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la citta futura

La teoria marxiana del valore

di Ascanio Bernardeschi

Primo di una serie di articoli sulla teoria marxiana del valore. Il compito della scienza è di svelare la differenza fra l'apparenza dei fenomeni e l'essenza delle cose. Anche la legge del valore ha questo fine. Le differenze tra Marx e gli economisti classici per quanto riguarda il metodo e gli scopi dell'economia politica. Alcuni concetti basilari per permettere ai “non addetti” di seguire il successivo svolgimento riguardante alcuni nodi più dibattuti della teoria marxiana. Le categorie economiche, trattate dagli economisti che vanno per la maggiore come oggetti naturali, non sono altro che rapporti sociali camuffati

I. A cosa serve?

4d579989f459a06bb4be6c39e1df5046 LNel libro III del Capitale, confutando l'apparente obiettività della “formula trinitaria” – secondo la quale il valore delle merci sarebbe originato dalla somma della retribuzione dei cosiddetti fattori produttivi (profitti, salari e rendite), mentre è vero l'esatto contrario, cioè che sono queste ultime voci di reddito che reperiscono la propria fonte nel valore delle merci, in quanto quest'ultimo viene tra di esse distribuito successivamente alla propria realizzazione – Marx ebbe ad affermare che “ogni scienza sarebbe superflua, se la forma fenomenica e l’essenza delle cose coincidessero immediatamente [1].

Infatti i fenomeni che percepiamo sono spesso delle manifestazioni di leggi che sfuggono ai sensi e che solo la scienza può svelare, mentre possiamo cadere in errore se confondiamo queste manifestazioni con l'essenza, cioè con i meccanismi che ci stanno dietro. Anche l'osservazione empirica non accompagnata da una robusto impianto teorico, per esempio l'accertamento statisticamente oggettivo della correlazione tra due fenomeni, può trarre in inganno in quanto può condurre a stimare in maniera invertita il rapporto causa-effetto tra le due grandezze.

Forse è utile fare un esempio. Secondo l'esperienza dei nostri sensi, tutti i corpi hanno un peso che si avverte in quanto su di essi agisce una forza, tanto maggiore quanto maggiore è il loro peso, che li attrae verso il suolo.

Sono stati quindi realizzati degli strumenti, le bilance, per rilevare il peso misurando tale forza o paragonandola a una uguale esercitata su un corpo utilizzato come unità di misura. Il peso in realtà è la manifestazione fenomenica di un'altra proprietà dei corpi, quella di avere una massa. Quest'ultima può essere considerata la misura dell’inerzia di un corpo (della resistenza che esso oppone alle sollecitazioni di una forza esterna). Una volta rilevato il peso è possibile calcolare la massa usando la costante gravitazionale, il cui valore dipende dalla forza di gravità (o più correttamente dall'accelerazione di gravità) del nostro pianeta. Un corpo che sulla Terra pesa 10 kg, pur mantenendo intatta la propria massa anche se trasportato sulla Luna, peserebbe assai meno su quel satellite, ove l'accelerazione di gravità è minore. Quindi, pur essendo fortemente interrelati fra di loro, peso e massa sono due concetti distinti.

Fortunatamente, se per la conoscenza scientifica è assolutamente necessario conoscere la massa e come si manifesta, per molte finalità pratiche, è sufficiente e più semplice rilevare il solo peso dei corpi. Per esempio se vado ad acquistare cavoli dal fruttivendolo, basterà una bilancia per attestare la quantità di materia che sto acquistando.

