Marx e la rivoluzione del 1848*
Irene Viparelli
1. Premessa
Che influenza ebbe la rivoluzione europea del 1848 sulla teoria marxiana? Quale fu il suo contributo specifico? In che misura fu un evento determinante? La strada maestra per addentrarsi nel cuore di questo problema sembra essere fornita dal temporaneo abbandono della militanza politica, compiuto da Marx agli inizi degli anni Cinquanta. Sicuramente il mutamento del contesto storico, la vittoria della controrivoluzione in tutta Europa, la repressione, l’esilio londinese furono tutti fattori che ebbero un’importanza decisiva. Vi fu però anche una motivazione squisitamente teorica, un radicale mutamento nella prospettiva strategica marxiana1.
«Nel caso di una battaglia contro un nemico comune non c’è bisogno di nessuna unione speciale. Appena si deve combattere direttamente tale nemico, gli interessi dei due partiti coincidono momentaneamente, e, com’è avvenuto sinora così per l’avvenire, questo collegamento, calcolato soltanto per quel momento, si ristabilirà spontaneamente»2.
L’imperativo dell’alleanza di tutte le forze democratiche, centrale nel Manifesto, sembra ormai, dopo la rivoluzione, avere ben poco di strategico; il vero compito dei comunisti rivoluzionari è piuttosto la lotta proprio contro queste alleanze ibridatrici che, lasciando evaporare le differenze di classe, dissolvono l’autonomia del proletariato e ne distruggono la coscienza e la forza rivoluzionaria.
« Le diverse beghe, a cui attualmente si abbandonano i rappresentanti delle singole frazioni del partito continentale dell’ordine e in cui si compromettono a vicenda, ben lungi dal fornire l’occasione di nuove rivoluzioni, sono al contrario possibili soltanto perché la base dei rapporti è momentaneamente così sicura e, ciò che la reazione ignora, così borghese. Contro di essa si spezzeranno tutti i tentativi reazionari di arrestare l’evoluzione borghese, come tutta l’indignazione morale e tutti i proclami ispirati dei democratici. Una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi. L’una però è altrettanto sicura quanto l’altra»3.
Questo principio teorico fu la scoperta fondamentale e il grande contributo della rivoluzione del 1848 alla teoria marxiana: non solo fu il presupposto della nuova strategia anti-ideologica, che spinse Marx a criticare violentemente i progetti cospiratori dei democratici esiliati a Londra e provocò la scissione dell’ala Willich-Schapper nella ricostituita Lega dei comunisti, ma fu anche e soprattutto lo strumento di un’autocritica fondamentale. L’individuazione dell’intrinseco legame tra crisi e rivoluzione impose infatti una radicale problematizzazione della teoria marxiana, che dovette essa stessa liberarsi dai presupposti ancora ideologici, dagli ultimi residui di “filosofia della storia” che, alle soglie della rivoluzione, ancora inibivano la formulazione di una teoria rivoluzionaria organica e pienamente coerente. Marx non ha mai né rinnegato le tesi enunciate nel Manifesto né ha mai tematizzato una differente teoria politica; eppure le vicende del biennio rivoluzionario europeo, inintelligibili attraverso tale schema interpretativo, gli imposero necessariamente l’utilizzazione di altre categorie, non “filosofiche”, che superarono di fatto la semplicità dell’antico modello teorico lineare4: dopo il Quarantotto, infatti, la rivoluzione proletaria non poté più fondarsi semplicemente sull’ “astratta necessità” che accomuna ogni società umana, destinata a perire con l’emergere della contraddizione di forze produttive e rapporti di produzione, ma si dovette invece legare alla modalità peculiare con cui questa “legge generale" si realizza nel modo di produzione capitalistico, a quel movimento ciclico attraverso il quale si sviluppa la contraddizione di lavoro salariato e capitale.
Così, proprio a partire dai testi giornalistici scritti a tra il 1848 e il 1853 è possibile rintracciare preziose indicazioni per una teoria della rivoluzione ben più problematica, intimamente legata all’essenza del modo di produzione capitalistico, al suo essere “terra di mezzo” tra il regno della necessità e quello della libertà, tra la preistoria e la storia dell’umanità5.
2. Linearità e ciclicità.
Nell’Ideologia tedesca Marx aveva definito la propria concezione della storia proprio in opposizione ad ogni concezione filosofica, ideologica:
«Con la rappresentazione della realtà la filosofia autonoma perde i suoi mezzi d’esistenza. Al suo posto può tutt’al più subentrare una sintesi dei risultati più generali che è possibile astrarre dall’esame dello sviluppo storico degli uomini. Di per sé, separate dalla storia reale, queste astrazioni non hanno assolutamente valore. Esse possono servire soltanto a facilitare l’ordinamento del materiale storico, a indicare la successione dei suoi singoli strati. Ma non danno affatto, come la filosofia, una ricetta o uno schema sui quali si possono ritagliare e sistemare le epoche storiche. La difficoltà comincia, al contrario, quando ci si dà allo studio e all’ordinamento del materiale, sia di un’epoca passata che del presente, a esporlo realmente. Il superamento di queste difficoltà è condizionato da presupposti che non possono affatto essere enunciati in questa sede, ma che risultano soltanto dallo studio del processo reale della vita e dell’azione degli individui di ciascuna epoca»6.
Le teoria marxiana, al contrario delle filosofie della storia, si fonda su un uso cosciente delle concettualizzazioni e generalizzazioni teoriche: gli universali, riconosciuti come il prodotto dell’astrazione dalle differenze peculiari degli oggetti determinati, non possono più essere considerati il fine ultimo della conoscenza, ma assolvono piuttosto un compito “pratico” derivato dalla loro peculiare capacità sintetica: servono a definire i tratti comuni della storia umana. Per Marx quindi l’astrazione, per sé priva di valore, diventa strumentale alla ricerca scientifica, che è invece sempre riferita ad un oggetto specifico ed è sempre finalizzata a definirne le sue caratteristiche peculiari, la sua irriducibilità alla dimensione generica e astratta, la sua “differentia specifica”7.
Tale prospettiva metodologica fonda due dimensioni differenti della temporalità e determina la loro relazione reciproca. La “temporalità lineare” è la condizione trascendentale della storia stessa, conseguenza delle caratteristiche essenziali dell’uomo: la sua specifica modalità di rapportarsi alla natura duplica il significato e il valore dell’elemento “naturale”, che, in ogni epoca, diventa allo stesso tempo l’espressione del lavoro umano delle epoche passate, che dev’essere conservato, e il presupposto per lo sviluppo ulteriore delle forze produttive umane, che dev’essere quindi sempre ulteriormente trasformato8.
Il movimento storico, determinato dallo scontro necessario tra queste due dimensioni, la conservativa e la dinamica, si configura come un processo che procede dal semplice al complesso, dalle varie storie particolari verso l’affermazione della storia universale. La rivoluzione, in ogni epoca, è lo strumento per distruggere i vecchi rapporti di produzione e per fondare una nuova “natura”, una diversa oggettività che, adeguata alle forze produttive ormai sviluppate, realizza una nuova, effimera armonia tra l’elemento conservatore e quello rivoluzionario.
La temporalità “filosofica” e lineare, che ha la sua sintetica definizione nel postulato marxiano secondo il quale «le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze»9, è quindi il risultato dell’astrazione dalle caratteristiche determinate di ogni epoca, funzionale alla definizione dei caratteri generali, comuni a tutte le epoche e quindi anche a quella che è l’ oggetto specifico della ricerca marxiana, il modo di produzione capitalistico. La sua vera conoscenza però presuppone il superamento di questo terreno delle “astratte analogie” e l’individuazione della sua logica specifica10.
La “temporalità ciclica”, in quanto descrive e definisce ciò che distingue la società capitalista da ogni altra società umana, è il risultato del passaggio a questo nuovo piano d’analisi.
«La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali»11.
In opposizione alle altre classi dominanti della storia, che incarnavano la dimensione conservativa e statica dei rapporti di produzione costituiti, la borghesia interiorizza l’elemento rivoluzionario dell’indefinito sviluppo delle forze produttive come sua essenza peculiare. Le “circostanze oggettive” conseguentemente, nel modo di produzione capitalistico, perdono la loro fisionomia tradizionalmente statica ed appaiono esse stesse come elementi dinamici, in continua trasformazione, infinitamente rivoluzionatesi attraverso i successivi cicli economici.
