel e Marx sono state indagate più di recente da Burgio (2000), secondo il quale i tre condividono l'idea di una storia come progresso ed effetto dello sviluppo di forze immanenti.
15 Il lettore perdonerà una nota biografica: Meltemi fu il mio primo editore. Luisa Capelli non aveva timore nel proporre esordienti assoluti. Lavorava insieme all'autore su ogni volume. Una figura molto lontana dal consumismo imperante sull'odierno mercato librario, che soffoca sul nascere ogni ricambio culturale.
16 “L'Unità scomunica il Marx di Sanguineti”, 20 ottobre 1998.
17 Ricordiamo come questo tipo di posizioni abbiano portato chi le sosteneva a vedere nel precario il nuovo soggetto rivoluzionario che avrebbe sostituito la figura dell'operaio, trascurandone la vulnerabilità, la ricattabilità e la parcellizzazione delle lotte nel nome di una sorta di pauperismo i cui toni esagitati ricordavano quelli dei predicatori medioevali.
18 Oggi potremmo aggiungere alla lista le lotte sulla fecondazione eterologa, sul riconoscimento delle coppie omosessuali, sull'adozione del figlio del coniuge da parte del partner.
19 Vedi le critiche alla teoria della decrescita mosse da Pellerey (2015: 1245-197).
20 Apologia di un mito pericoloso, che ne ignora il fondamento razzista: sulla comparsa della guerra tra le razze come fondamento del discorso sulla sovranità
nel XVII secolo e in partic. nell'Inghilterra dei Levellers si veda Foucault (1997) pp. 46-59.
21 Ovvero, diremmo con Labriola, la sua dimensione morfologica: la lotta di classe è la forma stessa della società.
22 Ci concediamo una analogia: il capitalismo ricorda la malattia dei prioni, che al contatto con molecole sane le forzano ad assumere la propria geometria spaziale, e in questo modo si replicano.
23 Per essere onesti, chi scrive all'epoca sosteneva proprio questa tesi.
24 Mi soffermo su questo punto perché disgraziatamente queste tesi sono ancora diffuse tra la sinistra radicale; le forniscono una base ideologica che spesso è usata per distinguersi identitariamente dal comunismo novecentesco; in realtà in passato tale presa di distanza fintamente radicale ha coperto l'interesse materiale a compromessi improbabili con forze politiche moderate.

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Riferimenti bibliografici
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