Una volta acquistati tali ortaggi, in base al loro peso, il fruttivendolo mi chiederà una certa quantità di denaro in quanto quella merce ha un prezzo espresso per unità di peso, per esempio 2 euro al chilo. Analogamente, ai fini pratici, è sufficiente conoscere la quantità di denaro richiesta per ogni chilo di cavolo, senza porsi troppe domande. Ma per lo scienziato sociale sarebbe una grave leggerezza limitarsi a prendere atto dell'esistenza dei prezzi che possiamo facilmente rilevare. Le merci si scambiano fra di loro, o più comunemente col denaro, secondo certe proporzioni, perché hanno una proprietà comune detta valore. Ancora oggi lo pseudo economista tipo, che va per la maggiore nelle nostre università, sostiene l'inutilità di esplorare la natura del valore delle merci e si limita a trattare la sua manifestazione, evidente anche allo stupido, cioè il prezzo che viene loro appiccicato a mo' di etichetta e tutt'al più osservare la banale evidenza che tale prezzo è determinato dall'incrocio fra domanda e offerta di quella merce. Questo atteggiamento è un male per la scienza, ma una fortuna per lorsignori perché in tal modo non possono essere svelate la natura dello sfruttamento del lavoro, e molte contraddizioni del modo di produzione capitalistico.

Al contrario degli economisti da lui denominati “volgari”, Marx era interessato a svelare le leggi di movimento di tale sistema per offrire alle classi lavoratrici un'arma micidiale utilizzabile nella loro lotta contro il capitale e dovette misurarsi col problema del valore.

Non fu certamente il primo a introdurre tale concetto. Le sue immense letture nella biblioteca del British Museum di Londra gli permisero di fare i conti con gli economisti classici, ben più seri degli attuali venditori di pentole, e di appropriarsi della loro teoria del valore, modificandola però profondamente e superandone alcune lacune.

Sì, perché se è giusto dare a Cesare quel che è di Cesare e agli economisti classici il merito di aver svelato per primi che il valore di una data merce è commisurato al lavoro umano impiegato per produrla, troppi economisti, perfino sedicenti Marxisti, confondono facilmente questa regola, puramente quantitativa, con la profonda analisi di Marx, che parte da presupposti completamente diversi e utilizza metodi di indagine altrettanto diversi.

I più importanti esponenti della scuola classica, Adam Smith e David Ricardo, operarono nel periodo in cui il capitalismo stava diventando il modo di produzione prevalente nelle società economicamente più floride e stava indubbiamente dando un impulso senza precedenti alla ricchezza materiale, come lo stesso Marx ha sempre affermato. Il loro compito era di dare alle istituzioni dell'epoca le indicazioni per permettere l'espansione di questo modo di produzione e abbattere i residui feudali che con esso convivevano. Ma, abbagliati dall'ammirazione di questa funzione progressista, confusero i rapporti sociali storicamente determinati di quel periodo con il modo “naturale”, eterno, di comportarsi delle società, sottovalutandone le specifiche contraddizioni. Non a caso Ricardo denominò il valore anche “prezzo naturale” [2].

Per Marx invece il modo capitalistico di produzione è diventato prevalente nelle nostre società evolute in una certa fase della storia. C'è stato un prima e ci sarà un dopo e occorre distinguere tra le leggi economiche universali, valide per tutte le epoche storiche e le distinte forme con cui esse si manifestano nelle diverse fasi dello sviluppo umano.

Per esempio lo sfruttamento del lavoro è avvenuto secondo certi metodi violenti nelle società in cui lo schiavo era un semplice oggetto di proprietà del padrone, in altri modi ancora nelle società feudali, in cui, pur non esistendo questa proprietà assoluta sui lavoratori, esistevano fortissimi vincoli sociali che obbligavano per esempio il contadino a lavorare alcune ore del giorno nella terra del signore (corvée) o a versare la decima al prete, oppure l'artigiano a essere sottoposto alle regole delle corporazioni. Infine, con il capitalismo, il lavoratore è liberato anche da questi vincoli ma, dice Marx, liberato anche dal possesso dei mezzi di produzione, per cui è costretto a lavorare come salariato per poter campare. In questo caso lo sfruttamento non è rilevabile immediatamente, perché l'apparenza è quella di uno scambio mercantile di uguali: un tot di lavoro per un tot di salario. E anche le decisioni su cosa, come e quanto produrre, quindi su come il lavoro sociale viene ripartito fra le varie branche produttive, non sono il risultato di decisioni consapevoli di un'autorità ma di un meccanismo impersonale, le leggi del mercato, che predomina nell'orientamento dell'economia.