«E’ questa la legge che di continuo getta la produzione borghese fuori del suo vecchio binario e costringe il capitale a intensificare le forze produttive del lavoro, perché esso le ha intensificate; la legge che non gli concede tregua e gli mormora senza interruzione: Avanti! Avanti! Questa legge non è altro che la legge la quale, entro le oscillazioni dei cicli commerciali, riconduce necessariamente il prezzo di una merce ai suoi costi di produzione. […] Qualunque sia la potenza dei mezzi di produzione impiegati, la concorrenza cerca di rapire al capitale i frutti dorati di questa potenza, riconducendo il prezzo della merce ai costi di produzione; facendo sì che, nella misura in cui si può produrre più a buon mercato, cioè nella misura in cui si può produrre di più con la stessa somma di lavoro, la produzione più a buon mercato, la fornitura di masse sempre maggiori di prodotti per lo stesso prezzo diventi una legge inesorabile. In tal modo con i suoi propri sforzi il capitalista non avrebbe guadagnato nient’altro che condizioni più difficili di valorizzazione del suo capitale»12.
L’indefinito incremento delle forze produttive è il risultato necessario delle leggi coercitive del capitale, che da un lato impongono alla produzione di svilupparsi indefinitamente, al di là dei bisogni, indipendentemente dalle esigenze della domanda, e dall’altro mantengono lo scambio individuale quale forma di socializzazione della produzione privata, il mercato come luogo in cui si deve realizzare la produzione. La specificità del modo di produzione capitalistico è così, al tempo stesso, l’espressione del suo strutturale disequilibrio, del suo carattere intrinsecamente contraddittorio: la produzione si trova ciclicamente di fronte ad un mercato troppo limitato, ormai saturo, incapace di fagocitare l’enorme quantità di merci prodotte13.
È il momento della crisi economica.
«Nella crisi scoppia una epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso: l’epidemia della sovrapproduzione. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra generale di sterminio sembrano averle tolto tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano annientati, e perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. […] Con quale mezzo riesce la borghesia a superare le crisi? Per un verso, distruggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive; per un altro verso conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i mercati già esistenti. Con quale mezzo dunque? Preparando crisi più estese e più violente e riducendo i mezzi per prevenire le crisi»14.
La “temporalità ciclica”, cogliendo la peculiare dinamica attraverso la quale si realizza la “legge generale della storia” nel modo di produzione capitalistico, mette in luce le sue qualità determinate, i suoi elementi di irriducibilità, la sua unicità, la sua essenza: società ormai capace di produrre libera dai bisogni ma d’altra parte costretta a riprodurre ed aumentare progressivamente la miseria proletaria e lo sfruttamento del lavoro, è la “terra di mezzo” tra la preistoria e la storia dell’umanità, l’ultimo gradino della storia naturale e il presupposto necessario per lo sviluppo libero dell’uomo.
3. Incoerenze interne
Il proletariato non può sperare, come le classi subalterne delle società pre-capitalistiche, di emanciparsi attraverso il rivoluzionamento delle forze produttive; il loro indefinito sviluppo quantitativo e la loro infinita trasformazione sono piuttosto la sua croce, il fondamento della sua oppressione15. “La trasformazione delle circostanze”, la rivoluzione, nel modo di produzione capitalistico, deve necessariamente assumere un significato, completamente originale, nuovo: dovrà coincidere con la prima trasformazione “qualitativa” della storia, con la distruzione del presupposto naturale delle società umane e con l’inizio di una nuova fase della storia umana, fondata sul libero sviluppo onnilaterale degli uomini16.
La “temporalità ciclica”, esprimendo la peculiarità del modo di produzione capitalistico, deve quindi definire anche da un lato la modalità di sviluppo dell’antagonismo sociale tra borghesia e proletariato, dall’altro le caratteristiche specifiche della rivoluzione sociale.
Tale deduzione è assente nella riflessione marxiana degli anni ’40. La storia del proletariato corre parallela a quella della borghesia; il loro antagonismo si sviluppa progressivamente, secondo fasi successive, attraverso un percorso assolutamente lineare17.
Quando la borghesia è ancora in lotta contro le classi reazionarie, l’antagonismo rimane celato, nascosto, sotterraneo. In questo stadio la borghesia è infatti ancora la classe per eccellenza rivoluzionaria ed ha quindi il monopolio dell’iniziativa storica; il proletariato parallelamente è ancora immaturo, non si riconosce come soggetto storico, classe per sé. La sua lotta contro la miseria è ancora una lotta reazionaria contro il progresso, per riguadagnare la sua condizione perduta nell’artigianato medievale. Ogni gradino che compie la borghesia verso la sua completa affermazione come classe politicamente e socialmente dominante è però anche un momento di radicalizzazione del loro antagonismo essenziale.
All’apice del modo di produzione capitalistico, quando si sono ormai sviluppate tutte le forze produttive che potevano nascere all’interno dei rapporti di produzione borghesi, tale processo giunge infine al pieno compimento: la borghesia si è ormai trasformata in classe conservatrice mentre il proletariato è diventato un soggetto rivoluzionario pienamente cosciente delle condizioni della sua propria emancipazione.
La rivoluzione sociale è concepita anch’essa in piena analogia alle rivoluzioni borghesi dell’epoca moderna: un evento di breve respiro, capace di distruggere repentinamente, attraverso la conquista del potere politico da parte del proletariato, l’intero ordinamento borghese18.
La strategia politica, enunciata nel Manifesto, è pienamente coerente con tali presupposti “filosofici”: lì dove, come in Germania, si era ben lontani dal vedere realizzata una matura società capitalistica e con essa le condizioni oggettive per la rivoluzione sociale, il proletariato avrebbe dovuto ancora essere, come il proletariato francese del 1789, alleato della borghesia contro le forze reazionarie e avrebbe dovuto aiutarla a realizzare il suo pieno dominio sociale e politico; lì dove invece, come in Inghilterra, il modo di produzione capitalistico aveva ormai già compiuto tutte le tappe del suo sviluppo, la rivoluzione sociale sarebbe stata imminente19.
Germania e Inghilterra rappresentavano i due estremi opposti dello sviluppo capitalistico: la prima era la nazione più arretrata, ormai anacronista, in cui la borghesia non era ancora né politicamente né socialmente la classe dominante; l’altra invece incarnava l’apice dello sviluppo capitalistico; la borghesia non aveva più altro nemico che il proletariato rivoluzionario.
La Francia, in questa prospettiva dell’assoluto parallelismo tra sviluppo economico, conquista borghese del potere politico e realizzazione delle condizioni oggettive della rivoluzione proletaria era per Marx un enigma irrisolto. Qui la borghesia aveva infatti già compiuto la sua rivoluzione politica, spazzato via l’antica nobiltà feudale ed il potere della chiesa, affermato il suo assoluto dominio di classe ma, d’altra parte, la realtà sociale francese era molto dissimile da quella inglese: l’antagonismo tra borghesia e proletariato rimaneva ancora secondario e la maggioranza della popolazione francese era ancora costituita da piccoli contadini proprietari e dalla piccola borghesia cittadina, la cui stessa esistenza era indice dell’ “immaturità” del modo di produzione capitalistico.
Come poter spiegare questo scarto tra sviluppo politico e sviluppo sociale? L’imbarazzo di Marx è ancor più evidente se si considerano i suoi tentennamenti sulla strategia politica da adottare, oscillante tra la prospettiva dell’alleanza, enunciata nel Manifesto, e la previsione di una pura rivoluzione proletaria, enunciata nell’articolo La situazione francese, apparso sulla «Deutsche- Brüsseler-Zeitung» nel gennaio 184820.
L’ insufficienza teorica, dovuta alla coesistenza di due piani eterogenei e contraddittori, si traduce in incertezza programmatica. La stessa dialettica è rintracciabile nei tentennamenti e nelle incertezze marxiane relative alla descrizione del passaggio della rivoluzione proletaria dalla dimensione nazionale a quella universale.
Nel Manifesto Marx propone una teoria pienamente coerente con la prospettiva lineare:
«Sebbene non sia tale per il contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è però all’inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima con la sua propria borghesia»21.
Le rivoluzioni proletarie avrebbero inizialmente dovuto assumere la forma di rivoluzioni nazionali indipendenti, ciascuna strutturata secondo il grado di sviluppo raggiunto dal modo di produzione capitalistico.
«Con lo sparire dell’antagonismo fra le classi nell’interno delle nazioni scompare l’ostilità fra le nazioni stesse»22.
La conquista della dimensione universale sarebbe stata poi il risultato naturale delle varie rivoluzioni nazionali: l’abolizione delle classi avrebbe portato con sé, come conseguenza, l’abolizione dei confini e delle nazioni.
In che modo però si possono conciliare i diversi gradi di sviluppo delle nazioni, i tempi diversi delle varie rivoluzioni nazionali, dal momento che la rivoluzione proletaria è vincente soltanto come rivoluzione mondiale?
