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 contraddizione

Il punto di vista della palla

Un mondo trasformabile guardando con meraviglia la realtà sociale

di Gianfranco Pala

“Proprio perché si è rimasti all’oscuro circa la natura della società umana,
ci troviamo ora di fronte alla possibilità di un totale annientamento del pianeta."

[Bertolt Brecht, Scritti teatrali, Einaudi, Torino (1957)]

bansky 3L’enorme differenza specifica marxiana rispetto al feticismo economico che l’ha preceduto – anche quello che si è fondato sull’eccedenza della produzione agricola <materiale nella natura> – sta precisamente, come si preciserà meglio fra poco, nel fatto che gli umani mutano insieme alla natura. Epperò – come dice Bertolt Brecht, qui da assumere in via generale [cfr. Scritti teatrali, Einaudi, Torino 1962 (vol. unico), giacché fu da lui formulato nei suoi riferimenti <particolari> al teatro epico di contro al tradizionale teatro drammatico convenzionale borghese] (per ulteriori considerazioni cfr. il §.5. la dialettica dell’intelligenza generale) – il marxismo della maniera materialistica fu da lui appreso direttamente da Marx e Engels, e si attaglia perfettamente a tutto il mondo reale, ossia al vero e proprio, ma malamente detto, <ambiente> in quanto “condizioni circostanti naturali” nel quale vivevano gli umani. “Questo mondo era senza dubbio già apparso in precedenza, ma non come elemento a sé stante, bensì soltanto nella prospettiva del personaggio centrale”. E codesto personaggio, perciò, assume il carattere dell’individuo – di qui ecco l’<individualismo metodologico> – attorno al quale deve ruotare, in sua escludente funzione, tutto il sistema rappresentato — un <ambiente> illusorio non si può modificare, è statico, morto, giacché l’unica azione vivificante è dell’umano, che opera al posto ma entro il mondo reale. Per l’individuo-che-conta (si pensi al capitalista che decide ogni cosa alle spalle dei produttori) non importa affatto l’oggettività reale ma soltanto ciò che lui soggettivamente percepisce [in una accezione di “percezione”, come si dirà, che non è quella etimologica latina derivata da per e capĕre, ossia “prendere conoscenza”, capire (ma anche materialmente prendere un oggetto, denaro in pagamento, salario o pensione, ecc.)]. Ciò riguarda, sì, anche il <teatro epico> di Brecht, ma di fatto si può e si deve riferire all’intera società. Del resto basta per ora solo aggiungere una semplice riflessione brechtiana sulla differenza fra il capire la realtà oggettiva o soltanto percepirne soggettivamente una sua rappresentazione individualistica, fra verità e verisimiglianza. “Gli umani sanno troppo poco di loro stessi ed è proprio a causa di tale ignoranza che traggono così scarso beneficio dalla loro conoscenza della natura. In effetti, le oppressioni, gli sfruttamenti mostruosi, i massacri bellici, le degradazioni pacifiche d’ogni genere di cui tanti umani sono vittime per opera di altri umani su tutto il pianeta, hanno già quasi acquisito un <qualcosa di naturale>”. Per suscitare certe emozioni e procurare certe esperienze, non si ha alcuna necessità di offrire riproduzioni fedeli del mondo, della vita e dei casi umani, poiché si consegue ugualmente il suo effetto anche fornendo “immagini del mondo difettose, ingannevoli e sorpassate”. Grazie all’illusione della suggestione che così si è in grado di esercitare, si può conferire una parvenza di verità anche alle affermazioni più assurde circa i rapporti umani; e la sua rappresentazione risulta tanto più incontrollabile quanto più è potente. “Così, alla logica si sostituisce il brio, alle argomentazioni l’eloquenza”.