Per Marx la teoria del valore è uno strumento fondamentale, per svelare queste leggi. Essa mostra che dietro l'apparenza di rapporti tra cose, tra le merci, si nascondono rapporti sociali e che il dominatore di questo modo di produzione, il capitale, riproducendosi ed espandendosi materialmente, riproduce anche questi rapporti. Il lettore che avrà la pazienza di seguirci nei prossimi numeri avrà in premio uno strumento di analisi che, se ben utilizzato, gli consentirà di capire molte faccende di oggi, quali la globalizzazione, i dissesti finanziari, le politiche liberiste, la frammentazione del mondo del lavoro, la crisi. Faccende che sembrano un mistero se ci si limita a osservarle alla superficie, come ci invitano a fare quotidianamente i media e anche gli economisti da strapazzo.

 

II. Merce, denaro, lavoro

Merce, valore d'uso, valore di scambio, valore

"La ricchezza delle società, nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico, si presenta come una immane raccolta di merci e la singola merce si presenta come sua forma elementare" [3].

Così Marx, partendo dall'analisi della “cellula elementare” del capitalismo, la merce, inizia la sua critica dell'economia nella sua opera più importante.

La merce ha una duplice caratteristica, la prima legata alle sue proprietà naturali, quella di essere utile, di soddisfare bisogni umani, prescindendo dal suo costo sociale e in questa veste è un valore d'uso, in ciò non differenziandosi dai beni prodotti in tutte le civiltà fin qui esistite. L'altra caratteristica è che possiede un valore di scambio, ha cioè la proprietà di poter essere scambiata, secondo determinati rapporti, con altre merci, e tipicamente con la merce equivalente generale di tutti gli scambi, il denaro. Da questo punto di vista contano solo i rapporti quantitativi che si instaurano con le altre merci e con il denaro, prescindendo questa volta dalla sua attitudine a soddisfare i bisogni. Questa caratteristica sorge con le società mercantili, nelle quali i beni prodotti acquistano la determinazione storica di merce.

Tutte le merci si scambiano con le altre secondo certi rapporti quantitativi, secondo il loro valore di scambio. Quest'ultimo è il modo di espressione, la forma fenomenica, di un contenuto da esso distinguibile, cioè il valore. Parliamo quindi di valore di scambio quando mettiamo in relazione tra di loro più merci, mentre ogni merce possiede una caratteristica immanente che si manifesta esteriormente nel valore di scambio, che è comune a tutte le merci: quella di essere prodotto di una determinata quantità dl lavoro, di contenere un quantum di lavoro sociale e in quanto tale di essere depositaria di valore.

 

Lavoro concreto e lavoro astratto

Analogamente alla merce, il lavoro viene analizzato secondo la sua duplice caratteristica. Da una parte possiede specifiche qualità e utilità ed è volto a produrre un determinato valore d'uso. In tal veste è lavoro concreto, per esempio lavoro metalmeccanico, tessile ecc. Anche il lavoro utile, concreto, è esistito in tutte le società umane. Dall'altra è lavoro umano senza determinazioni specifiche e viene considerato solo quantitativamente quale fonte del valore, per Marx UNICA fonte del valore. Per questa sua seconda caratteristica è lavoro astratto, che si impone nelle società in cui è sviluppata la produzione di merci, e particolarmente ove si è imposto il modo di produzione capitalistico. L'astrazione del lavoro si realizza perché in tale modo di produzione gli individui non agiscono secondo piani e obiettivi prestabiliti o secondo esigenze sociali immediate, ma come atomi separati e indifferenti tra di loro e trovano la ratifica sociale dei loro sforzi lavorativi solo attraverso lo scambio.