La risposta sembra poter esser trovata nel discorso tenuto da Marx all’Assemblea nazionale di Londra per il diciassettesimo anniversario della rivoluzione polacca, in cui però Marx in realtà utilizza un paradigma completamente diverso:
«Tra tutti i paesi l'Inghilterra è quello dove l'antagonismo tra proletariato e borghesia è più sviluppato. La vittoria del proletariato inglese sulla borghesia inglese è quindi decisiva per la vittoria di tutti gli oppressi contro i loro oppressori. La Polonia non si libera quindi in Polonia, ma in Inghilterra».23
Ben lungi dall’apparire come un puro legame esteriore, la dipendenza tra le varie rivoluzioni nazionali in questo caso appare piuttosto fondata su un vincolo essenziale: i destini delle nazioni arretrate sono decisi in quelle più sviluppate. Dall’Inghilterra la rivoluzione si sarebbe dovuta quindi espandere a macchia d’olio fino a conquistare quella dimensione universale in cui sola avrebbe potuto essere vittoriosa.
Tale concezione della rivoluzione era destinata a rimanere un’ipotesi contraddittoria all’interno di una prospettiva politica che, indifferente alla specifica contraddizione del modo capitalistico di produzione, alla peculiarità dell’antagonismo di borghesia e proletariato e alla sua modalità ciclicità di sviluppo, fonda ancora la necessità della rivoluzione proletaria soltanto sull’astratta analogia con le altre società umane, storicamente determinate e quindi destinate a perire in virtù della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione. La medesima prospettiva rivoluzionaria però, fondata sull’interdipendenza mondiale della produzione capitalistica e ben più coerente con i presupposti teorici marxiani, prenderà decisamente il sopravvento dopo la rivoluzione del 1848.
4. Prosperità e controrivoluzione.
Le rivoluzioni politiche europee, invece di essere un passo in avanti verso la definitiva vittoria della società borghese sui residui di epoche passate, ebbero come unico risultato l’affermazione “universale” della controrivoluzione, non soltanto sul continente rivoluzionario ma anche nella “pacifica” Inghilterra. Qui l’aristocrazia fondiaria, rappresentata dal partito Tory, nonostante avesse perduto, con l’abolizione delle leggi sul grano, il suo ultimo privilegio sociale e nonostante avesse ormai riconosciuto l’indiscussa egemonia del capitale industriale, continuava a conservare il monopolio del potere politico.
«E come si può raggiungere questo obiettivo? Nientedimeno che con una controrivoluzione, cioè con una reazione dello Stato contro la società. Essi si sforzano di tenere artificiosamente in piedi le istituzioni e un potere politico, condannati dal momento stesso in cui la popolazione rurale si è trovata superata di tre volte da quella delle città»24.
La controrivoluzione, dopo il biennio rivoluzionario, non poteva più essere considerata un fenomeno storico contingente, un’effimera sospensione del movimento lineare della storia, una mera conseguenza dei disordini rivoluzionari25; colpendo anche il paese che era riuscito a restare indifferente alle vicissitudini rivoluzionarie, aveva conquistato una “dimensione più universale” della stessa rivoluzione europea. Doveva essere necessariamente riconosciuta come un fenomeno essenziale della società moderna, intimamente legato al modo di produzione capitalistico26.
La metamorfosi delle forze reazionarie in pure “forze politiche”, improduttive e parassitarie è infatti la conseguenza della peculiare contraddizione della moderna borghesia che, al contrario delle altre classi dominanti nella storia, è impossibilitata a compiere la sua propria trasformazione da classe rivoluzionaria in classe conservatrice ed è costretta piuttosto ad essere allo stesso tempo, sincronicamente, rivoluzionaria verso le forze reazionarie, conservatrice nei confronti del proletariato ed incapace di liberarsi definitivamente di entrambi i nemici27.
La borghesia è necessariamente ed essenzialmente antagonista verso ogni potere consolidato dalle tradizioni: le monarchie, con i loro enormi apparati burocratici e militari, sono per lei null’altro che “faux frais” della produzione, spese inutili al capitale, inspiegabili ritenute sui profitti, esistenze parassitarie assolutamente contraddittore rispetto alle leggi della produzione borghese. «L’argent n’a pas de maître!»28 ed il capitale non può tollerare alcun potere politico che intralci la sua innata forza rivoluzionaria, alcuna limitazione esteriore alle sue leggi intrinseche, alcun ostacolo, alcun privilegio. La borghesia quindi non può che rivendicare uno Stato perfettamente corrispondente alla dinamica del capitale: un governo repubblicano, “minimo”, libero da ogni spesa superflua, che riduca al minimo i suoi costi di produzione.
Quel «comitato, il quale amministra gli affari comuni di tutta quanta la classe borghese»29, prospettato nel Manifesto come esito ultimo dello sviluppo capitalistico, è quindi in effetti l’ideale politico della borghesia, destinato però a restare un progetto utopico, irrealizzabile: l’eliminazione del dispendioso apparato burocratico e militare dello Stato eliminerebbe infatti ogni autonomia formale del potere politico, demistificherebbe i rapporti tra le classi e lascerebbe emergere in modo pericolosamente evidente l’antagonismo di capitale e lavoro30. La borghesia fornirebbe così al proletariato tutte le armi per la rivoluzione e parallelamente si priverebbe di ogni capacità repressiva, destinandosi all’impotenza. La realizzazione del suo “Stato ideale” sarebbe l’affermazione delle condizioni della propria sconfitta certa31.
La borghesia quindi, di fronte al proletariato, è costretta a svestirsi degli abiti rivoluzionari per indossare quelli conservatori: gli enormi costi di gestione dell’apparato statale, che aveva dapprima denunciato come “faux frais” della produzione, intollerabili ritenute sui profitti, vengono improvvisamente riconosciuti come spese più che mai necessarie al capitale, le sue sole armi contro la lotta di classe, gli unici strumenti capaci di garantire l’ordine e la pace sociale e assicurare così le condizioni necessarie per lo sfruttamento capitalistico del lavoro.
L’essenza duplice della borghesia incarna quindi due istanze contraddittorie, reciprocamente negatesi: il proletariato è tanto suo unico alleato contro i poteri reazionari, quanto il suo nemico, «irreconciliabile, invincibile – invincibile perché la sua esistenza è condizione della esistenza stessa della borghesia»32; d’altra parte le costose forze repressive dello Stato sono sì “ faux frais” di cui la borghesia si deve liberare, ma sono anche, nello stesso tempo, la sua unica arma contro il proletariato.
Per mantenere il proprio dominio di classe la borghesia deve inibire lo svolgimento della dialettica storica, mantenere assopita la sua essenza contraddittoria, rendere latente, sospesa, la conflittualità sociale, impedire l’emergere violento del suo “duplice antagonismo”, evitare da un lato che classi rivoluzionarie «avanzino dall’emancipazione politica all’emancipazione sociale»33, dall’altro che la reazione «retroceda dalla restaurazione sociale alla restaurazione politica»34.
Questo limbo, questa dimensione dell’assoluta indecisione storica ha però la sua condizione trascendentale nella prosperità economica, che crea le condizioni per poter realizzare un tacito e ipocrita compromesso tra la borghesia e le forze repressive statali, capace di anestetizzare le contraddizioni tendenzialmente esplosive del capitalismo: il credito borghese si sottomette agli interessi improduttivi dello Stato, accetta di sopportare il peso dei ceti privilegiati e parassitari e questi ultimi “in cambio” si impegnano a garantire l’ordine e a pace sociale, diventando così strumenti borghesi contro i pericoli della lotta di classe35.
Concentrata sui suoi affari privati, interessata esclusivamente a sfruttare al meglio la congiuntura favorevole, impegnata a trarne i maggiori benefici economici nella consapevolezza che la crescita economica è sempre il preludio della stagnazione e della crisi, la borghesia cede ben volentieri ad un potere politico formalmente indipendente, garante delle condizioni del corso normale della produzione borghese, tutte le responsabilità e i pericoli connessi alla gestione dello Stato36.
Il compromesso appare infatti duplicemente vantaggioso per la borghesia: non solo le forze burocratiche e militari dell’apparato statale salvaguardano la pace sociale attraverso le forze repressive vere e proprie, ma svolgono anche una preziosa funzione di “repressione preventiva”: opprimendo egualmente tutte le classi sociali, compresa la borghesia, nascondono la loro dipendenza dai rapporti di produzione borghesi e l’effettiva subordinazione al capitale dietro la loro autonomia formale. Questa mistificazione, in cui i reali rapporti di dipendenza tra i poteri statali e la società appaiono invertiti, dà allo Stato le sembianze di un potere metafisico, di una forza trascendente: è un “Dio”, che ha creato la struttura sociale per poter dispensare premi e punizioni sociali, elargire miseria e privilegi. Mentre attira così su di sé l’odio di tutte le classi sociali, lascia il capitale libero di affermare indisturbato il suo effettivo potere, il suo reale dominio, lontano da occhi indiscreti e pericolosi37.
L’autonomia formale dello Stato dalla società quindi, ben lungi dall’essere in contraddizione con i rapporti di produzione borghesi, è piuttosto il risultato conseguente dell’a-politicità e dell’ “interessata indifferenza” della classe borghese verso la dimensione pubblica in ogni periodo di crescita economica.