In maniera analoga, ma differente, in séguito lo specificò in concetti marxisti anche lo stesso Brecht. “Fatti del “nostro ambiente” più immediato hanno per noi qualcosa di naturale, appunto perché usuale; lo straniarli serve a renderli inusitati. La tecnica della diffidenza di fronte ai fatti concreti “ovvi”, mai posti in dubbio, è una meditata conquista della scienza” [“e non vi è ragione – scrisse Brecht invertendo il paragone fra scienza e arte, che allora qui si può rimettere nel dritto senso partendo dalla concreta realtà materiale – perché l’arte non adotti questo atteggiamento utile quant’altri mai”; ma qui basta lasciare a Brecht il difficilissimo cómpito di tentare di far capire tale realtà materiale attraverso il teatro (dal momento che qui non ci si occupa specificamente di teatro ma della realtà sociale circostante, dalla cui storia, mutevole nel processo temporale, lo stesso Brecht ha materialmente preso le mosse) e tornare, del resto come ha sempre agito anche lui, a monte della rappresentazione mimetica della finzione teatrale, limitandosi perciò a sperare di rendere comprensibile ai comuni osservatóri il senso degli eventi che si verificano nella peculiare realtà sociale storica]. Si tende infatti a rendere impossibile per gli osservatóri capire ciò che sta accadendo, giacché si facilita la loro immedesimazione con i protagonisti delle presunte azioni o promesse attraverso <l’accettazione di ciò che questi fanno o dicono> – è la fede riposta nei dogmi del protagonista in questione! – e non nella “sfera cosciente” dell’osservatore. Quest’illusione [le <tecniche> menzognere e ingannevoli dell’illusionismo sono ben note a codesti <eroi-protagonisti-del-momento] attira e suggestiona gli osservatóri favorendo la loro identificazione con il protagonista del caso e un’intensa loro partecipazione dissennata. Entro questa profonda empatia si colloca l’osservatore che si immedesima a tal punto nelle vicende narrate da liberarsi dalle passioni che custodisce in sé. Le situazioni che offrono un simile quadro sono moltissime, in tutti i paesi del mondo (dalla politica agli spettacoli musicali, televisivi, sportivi, ecc. c’è un’amplissima possibilità di scegliere il protagonista <eroe> di turno, più o meno caduco secondo le circostanze e le mode) ma per circoscrivere il presente contesto può bastare limitarsi ai casi che riguardano l’Italia — si può andare da Mussolini a Craxi a Berlusconi a Renzi, da Bartali a Coppi, dai Rolling Stones ai Beatles, da Maradona a Totti, e via idolatrando, giacché il succo è sostanzialmente lo stesso.

È bene lasciare perciò ad altri il cómpito specifico di trattare delle rappresentazioni <teatrali> ecc.; il teatro è soltanto una delle manifestazioni <mimetiche>, di imitazione, e in tale prospettiva occorre considerare l’impossibilità di una erudizione esaustiva, realizzabile soltanto attraverso la finzione che separa un passato conoscibile da un presente fatale o troppo complesso. Oggi – nel momento in cui il modo di produzione capitalistico di fatto tende a includere tutto il mondo – c’è la necessità di comprendere altre tradizioni di pensiero, a partire da alcune civiltà arcaiche, sia <sconfitte> o pure marginalizzate o geograficamente lontane, ma ormai immerse nella stessa storia comune. Alcune <verità del passato>, che paiono <nuove> sono invece proprio quelle che riguardano i grandi retaggi teorici dei greci e di Hegel; che hanno sviluppato la propria forza nonostante l’interpretazione riduttiva di cui sono state oggetto, appiattite sull’<idea della mimesi come banale imitazione e dunque come altro dalla verità>. Tuttavia è proprio qui che la <mimesi> impiegata nel teatro insegna – ben al di là dello specifico teatrale, quindi nella attività reale del <corpo collettivo della comunità umana> per la trasformazione ragionata della natura, ereditata in tale forma dal marxismo – a ricomporre la conoscenza da esprimere in quanto necessità fondamentale, e a concentrarsi sul presente come fase della storia. Si impongono nuovi modi di pensare riguardanti codesta totalità che siano capaci di una comunicazione che faccia convergere la <percezione>(nel senso proprio anzidetto, di poter capire con l’intelletto soltanto) e la <consapevolezza> (da far pervenire con la ragione della mente alla coscienza) in maniera che tale processo aiuti a decidere il divenire anziché subire il destino tracciato dal pregiudizio. Ciò può avvenire ancorché la tradizione di pensiero iniziata con i greci, la cui verità testuale d’origine sembrava destinata a rimanere ineffabile, si è depositata in una storia semplificata per asservirla ai <modelli di sviluppo culturale> succedutisi da allora a oggi.

Senonché una corretta mimesi è da rifare in ogni tempo e in ogni mondo, poiché – come si è cominciato ad accennare, e come si preciserà tra poco, in relazione all’attività di Brecht relativa al suo “rimbalzo” proposto con il <ritorno dal teatro alla realtà sociale> – si vede come oggi la questione si riproponga urgentemente. Anche un’attività fondamentalmente culturale e <spirituale>, spesso pure in forma ludica, parte dalla realtà oggettiva materiale che ne sta alla base; ed è questa connessione che qui si vuole sottolineare con forza per non restare preda dell’ipocrisia perbenista, un’idolatria <romanticamente> decadente — unica forma in cui è stata trasposta, come si sottolineerà, anche l’eredità classica a partire dal xviii sec. con la privatizzazione mercantile dei teatri (mentre la tradizione classica greca, era ancora concettualmente viva e praticata nel teatro shakespeariano). Anche il teatro antico greco, proprio per il suo carattere collettivo, aveva rilevanza sociale ed era, considerato uno strumento di educazione nell’interesse della comunità; la rappresentazione teatrale tramite i personaggi in azione doveva suscitare pietà, paura e terrore nell’osservatore per attrarlo, e dunque non era soltanto uno spettacolo, ma era rivolto a sviluppava le idee sui problemi della vita politica ed educativa, epperò adattandosi ai cambiamenti politici, culturali e sociali—il <mito> attraverso la parola e il racconto del passato epico [così appunto etimologicamente] diventa metafora definita dalla modalità di un racconto distaccato.