Il valore di una merce è dato quindi dalla quantità di lavoro astratto necessario alla sua produzione. Visto che il valore non è una caratteristica naturale delle merci, ma un rapporto sociale, entra nella sua grandezza solo il tempo di lavoro astratto socialmente necessario, in base alla produttività sociale media, in condizioni tecniche prevalenti in un certo periodo storico e secondo il grado sociale medio di abilità del lavoratore e di intensità del lavoro. Nel caso che per produrre una data merce venga speso più lavoro di quello socialmente necessario, tale lavoro superfluo è lavoro sprecato, irriconoscibile per la società, e infatti non potrà trovare conferma come valore sul mercato.

I prodotti del lavoro raggiungono un riconoscimento sociale solo attraverso lo scambio: una merce invenduta non conta come valore. La socialità del lavoro – e quindi il valore – esiste solo in forma latente appena sfornato il prodotto. È un valore in potenza che si manifesta solo con la vendita.

 

Denaro

Se la quantità di lavoro, espressa in termini di tempo di lavoro, è la misura “immanente” del valore, la sua misura esteriore, fenomenica, è data dalla quantità dell'altra merce con cui si scambia, e segnatamente da una quantità di denaro. Il denaro è una merce speciale che funge da rappresentante generale della ricchezza e del lavoro astratto. Costituisce la “misura fenomenica necessaria” della “misura immanente” del valore e per di più si presenta come la forma più appropriata del valore, comportandosi come suo agente “equivalente generale e astratto”, che si contrappone a tutte le altre merci. Queste ultime di fronte a lui funzionano come suo valore d'uso. Infatti il denaro in sé non ha un valore d'uso, se non la proprietà di poter essere scambiato con qualsiasi altra merce, di poter acquistare sul mercato beni e servizi. Realizza quindi il suo valore d'uso solo attraverso l'acquisto di un'altra merce. Specularmente, il valore di una merce, si realizza quando assume la sua forma fenomenica in un altro corpo di merce, nel denaro con cui si scambia.

Il lavoro astratto deve oggettivarsi quindi in una merce indifferente alle proprietà naturali e avente la qualità sociale di essere scambiabile con qualsiasi altra, purché rappresenti il medesimo tempo di lavoro socialmente necessario. Le singole merci sono però immediatamente oggettivazione di lavoro individuale, determinato qualitativamente e concreto. La contraddizione tra lavoro astratto e lavoro concreto, la contraddizione tra il carattere generale della merce come valore e il suo carattere particolare come valore d'uso, si risolve dunque attraverso l'esistenza di una "incarnazione" del valore distinguibile dalla corporeità della merce, la quale, nello scambio, deve assumere "una forma di esistenza sociale in denaro, scissa dalla sua forma di esistenza naturale". In altre parole, l'opposizione interna alla merce tra valore d'uso e valore, si risolve in una opposizione esterna fra merce e denaro. in cui l'una conta sempre come valore d'uso, l'altro come valore di scambio.

Nella società capitalista, in cui lo sfruttamento non avviene in virtù di arbitrio o norme morali, religiose ecc., ma attraverso lo scambio, i rapporti sociali tra gli individui assumono l'apparenza di rapporti tra cose poiché mediati dai rapporti di scambio, cioè da un meccanismo impersonale dominato dai prodotti del lavoro. La compravendita infatti si presenta come scambio tra due oggetti, merce e denaro, pur costituendo in realtà lo scambio fra due lavori, quello contenuto nella merce e quello rappresentato dal denaro. Questo rapporto sociale assume la forma di rapporto tra cose e, all'opposto, viene attribuita una potenza sociale alle cose. Marx definisce “feticismo della merce” questo genere di abbaglio. In particolare viene attribuito un potere sociale assoluto al denaro, con cui si può comprare anche l'anima delle persone: lo testimoniano anche le vicende corruttive del nostro paese. Il denaro è il Dio monoteista della società mercantile. La sua accumulazione comporta un accrescimento di potenza sociale, insieme alla perdita di potere sociale per altri, ed è il movente unico della produzione capitalistica, tutto il resto essendo nient'altro che lo strumento per raggiungere tale scopo.