Tutte le monarchie europee si fondavano per Marx, prima del 1848, su questo “tacito compromesso”, le cui clausole specifiche dipendevano, nelle varie nazioni, dal potere sociale, e quindi dalla forza contrattuale, delle varie borghesie nazionali.
La borghesia inglese, rifiutandosi di trarre dalla sua potenza sociale «le necessarie conclusioni politiche ed economiche»38, aveva lasciato la gestione dello Stato in mano all’aristocrazia fondiaria, garante dell’ordine sociale. L’abolizione delle leggi sul grano era stata la dimostrazione che, qualsiasi partito stesse al governo, il potere politico era sempre costretto a cedere alle richieste borghesi e a sottomettersi ai suoi interessi di classe39.
«La Costituzione britannica non è altro che un compromesso superato, anacronistico e caduto in prescrizione, fra la borghesia che non ufficialmente ma di fatto predomina in tutte le sfere decisive della società e l’aristocrazia terriera ufficialmente regnante»40.
Ben diversa era invece la forza sociale della borghesia francese, che, in nome dell’ordine sociale, doveva accettare il dominio politico dell’aristocrazia finanziaria, la «riproduzione del sottoproletariato alla sommità della società borghese»41. Lo Stato francese, monopolizzato da una “cricca” di interessi particolaristici, era diventato «una società per azioni per lo sfruttamento della ricchezza nazionale francese, società i cui dividendi si ripartivano fra i ministri, le Camere, 240 mila elettori e il loro seguito»42.
In Germania infine il compromesso sembrava assolutamente impossibile: la debole borghesia tedesca era infatti la più bisognosa della protezione statale contro la concorrenza straniera e doveva sopravvivere con un potere politico che, incapace di proteggerla economicamente, la costringeva inoltre a farsi carico degli enormi costi di gestione della struttura ancora feudale della monarchia.
Eppure la borghesia tedesca era la meno propensa a intraprendere il cammino della rivoluzione:
«Ai suoi occhi la Corona era appunto solamente il paravento per grazia divina dietro al quale dovevano nascondersi i suo i propri interessi profani. L’intangibilità dei suoi propri interessi e delle forme politiche corrispondenti al suo interesse, tradotta in linguaggio costituzionale, doveva significare: intangibilità della Corona»43.
L’“ipocrita compromesso” tra poteri repressivi di Stato e borghesia è anche il segreto dell’affermazione universale della controrivoluzione alla fine del biennio rivoluzionario:
«A partire dal 1849 la prosperità industriale e commerciale ha rappresentato il divano su cui la contro rivoluzione ha dormito indisturbata»44.
Passata la crisi economica iniziata in Inghilterra tra il 1845 e il 1847, era cominciato un nuovo periodo di benessere, prosperità, crescita economica e conseguentemente una rinnovata indifferenza della borghesia verso la politica. Il desiderio di essere tutelata contro ogni pericolo di conflitti sociali la spinse ad abbandonare i suoi rappresentanti politici e a rifugiarsi nuovamente nelle braccia protettive dei poteri controrivoluzionari45.
In Inghilterra:
«la massa della popolazione è occupata e gode più o meno di un relativo benessere, sempre astrazion fatta dei poveri, che sono inseparabili dalla prosperità inglese; per questo motivo oggi non è molto incline ad agitazioni politiche. Ma ciò che soprattutto dà a Derby la possibilità di dar corso alle sue macchinazioni, è il fanatismo con cui la classe media si è gettata nell’immane processo della produzione industriale, erigendo fabbriche, costruendo macchine e navi, filando e tessendo cotone e lana, immagazzinando merci, fabbricando, scambiando, esportando, importando ed esercitando altre attività più o meno utili, il cui scopo, per la borghesia, è sempre quello di far soldi. La borghesia, in questo momento di intensa attività commerciale – e ben si sa che questi felici momenti diventano sempre più rari e sempre più distanti l’uno dall’altro – fa e deve far soldi, molti soldi; soltanto soldi. E lascia ai suoi uomini politici ex professo l’incarico di tener d’occhio i tories. Ma gli uomini politici ex professo […] si lamentano giustamente di non poter agitare le acque senza una pressione dall’esterno, così come l’organismo umano non può funzionare senza la pressione atmosferica»46.
Sul continente rivoluzionario il nuovo benessere anestetizzò nuovamente la contraddizione borghese e la parola d’ordine tornò ad essere quella della tutela dell’ordine e della pace sociale. La lotta per il mantenimento del potere politico conquistato attraverso le rivoluzioni avrebbe richiesto necessariamente, in Francia come in Germania, una nuova alleanza con il popolo, la fine di ogni garanzia di pace sociale, il rischio di non poter approfittare della congiuntura economica favorevole. Le borghesie nazionali preferirono quindi ritirarsi dal terreno politico e allearsi con la reazione contro i loro stessi rappresentanti.
La borghesia francese «faceva capire che la lotta per la difesa dei suoi interessi pubblici, dei suoi interessi di classe, del suo potere politico, in quanto disturbava i suoi affari privati lo molestava e gli dava fastidio»47. Abbandonò così l’Assemblea legislativa al suo triste destino e diventò bonapartista48.
In Germania, parallelamente, «per paura della rivoluzione, la parte commerciale e industriale della borghesia si getta nelle braccia della controrivoluzione»49. L’Assemblea intesista si trovò completamente isolata nella sua guerra contro la Corona; il suo appello ai cittadini per non pagare le tasse al governo traditore sarebbe caduto nel vuoto, se non fosse stato accolto entusiasticamente solo dai movimenti democratici, che in seguito dovettero rispondere davanti ai tribunali.
L’ultimo periodo del biennio rivoluzionario, quindi, non fu la lotta della borghesia per il mantenimento del potere politico, fu piuttosto una “guerra politica” tra l’esecutivo ed il legislativo per la gestione dell’apparato statale e per il monopolio dei privilegi politici.
«Il potere esecutivo, in opposizione al potere legislativo, esprime l’eteronomia della nazione, in opposizione alla sua autonomia»50. I rappresentanti borghesi si erano trasformati anch’essi, dopo due anni di politica controrivoluzionaria e repressiva, in “poteri metafisici”, “cricche” politiche legate a specifici privilegi e privi di qualsiasi forza di rappresentanza. Lontani dal popolo, traditi dalla propria stessa classe, privi di ogni sostegno sociale, senza armi, erano però destinati all’impotenza e dovettero soccombere alla pura forza repressiva dei poteri controrivoluzionari.
5. Crisi e rivoluzione.
La borghesia, finché c’è abbondanza di credito, prosperità, crescita economica, mantiene sospesi i presupposti contraddittori del suo dominio, persistendo nella pacifica dimensione dell’assoluta indecisione e irresoluzione; col sopraggiungere della crisi però la contraddizione esplode violentemente, inaugurando una congiuntura rivoluzionaria.
La riduzione delle disponibilità di credito della borghesia, la penuria nei profitti, impongono la fine degli sperperi, la parsimonia, l’eliminazione dei “faux frais” della produzione. Così, quell’antagonismo latente, sotterraneo tra il potere politico formalmente autonomo, che vorrebbe sottomettere il credito borghese ai suoi privilegi, e la borghesia, che soltanto a malavoglia tollera queste spese improduttive, deve necessariamente emergere in superficie: l’autonomia formale dello Stato, le sue capacità repressive, i suoi apparati burocratici e militari sono improvvisamente riconosciuti come poteri reazionari, arbitrari, oppressivi, non legittimi. E contro i regimi dispotici la rivoluzione è un diritto borghese.
La rottura del tacito compromesso con il potere statale, l’abbandono del terreno della “sospensione storica” è però il più grande pericolo per la borghesia poiché ogni congiuntura rivoluzionaria si annuncia sempre con il minaccioso avvertimento: «Aprés moi le déluge!»51. Lasciando esplodere il fondamento contraddittorio del suo dominio la borghesia dà infatti inizio ad una serie di eventi che non può controllare; per quanto cerchi disperatamente di riassopire le contraddizioni esplose, si trova ad essere spintonata, sballottata, in balia di forze estranee che non riesce ad addomesticare.
La possibilità rivoluzionaria è contemplata quindi dalla borghesia esclusivamente come estremo rimedio, una strada da percorrere soltanto dopo aver tentato tutti i possibili compromessi con i poteri statali sul “terreno legale”. La forza e le capacità “persuasiva” della borghesia dipendono però da due fattori oggettivi: da un lato dal grado dell’intensità della crisi economica, che determina i margini di disponibilità di credito per tenere in vita lo Stato parassita, dall’altro dalla forza sociale della borghesia, che definisce la sua capacità di influire a livello politico, la possibilità di costringere i poteri statali a rinunciare pacificamente ai propri privilegi, subordinandoli agli interessi di classe borghese52.
Nel 1848 soltanto la borghesia inglese riuscì a mantenere questo terreno della mediazione pacifica: poiché la crisi economica era rimasta circoscritta nelle sfere secondarie e sintomatiche della speculazione e del commercio, senza estendersi fino al cuore della economia capitalista, alla sfera industriale, anche le ripercussioni politiche furono limitate. L’abolizione delle leggi sul grano fu il compromesso col quale il governo Tory accettò di difendere le esigenze della borghesia industriale, conservando il proprio monopolio del potere politico. La borghesia inglese così si salvò senza doversi incamminare sul pericoloso terreno rivoluzionario; la sua essenza contraddittoria restò assopita.
Ben differente fu la dinamica storica per le altre nazioni. La paralisi del commercio inglese fu infatti cruciale per le deboli economie continentali, unilateralmente dipendenti dall’Inghilterra: non solo chiuse il loro principale canale di esportazione ma aumentò parallelamente la concorrenza inglese sugli altri mercati. La crisi si presentò conseguentemente nella sua forma pura, essenziale, radicale: come crisi industriale di sovrapproduzione, che annientò tutti i possibili tentativi di mediazione. La debolezza economica si tradusse così in impotenza politica: sia l’appello della borghesia industriale francese per una riforma elettorale che le avrebbe dato la maggioranza parlamentare, sia quello rivolto dalla borghesia tedesca al monarca assoluto, affinché si decidesse a diventare costituzionale, caddero nel vuoto.
La borghesia però, per sé assolutamente priva di coraggio, incapace di imprese eroiche, non si incammina mai da sola sul terreno rivoluzionario. Chiama il popolo a sua difesa, lo manda avanti contro il pericolo, gli permette di battersi per lei e raccoglie infine i frutti della rivoluzione.
Così in Francia fu il proletariato ad imporre la proclamazione della repubblica sulla base del suffragio universale, cancellando «persino il ricordo degli scopi e degli obiettivi limitati che avevano spinto la borghesia alla rivoluzione di febbraio»53.
In Germania parallelamente il popolo pose fine ad ogni possibilità di meschini compromessi con la Corona.
«La borghesia non aveva mosso un dito. Aveva permesso al popolo di battersi per lei. Il dominio trasmessole non era quindi il dominio del generale che sconfigge il suo avversario sul campo di battaglia, bensì il dominio di un comitato di salute pubblica a cui il popolo vincitore affida la tutela dei suoi propri interessi»54.
Il popolo, « puer robustus sed malitiosus come dice Hobbes»55, consegna quindi alla borghesia il potere politico ma la costringe allo stesso tempo a superare le sue limitate rivendicazioni iniziali, ad elevarsi al di sopra della propria esistenza di classe, a trasformarsi nella rappresentante della “volontà universale della nazione”, nella classe universalmente emancipatrice, simbolo della definitiva vittoria del diritto su ogni potere arbitrario, su ogni forma di privilegio.
Le condizioni per la liberazione delle altre classi sociali però implicano il superamento del modo di produzione borghese mentre d’altro canto il dominio di classe della borghesia presuppone la schiavitù delle altre classi sociali. Come avrebbe potuto la borghesia tutelare i propri particolari interessi di classe ed esser contemporaneamente la portavoce delle rivendicazioni delle altre classi sociali? Come avrebbe potuto garantire le condizioni del dominio del capitale sul lavoro e rappresentare gli interessi del proletariato? Come tutelare gli interessi della piccola borghesia e della piccola proprietà contadina se il suo potere è il dominio del grande capitale, che distrugge con ferrea necessità la piccola proprietà?
Il potere politico della borghesia, conquistato per via rivoluzionaria, lascia emergere le sue istanze contraddittorie, reciprocamente escludentisi, e crea così «il terreno della lotta»56: la rivoluzione borghese diventa cioè la prima fase di un movimento rivoluzionario che deve proseguire inarrestabile, «secondo una linea ascendente»57, bruciare le tappe della storia, perpetuarsi, prolungarsi in permanenza, e, senza arrestarsi, senza accettare compromessi, inesorabile, deve portare a compimento il suo compito trasformando la rivoluzione politica in rivoluzione sociale e superando il fondamento contraddittorio della società borghese.
Una necessità vitale impone quindi alla borghesia di “reagire”, di bloccare questo movimento ascendente, di chiudere il più rapidamente possibile la congiuntura rivoluzionaria; il ripristino del terreno legale però, ben lungi dal poter esser deciso dalla volontà delle borghesia, dipende esclusivamente dalla ripresa economica. «Anche il terreno controrivoluzionario è rivoluzionario»58 e quindi il tradimento borghese della rivoluzione instaura necessariamente il movimento opposto, “discendente”, verso la controrivoluzione, e la borghesia è destinata a perdere nuovamente il controllo degli avvenimenti ed essere infine sconfitta dalle forze reazionarie.
Questo movimento discendente, nel 1848, tanto in Francia come in Germania, si realizzò in due fasi: la prima, quella della “resistenza passiva”, fu dominata dalle rappresentazioni ideologiche della realtà59.
Formalmente la borghesia riconobbe la rivoluzione come atto fondativo del suo dominio e si proclamò classe universalmente emancipatrice, rappresentante della volontà del popolo; praticamente, contraddicendo e negando i principi ideali, cercò di stabilire una distanza tra il suo potere politico e l’evento rivoluzionario che l’aveva generato.
La borghesia francese proclamò così la “fraternité” universale come il principio fondante della repubblica, mentre parallelamente la politica del governo provvisorio ebbe un unico obiettivo:
«Si doveva […] farla finita con gli operai»60.
La Commissione del Lussemburgo, la formazione della guardia mobile, gli Ateliers nationaux; furono tutti provvedimenti tesi a indebolire i proletari che, essendo stati decisivi nelle giornate di febbraio, «avanzavano le pretese orgogliose del vincitore»61; rivendicazioni inammissibili per la borghesia.
In Germania l’espediente col quale la borghesia riconobbe e negò allo stesso tempo il legame tra la rivoluzione e il suo potere politico fu la trasformazione di un nesso causale in un legame temporale.
«Post e non propter, vale a dire, il signor Camphausen è diventato presidente del Consiglio non per effetto della rivoluzione di marzo, ma dopo la rivoluzione di marzo»62.
Il ministero Camphausen, definendosi “primo ministero dopo la rivoluzione di marzo”; riconosceva la rivoluzione soltanto come momento di inizio del potere borghese e tacitamente confessava che la sua azione politica si sarebbe svolta invece su un altro terreno. In tal modo furono poste le premesse per la teoria intesista: la borghesia tedesca avrebbe svolto la sua opera costituente sul “terreno legale del diritto”, in accordo con la Corona. Tale ipocrisia celava un ardito e furbesco progetto borghese:
«Il “terreno del diritto” significava, in una parola, che la borghesia, dopo il marzo, voleva trattare con la Corona sullo stesso piede di prima del marzo, come se non fosse avvenuta nessuna rivoluzione e la Dieta riunita avesse raggiunti il suo scopo senza la rivoluzione. Il “terreno del diritto” significava che il titolo giuridico del popolo, la rivoluzione, non esisteva nel contrat social tra governo e borghesia. La borghesia deduceva le sue rivendicazioni dalla vecchia legislazione prussiana affinché il popolo non deducesse rivendicazioni dalla nuova rivoluzione prussiana»63.
Il giugno parigino segnò il passaggio dalla fase della “resistenza passiva” a quello dell’ “attacco attivo” contro la rivoluzione. Il suo segreto fu il dieci aprile inglese, giorno in cui una pacifica manifestazione cartista fu trasformata in un massacro; la borghesia inglese diede così l’esempio e la forza alla controrivoluzione europea: la borghesia francese poté liberarsi definitivamente del proletariato, «e ciò che era possibile a Parigi si poteva rifare anche altrove»64. La borghesia tedesca, pusillanime e debole, divenne improvvisamente impavida e coraggiosa65.
Così, dall’Inghilterra alla Germania, la rivoluzione europea fu definitivamente sconfitta e la borghesia sembrò esser ormai riuscita ad imporre finalmente il suo dominio assoluto: inizialmente aveva sfruttato il popolo contro i poteri reazionari, poi si era disfatta anche dell’antico alleato, e sembrava aver così risolto il carattere contraddittorio del suo potere politico distruggendone gli elementi costitutivi. Era rimasta la sola forza sopravvissuta.