 

La metamorfosi della merce

Per il produttore o per chi la possiede temporaneamente per venderla, la merce non ha valore d'uso immediato, "altrimenti non la porterebbe al mercato", e la sua utilità consiste solo nell'essere mezzo di scambio, nel poter essere realizzata attraverso lo scambio con un equivalente. Tuttavia la merce, per potersi realizzare come valore, deve essere desiderata da altri, "dar prova di sé come valore d'uso"; e solo lo scambio può sancire l'esistenza di tale condizione.

La circolazione delle merci viene presentata da Marx come una infinita serie di cambiamenti di forma fra merce e denaro mentre cambia di mano in mano. Il potenziale venditore, per il quale la merce è immediatamente solo depositaria di valore, la dovrà scambiare contro denaro, unica forma di equivalente socialmente valida. Dopo di che potrà appropriarsi di un'altra merce che sia finalmente per lui oggetto d'uso. Per esempio l'allevatore porterà al mercato il bestiame da macellare e col denaro ricavato potrà comprare le cose utili a lui a alla sua famiglia.

Il processo di scambio può essere quindi visto come composto di due mutamenti di forma:

1. la trasformazione della merce in denaro (Merce - Denaro o M-D),

2. la ritrasformazione del denaro in merce (Denaro - Merce o D-M).

Ciascuna di queste due fasi necessita di un altro soggetto contrapposto. M-D, la vendita, si realizza solo se il possessore della merce incontra un compratore, per il quale l'operazione sarà D-M, dunque se la merce è utile, se il lavoro erogato per la sua produzione si dimostra, alla resa dei conti, effettivamente speso in forma socialmente utile. Analogamente la conclusione della metamorfosi, D-M, l'acquisto, deve coincide con l'inizio M-D di un altra metamorfosi per l'altro soggetto, il venditore.

Nello scambio diretto, o baratto, è necessario che nello stesso luogo e tempo si incontrino due soggetti reciprocamente interessati l'uno alla merce dell'altro. La metamorfosi M-D–M, tramite la mediazione del denaro, spezza tale limite temporale e spaziale. Ma spezza anche lo scambio in due fasi, M-D e D-M eliminandone l'unitarietà. Ne consegue che i rapporti tra gli individui divengono incontrollabili dagli stessi. Compiuto l'intero ciclo abbiamo raggiunto lo scopo di cambiare la nostra merce con un'altra per noi utile. Ma, con il nostro movimento D-M, altri innescano un nuovo ciclo che deve incontrare altri soggetti a loro contrapposti. La metamorfosi complessiva di una singola merce è quindi l'anello di una catena di metamorfosi, tutte in connessione tra di loro. Nella separazione del ciclo in due fasi, sta anche la possibilità della sua interruzione. E l'interruzione spezza questa catena determinando l'impossibilità di realizzare la metamorfosi per molti altri. Da qui, in una forma ancora molto astratta, la possibilità che si verifichino quelle che Marx chiama crisi di realizzo [4].

Qui la seconda parte.

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Note
[1] K. Marx, Il Capitale libro III, ed Riuniti, 1965, pag. 930.
[2] D. Ricardo Sui principi dell'economia politica e della tassazione, Mondadori, Milano, 1979.
[3] K. Marx, Il Capitale, libro I, Editori Riuniti, 1964, p. 67.
[4] In un altro nostro precedente articolo si è già illustrato che l'analisi di questa separazione fra le due fasi della metamorfosi della merce consente a Marx di formulare una critica rigorosa alla legge degli sbocchi (o legge di Say), anticipando un'analoga critica di John Maynard Keynes. Cfr. http://www.lacittafutura.it/economia/la-crisi-questa-sconosciuta-parte-ii.html

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