Le Costituzioni sarebbero state i suoi strumenti per tutelarsi tanto dalla reazione quanto dal popolo. Ma, reprimendo il popolo, quale altra arma le sarebbe rimasta contro i poteri reazionari? E come avrebbe potuto portare avanti la repressione del popolo una volta distrutto l’antico apparato statale? Ancora una volta l’attendeva un compito impossibile; ancora una volta la contraddizione poteva essere risolta soltanto sul piano illusorio dell’ideologia: essa sancì idealmente i principi democratici del proprio dominio, immaginando così di tutelarsi dalle forze reazionarie, mentre praticamente, per imporre la propria dittatura di classe contro il popolo, riconfermò ovunque gli antichi poteri, la burocrazia e l’esercito, convinta che questi avrebbero accettato il nuovo ruolo di “salariati” della borghesia e avrebbero rinunciato ai loro vecchi privilegi.
L’egemonia politica borghese, all’interno della congiuntura rivoluzionaria, non poteva esser altro che un effimero momento di equilibrio tra rivoluzione e controrivoluzione e la borghesia, cercando di eternare quest’”istante fuggente” attraverso l’opera costituzionale, preparava in realtà tutte le condizioni oggettive per la sua futura sconfitta. Principi ideali e condizioni reali del dominio borghese furono enunciati in ogni singolo articolo della Costituzione francese emanata nel novembre 1848: diviso in due parti, nella prima veniva enunciata formalmente la libertà universale mentre nella seconda ne venivano definite le limitazioni66.
«Il lettore avverte subito che essa è, dal principio alla fine, un insieme di belle parole che nascondono un’intenzione quanto mai fallace. Già nel modo stesso in cui è formulata, infrangerla è impossibile, poiché ogni sua norma contiene in sé la propria antitesi – si annulla da sé. […] La Costituzione continua a ripetere sempre la formula che la regolamentazione e la limitazione dei diritti e delle libertà del popolo (come il diritto di riunione, il diritto di voto, la libertà di stampa, di insegnamento ecc.) debbono essere fissate da una legge organica successiva – e queste “leggi organiche” “determinano” la libertà promessa annientandola. […] Le eterne contraddizioni di questa parodia di Costituzione mostrano con sufficiente chiarezza che la borghesia può essere democratica a parole, ma non nei fatti; essa potrà ben riconoscere le verità di un principio, ma non lo metterà mai in pratica – e la vera “Costituzione” della Francia non sta nella Carta di cui abbiamo riferito, ma nelle leggi organiche emanate sulla base di questa e che noi abbiamo brevemente riassunto per il lettore. I principi c’erano - ma i dettagli furono rimessi al futuro, e proprio in grazia di quei dettagli la vergognosa tirannia fu ancora una volta assunta a legge!»67.
Le leggi organiche definirono “socialiste” anche le più classiche libertà borghesi e permisero di portare avanti una politica repressiva e reazionaria, antipopolare, che sottrasse alle classi nemiche, in nome dell’ordine e della sicurezza sociali, ogni libertà.
«Ciò che la borghesia non comprendeva era la conseguenza che il suo proprio regime parlamentare, e in generale il suo dominio politico, dovevano anche essi sottostare alla generale sentenza di condanna come socialisti […] Se in ogni palpito della vita sociale la borghesia vedeva un pericolo per la “calma”, come poteva voler conservare, alla testa della società , il regime della irrequietezza, il suo proprio regime, il regime parlamentare, questo regime che, secondo l’espressione di uno dei suoi oratori, vive nella lotta e per la lotta? Il regime parlamentare vive della discussione: come può proibire la discussione? […] Tacciando dunque di eresia “socialista” ciò che prima aveva esaltato come “liberale”, la borghesia confessa che il suo proprio interesse le impone di sottrarsi al pericolo dell’autogoverno; che per mantenere la calma nel paese deve anzitutto esser ridotto alla calma il suo Parlamento borghese; che per mantenere intatto il suo potere sociale deve essere spezzato il suo potere politico; che i singoli borghesi possono continuare a sfruttare le altre classi e a godere tranquillamente della proprietà, della famiglia, della religione e dell’ordine soltanto a condizione che la loro classe venga condannata a essere uno zero politico al pari di tutte le altre classi; che per salvare la propria borsa essa deve perdere la propria corona, e la spada che la deve proteggere deve in pari tempo pendere come in spada di Damocle sulla propria testa»68.
La borghesia francese, convinta di aver affermato le condizioni per la propria dittatura di classe, aveva posto le premesse per il colpo di stato di Luigi Bonaparte.
Gli unici articoli positivi della Costituzione, che non avevano in sé la propria antitesi, erano quelli relativi alla separazione dei poteri. Qui la contraddizione tra la libertà ideale e dittatura reale, non più incarnata in ogni singolo articolo, si disponeva invece tra gli articoli relativi ai poteri del legislativo e quelli dell’esecutivo. I primi sancivano l’idealità del potere politico borghese, i secondi la sua realtà. I poteri speciali, affidati a Cavaignac durante il massacro di giugno, diventarono le prerogative del presidente della repubblica: investito dei poteri illimitati di un monarca assoluto, con il pieno controllo sull’esecutivo e sulle forze militari, ebbe come unico limite quello della scadenza del mandato, che sanciva il suo passaggio dall’onnipotenza al nulla. Così la costituzione «non solo […] consacra, come la Carta del 1830, la divisione dei poteri, ma la estende sino a farla diventare una intollerabile contraddizione»69. Istigava necessariamente l’esecutivo alla soluzione anticostituzionale70.
In Germania il passaggio dalla “resistenza passiva” all’”attacco attivo” fu simboleggiato dalla caduta del ministero Camphausen.
«Le sue dimissioni furono […] un mistero per i politicanti da osteria. Fu seguito dal ministero d’azione, dal ministero Hansemann, perché la borghesia pensava di passare dalla fase del tradimento passivo del popolo a favore della Corona alla fase dell’assoggettamento attivo del popolo sotto il dominio concordato con la Corona. Il ministero d’azione fu il secondo ministero dopo la rivoluzione di marzo. Ecco il suo mistero»71.
La politica impossibile del ministero Hansemann si riassunse nella formula: «Signori! In questioni di denaro, la cordialità cessa!»72. Quest’espressione era portatrice di due messaggi differenti: per la Corona doveva significare l’abolizione degli antichi privilegi della “camarilla berlinese”, la fine degli antichi “faux frais” della produzione statale, dei poteri privilegiati, della nobiltà. La monarchia assoluta sarebbe stata trasformata in monarchia costituzionale e l’unica forma di proprietà tutelata sarebbe stata la proprietà borghese. Per il popolo il medesimo imperativo era invece un avvertimento: poiché il credito borghese aveva bisogno di ordine e stabilità sociale il governo avrebbe provveduto a reprimere ogni sussulto sociale, ogni tentativo di risvegliare la lotta di classe.
Ancora una volta due compiti che si negavano reciprocamente: se la borghesia avesse voluto realmente distruggere il potere della Corona, l’intera struttura dell’apparato statale assolutistico e monarchico, si sarebbe dovuto proclamare un potere costituente, una Convenzione rappresentante del popolo rivoluzionario, come avevano fatto la borghesia inglese nel XVII e quella francese nel XVIII secolo. Per la repressione del popolo d’altra parte non avrebbe potuto fare a meno degli antichi poteri repressivi dello Stato, gli avrebbe dovuto concedere enormi poteri, riconoscendoli come elementi fondamentali del modo capitalistico di produzione.
La borghesia tedesca, proprio come quella francese, rese unilaterale la contraddizione e si limitò alla repressione del popolo. «La vecchia burocrazia, il vecchio esercito, le vecchie procure, i vecchi giudici, nati, educati e invecchiati al servizio dell’assolutismo»73 furono invece investiti di poteri sempre maggiori, nella convinzione che si sarebbero sottomessi al nuovo potere borghese. «Non solo nel ministero, ma in tutto l’ambito della monarchia la borghesia era ebbra di questa folle illusione»74.
Agonizzanti dopo la rivoluzione di marzo, grazie alle cure della borghesia, le vecchie forze reazionarie poterono riprendere lentamente forza e vigore, finché, quando furono ormai completamente guarite, vollero ristabilire il loro antico modo di vita, lontane da “noiosi medici” e protettori borghesi.
6. Conclusione.
Due anni di sommovimenti politici avevano avuto come unici risultati il ristabilimento dei vecchi poteri contro i quali era stata mossa la rivoluzione, l’accresciuta arroganza delle burocrazie e degli eserciti europei, un clima ancor più oppressivo di quello pre-rivoluzionario, la rinnovata indifferenza borghese per la dimensione politica. Il biennio rivoluzionario europeo sembrava così concludersi con un “nulla di fatto”; quasi come se la spinta rivoluzionaria e la reazione controrivoluzionaria si fossero infine compensate, annullandosi a vicenda.
Tale insensatezza della storia si rivela essere apparente se le congiunture rivoluzionarie sono concepite come stadi determinati dello sviluppo capitalistico: in tale prospettiva, infatti, ogni ripresa economica, ben lungi dall’essere un definitivo superamento della crisi, è soltanto il presupposto per crisi future, più radicali, più violente; la contraddizione borghese va in letargo solo per esplodere nuovamente, in una forma più matura e più drastica.
L’antagonismo tra borghesia e proletariato diventa progressivamente sempre più violento mentre d’altra parte diminuiscono i margini per i possibili compromessi tra la borghesia e i poteri parassitari dello Stato.
La trasformazione del proletariato in classe compiutamente rivoluzionaria non si realizza, come Marx aveva immaginato nel Manifesto, attraverso un processo di sviluppo lineare, ma invece proprio attraverso le successive congiunture rivoluzionarie. Il suo sviluppo quantitativo, risultato del rivoluzionamento delle forze produttive necessario per superare le crisi, è sempre accompagnato da un parallelo sviluppo qualitativo.
La demistificazione delle relazioni sociali infatti, lasciando emergere l’essenza contraddittoria della borghesia, costituisce necessariamente un momento di crescita del proletariato, che solo così diventa progressivamente maturo e cosciente della sua conflittualità essenziale con la borghesia.
Il massacro di giugno aveva liberato l’intero proletariato europeo da ogni illusione di poter emanciparsi all’interno dell’ordinamento borghese, dalla rappresentazione ideologica della borghesia quale classe universalmente emancipatrice, da ogni ipocrita “fraternité”. Era diventato così una vera forza rivoluzionaria75.
«Al posto delle sue rivendicazioni, esagerate nella forma, nel contenuto meschine e persino ancora borghesi, e che esso voleva strappare come concessioni della repubblica di febbraio, subentrò l’ardita parola di lotta rivoluzionaria: Abbattimento della borghesia. Dittatura della classe operaia. […] Solo con la disfatta di giugno dunque sono state create le condizioni, entro le quali la Francia può prendere l’iniziativa della rivoluzione europea. Solo immergendosi nel sangue degli insorti di giugno il tricolore è diventato la bandiera della rivoluzione europea – la bandiera rossa. E il nostro grido è: La rivoluzione è morta! Viva la rivoluzione!» 76.
Nella crisi futura il proletariato sarebbe stato ormai pienamente consapevole che «c’è un solo mezzo per abbreviare, semplificare, concentrare l’agonia assassina della vecchia società e le doglie sanguinose della nuova società, un solo mezzo; il terrorismo rivoluzionario»77. La sua accresciuta potenza quantitativa e qualitativa gli avrebbe dato ben altra forza per resistere ai tentativi borghesi di frenare il movimento ascendente della rivoluzione78.
«Lo Stato borghese non sarà altro che una mutua assicurazione della classe borghese nei confronti sia dei singoli suoi membri che della classe sfruttata, un’assicurazione destinata a diventare sempre più dispendiosa e verosimilmente sempre più a sé stante rispetto alla società borghese, perché sempre più difficile sarà tenere a bada la classe degli sfruttati»79.
La progressiva crescita dell’antagonismo sociale rende l’apparato burocratico e militare di Stato un elemento sempre più necessario per il mantenimento della società borghese, ne impone una crescita e uno sviluppo continuo.
La radicalità delle crisi, la loro dimensione sempre più globale, la diminuzione degli strumenti per imporre la ripresa economica, le crescenti difficoltà ad estendere i mercati, il credito sempre più, instabile avrebbero quindi imposto alla borghesia con sempre maggiore necessità una gestione parsimoniosa dello Stato proprio mentre il suo bisogno della protezione statale sarebbe stato più urgente; gli spazi per le mediazioni e per i compromessi in funzione antipopolare sarebbero progressivamente diminuiti proprio mentre, d’altra parte, anche la strada rivoluzionaria sarebbe stata per la borghesia sempre meno praticabile80.
Le crisi cicliche del modo di produzione capitalista rendono quindi la borghesia sempre più impotente di fronte all’esplosione delle sue contraddizioni essenziali mentre insegnano parallelamente al proletariato come riuscire a spingere il movimento “ascendente” della rivoluzione fino alle sue estreme conseguenze. La rivoluzione sociale è sempre più all’ordine del giorno.
Questa nuova concezione dello sviluppo ciclico delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico diede a Marx una valida griglia interpretativa per poter trovare le risposte a quelle questioni che, alle soglie della rivoluzione, erano destinate a rimanere degli arcani.
La rivoluzione proletaria era o non era all’ordine del giorno in Francia81?
«Come gli operai credevano di emanciparsi accanto alla borghesia, così pensavano di potere compiere, accanto alle altre nazioni borghesi, una rivoluzione proletaria entro le pareti nazionali della Francia. Ma i rapporti di produzione francesi sono condizionati dal commercio estero della Francia, dalla sua posizione sul mercato mondiale e dalle leggi di questo. Come avrebbe potuto la Francia spezzare queste leggi senza una guerra rivoluzionaria sul continente europeo che si ripercotesse sul despota del mercato mondiale, sull’Inghilterra? Una classe nella quale si concentrano gli interessi rivoluzionari della società, non appena si è sollevata trova immediatamente nella sua stessa situazione il contenuto e il materiale della propria attività rivoluzionaria: abbattere i nemici, prendere misure imposte dalle necessità della lotta. Le conseguenze delle sue proprie azioni la spingono avanti. Essa non inizia indagini teoriche sui suoi compiti. La classe operaia francese non si trovava a questa altezza: essa era ancora incapace di fare la sua propria rivoluzione»82.
L’antica questione, centrale nel Manifesto, della corrispondenza tra il grado di sviluppo del capitalismo all’interno di una nazione e la conseguente strategia rivoluzionaria da adottare sembra avere ormai perso l’antica urgenza: l’ambito in cui si definiscono le condizioni oggettive per la rivoluzione proletaria, infatti, non è più la nazione, ma invece il contesto e la fisionomia peculiare di ogni congiuntura rivoluzionaria, in cui si decidono le sorti delle rivoluzioni nazionali83. Le nazioni più deboli infatti non sono vincolate solo economicamente, ma anche politicamente, dalle più forti: così, per comprendere la dinamica delle vicende tedesche del ’48, Marx era stato costretto ad analizzare la rivoluzione francese, il cui destino era stato però a sua volta deciso in Inghilterra.
Era stato infatti l’atteggiamento liberale della borghesia inglese, la sua battaglia per l’abolizione delle leggi sul grano, il segreto presupposto delle rivoluzioni politiche della primavera ’48 proprio come era stato il massacro dei Cartisti del dieci aprile, e non il giugno parigino, che aveva dato inizio alla controrivoluzione europea.
L’ingresso dell’Inghilterra nella congiuntura rivoluzionaria era quindi ormai per Marx il presupposto assolutamente necessario affinché la rivoluzione sociale potesse avere delle possibilità concrete di vittoria. Marx aveva erroneamente previsto questo debutto inglese nella congiuntura successiva che si sarebbe dovuta aprire tra il 1852 e il 185384.
Le rivoluzioni politiche seguono sempre un cammino inverso rispetto alla crisi economica: nascono sempre nelle zone periferiche, dove le deboli borghesie sono disarmate di fronte alla crisi, tendono però ad espandersi progressivamente verso il centro85. Se nel 1848 non erano riuscite ad oltrepassare la Manica e per questo erano state sconfitte, nella prossima crisi avrebbero invece raggiunto l’Inghilterra, trasformando l’iniziale analogia tra le due congiunture in una differenza assoluta86.
Per superare la crisi economica del 1845-1847 la borghesia inglese aveva utilizzato tutte le sue armi più classiche, aumentando enormemente le forze produttive, aprendo nuovi mercati e sfruttando più intensamente gli antichi. La chiusura dei canali tradizionali della speculazione europea inoltre l’aveva costretta sia ad investire quasi tutto il capitale disponibile nella produzione industriale, sia ad espandere la speculazione la verso i nuovi mercati oltreoceanici. Da tali tendenze Marx aveva dedotto il carattere eminentemente industriale e la dimensione ben più universale della futura crisi economica che avrebbe colpito il cuore stesso dell’economia capitalistica, l’industria inglese.
«Fra qualche mese la crisi sarà a un punto che non raggiungeva in Inghilterra dal 1846, forse dal 1842. Quando i suoi effetti cominceranno a farsi sentire appieno fra le classi lavoratrici, si risveglierà quel movimento politico che per sei anni ha sonnecchiato. I lavoratori inglesi insorgeranno di nuovo a minacciare le classi medie nel momento stesso in cui queste stanno finalmente cacciando dal potere l’aristocrazia. Sarà gettata la maschera che ha finora celato i veri lineamenti politici della Gran Bretagna. Allora i due veri partiti antagonisti del paese si ritroveranno faccia a faccia. la classe media e le classi lavoratrici, la borghesia e il proletariato, e l’Inghilterra sarà costretta in ultimo a condividere l’evoluzione sociale generale della società europea. […] D’ora in poi potrà difficilmente evitare i grandi sommovimenti interni che colpiscono le altre nazioni europee»87.
La borghesia, per poter conquistare la maggioranza parlamentare e amministrare direttamente lo Stato avrebbe rivendicato una riforma amministrativa per l’estensione del suffragio. Il proletariato, come sempre, suo naturale alleato contro l’aristocrazia fondiaria, avrebbe radicalizzato le rivendicazioni borghesi ed imposto il suffragio universale. Non ci sarebbe più stato spazio per i compromessi tra la borghesia industriale e l’aristocrazia fondiaria e si sarebbe aperta la congiuntura rivoluzionaria nella nazione che domina il mercato mondiale.
«Il suffragio universale è l’equivalente del potere politico per la classe operaia d’Inghilterra, dove il proletariato costituisce la larga maggioranza della popolazione, dove, attraverso una guerra civile lunga, anche se sotterranea, esso ha acquistato una chiara coscienza della sua situazione in quanto classe, e dove persino nei distretti rurali non ci sono più contadini, ma proprietari terrieri, imprenditori industriali (fittavoli) e mano d’opera salariata. In Inghilterra, conseguire il suffragio universale costituirebbe una misura di gran lunga più socialista di qualsiasi altra cosa che sia stata onorata con questo nome sul continente.
A questo punto, il suo risultato inevitabile è la supremazia politica della classe operaia»88.
Le rivoluzione politica, giungendo al cuore del modo di produzione capitalistico, si trasforma in rivoluzione sociale, aprendo così una nuova fase della congiuntura rivoluzionaria: la conquista del potere politico da parte del proletariato inglese, da un lato avrebbe sottratto alla controrivoluzione europea quella segreta forza che l’aveva resa vittoriosa nel ‘48, dall’altro avrebbe dato al proletariato europeo l’energia che finora gli era mancata.
La rivoluzione sociale avrebbe cominciato così il suo movimento peculiare, inverso rispetto alle rivoluzioni politiche: dal centro, estendendosi a macchia d’olio, avrebbe raggiunto le nazioni più deboli, sostenuto le forze rivoluzionarie, permettendo loro di “bruciare le tappe”, di andare oltre le possibilità offertegli dal grado di sviluppo economico nazionale, di accelerare il tempo storico col terrore rivoluzionario, di perpetrare la rivoluzione, di raggiungere infine quella dimensione universale in cui la rivoluzione sociale è vittoriosa89.
Questa prospettiva, sicuramente idilliaca, non voleva però certamente essere profetica.
È impossibile infatti definire a-priori l’esito delle congiunture perché è impossibile che si realizzino, al di fuori della congiuntura, le condizioni oggettive per la vittoria rivoluzionaria. Se infatti i presupposti della rivoluzione proletaria fossero semplicemente ricavabili dal grado di sviluppo quantitativo raggiunto dalle forze produttive ad un certo stadio del modo di produzione capitalistico, non si sarebbe ancora usciti dalla prospettiva “filosofica” del Manifesto.
Le condizioni oggettive della rivoluzione proletaria sono allo stesso tempo invece il presupposto e il risultato della congiuntura. Da un lato infatti lo sviluppo quantitativo delle forze produttive è il fondamento di ogni crisi economica, quindi di ogni congiuntura rivoluzionaria, e ne determina il grado di intensità; dall’altro però, all’interno della congiuntura stessa, la crisi è un processo che si sviluppa, si trasforma, si generalizza e si radicalizza o si ritrae lasciando lo spazio per la ripresa90.
L’abolizione delle leggi sul grano, la scoperta delle miniere d’oro californiane, l’immaturità del proletariato europeo, l’atteggiamento reazionario dei contadini e della piccola borghesia, la sospensione delle leggi bancarie di R. Peel. Nella congiuntura del ’48 i più disparati fattori, soggettivi ed oggettivi, avevano impedito la radicalizzazione della crisi e della congiuntura rivoluzionaria, favorendo la ripresa economica e la controrivoluzione.
Marx, quasi come volesse esorcizzare tale possibilità regressiva per il futuro, nei primi anni ’50 incominciò una spasmodica ricerca degli elementi che potessero fungere da “fattori di radicalizzazione” della crisi economica “imminente”, e che, tutelando la rivoluzione dalle pericolose derive “discendenti”, le avrebbero garantito la conquista di quella dimensione universale vittoriosa. Che si trattasse della politica inglese, della questione indiana, della guerra di Crimea, delle leggi di Sir R. Peel, dei cambiamenti dei tassi di interesse della Banca inglese o delle rivolte sociali in Cina, ogni questione particolare era affrontata sempre dalla medesima prospettiva: cercando di definirne il ruolo specifico che avrebbe potuto assumere nella futura crisi e la sua potenziale capacità di inibire la ripresa economica.
La relazione tra la vecchia Europa e gli Stati Uniti d’America è emblematica della duplice possibilità essenziale, sempre presente in ogni congiuntura rivoluzionaria: le possibilità espansive del capitalismo sono ben lungi dall’essersi esaurite; d’altronde la possibilità di una rivoluzione sociale è altrettanto attuale. Il futuro è aperto a molteplici possibilità ed è solo nella congiuntura rivoluzionaria che si decidono le sorti della lotta tra le capacità espansiva e metamorfica del capitalismo, che gli permette di uscire dalle crisi, e la forza espansiva, “ascendente”, accelerante, della rivoluzione91.
«Le miniere d’oro californiane sono state scoperte solo da diciotto mesi, e già gli yankees hanno avviato la costruzione di una ferrovia, di una grande strada e di una via d’acqua dal golfo del Messico, già esistono corse regolari di navi a vapore da New York a Chagres, da Panama a San Francisco, già il commercio dell’oceano Pacifico si concentra a Panama, e la rotta per capo Horn è ormai superata. Una costa di 30 gradi di latitudine, una delle zone più fertili e belle del mondo, finora praticamente disabitata, va trasformandosi a vista d’occhio in un paese ricco e civilizzato, densamente popolato da gente di tutte le razze, dallo yankee al cinese, dal negro all’indiano al malese, dal creolo al meticcio all’europeo. L’oro californiano si riversa a fiumi sull’America e sulla costa asiatica dell’oceano Pacifico e trascina gli indocili popoli barbarici nel commercio mondiale, nella civiltà. Quello che nell’antichità furono Tiro, Cartagine e Alessandria, per il medioevo Genova e Venezia e, sino ai giorni nostri, Londra e Liverpool, cioè empori del commercio mondiale, ora ben presto lo diventeranno New York e San Francisco, San Juan de Nicaragua e Leon, Chagres e Panama. Il fulcro del traffico mondiale – nel medioevo l’Italia, nell’epoca moderna l’Inghilterra – sarà ora la metà meridionale della penisola nordamericana. L’industria e il commercio della vecchia Europa debbono impegnarsi a fondo se non vogliono finire nella stessa decadenza toccata all’industria e al commercio italiani dal XVI secolo in poi, e se Inghilterra e Francia non vogliono ridursi a quello che oggi sono Venezia, Genova e Olanda […] Grazie all’oro californiano e all’instancabile energia degli yankees, presto ambedue le coste dell’oceano Pacifico saranno popolate, aperte al commercio e industrializzate quanto lo è attualmente la costa da Boston a New Orleans. Allora l’oceano Pacifico avrà la stessa funzione che ora ha l’oceano Atlantico, e che nel medioevo fu del Mediterraneo, la funzione cioè di grande via marittima del traffico mondiale; e l’oceano Atlantico si ridurrà al ruolo di mare interno, come è ora il Mediterraneo. L’unica possibilità, per i paesi europei civilizzati, di non cadere in quella dipendenza industriali, e commerciale e politica in cui ora si trovano l’Italia, la Spagna e il Portogallo, sta in una rivoluzione sociale che – finché si è in tempo – muti i sistemi di produzione e di trasporto secondo le necessità della produzione quali scaturiscono dalle moderne forze produttive nuove, che mantengano all’industria europea la sua superiorità compensando in tal modo gli svantaggi della posizione geografica»92.
Sebbene quindi progressivamente lo sviluppo capitalistico aumenti “tendenzialmente” le possibilità della vittoria rivoluzionaria, il pericolo di nuovi “fattori inibitori”, della ripresa economica, delle derive controrivoluzionarie, delle brame repressive borghesi è sempre in agguato93. «Aprés moi le déluge!»94: l’esplosione del fondamento contraddittorio del modo di produzione borghese apre uno spazio di incertezza storica e di molteplici possibilità, che si realizzano nel corso dello sviluppo della congiuntura, attraverso il dispiegamento e l’imprevedibile interazione di una pluralità di fattori eterogenei, sia soggettivi che oggettivi, che possono fungere da “inibitori” o da “radicalizzatori” della crisi e che non sono mai definibili a-priori95.
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