L’attenzione alla dimensione grottesca è parte integrante della rappresentazione delle cose importanti. Scriveva con fermezza proprio Brecht a nome di Me-ti, dell’umorismo che “ci sono persone che non possono ridere di cose serie. Non bisogna fargliene carico, ma nemmeno bisogna lasciarsi proibire di ridere di cose serie. Si può parlare di cose serie in tono faceto e in tono serio, di cose facete in tono faceto e in tono serio. Per le persone prive di umorismo è generalmente più difficile capire il Grande Metodo” [così in <Me-ti> si appellava la dialettica]. Capire questo costituisce perciò un <superamento dialettico> del rabbassamento alla banalità del comico, con cui Hegel chiude l’Estetica, giacché ogni <rappresentazione> è invece una parvenza necessaria, della realtà, attraverso la quale si può sviluppare l’aspetto critico dell’ironia per prospettare invece una <centralità del riflettere ridendo> fondato sulla povertà, ossia sulla coerenza dei mezzi con i fini. A tale scopo è anche proficuo rammentare quanto scrisse lo stesso Brecth riferito con straordinaria precisione a proposito dell’“umorismo di Hegel” [cfr. Dialoghi di profughi (Finlandia, 1941)]. “Quando si parla di umorismo, io penso sempre al filosofo Hegel. Il suo libro La grande logica lo lessi una volta che avevo i reumatismi e non potevo muovermi. È una delle più grandi opere <umoristiche> della letteratura mondiale. Tratta della maniera di vivere dei concetti, queste esistenze scivolose, instabili, irresponsabili; come s’insultano l’un l’altro e fan la lotta a coltello e poi si siedono a tavola insieme per la cena, come non fosse successo niente. Essi compaiono, per così dire, a coppie, ciascuno sposato col suo contrario, e le loro faccende le sbrigano in coppia, cioè firmano contratti in coppia, fanno processi in coppia, organizzano irruzioni e scassi in coppia, scrivono libri e fanno dichiarazioni giurate in coppia, e cioè come coppia completamente in disaccordo su ogni cosa. Ciò che afferma l’ordine, lo confuta subito, possibilmente nello stesso momento, il disordine, suo compagno inseparabile. Non possono vivere l’uno senza l’altro, né l’uno con l’altro. Lo spirito, l’ironia di una cosa lui lo chiama la dialettica. Come tutti i grandi umoristi, egli diceva tutto con la faccia più seria di questo mondo. I più grandi sovversivi si definiscono allievi del più grande sostenitore dello stato! Tra parentesi, questo testimonia in favore del loro umorismo. Difatti, non ho mai visto un umano privo di umorismo che capisse la dialettica di Hegel”.

Ora, il raffronto è fatto da Brecht tra rappresentazione del teatro borghese (<drammatico>), moderno, mercantile\capitalistico post settecentesco, che si esprime come luogo della finzione e della menzogna con il fine di trascinare lo spettatore in una <falsa realtà>, in contrapposizione alla concezione critica del teatro rivoluzionario (<epico>), che ritrova lo spirito della stupefacente grandiosità antica in forma contemporanea. Nella sua raffigurazione dominante borghese – così come accade rispetto all’idolatria della natura, da loro detta <ambiente> – non è che natura, condizioni esterne, circostanze [Umstände, v.dopo] ecc. siano viste come immutabili rispetto ai protagonisti, ma è che quelle, sia nella loro stasi sia nei loro cambiamenti sono sempre e comunque considerate in funzione soggettiva dei protagonisti, attraverso la permanente ricerca di affinità tra il mondo interiore del personaggio e quello della figura di primo piano. Ciò si basa sull’<esterna­zione delle sue emozioni interiori> attraverso la sua scelta di comunicazione, per stimolare le emozioni da suscitare negli osservatóri destinatari del messaggio, curandone tutti gli elementi sensibili all’illusionismo da trasmettere: questo è il metodo dominante che implica la passività ricettiva in massa dei destinatari, detto sistema dell’immedesimazione [pratica seguita in epoca moderna dall’attore russo Stanislavskij [indicata dal termine pereživani la cui esatta traduzione è <reviviscenza>, in perfetta consonanza con la personificazione che permette al protagonista di far propria l’emozione del personaggio]. Ma rispetto all’immedesimazione degli osservatóri, che nelle “comunità antiche” erano tutti i destinatari chiamati in massa a prendere coscienza, il sistema Stanislavskij [e seguaci nel campo cinematografico] agisce in qualche maniera su una <doppia immedesimazione>, perché è <prima di tutto> richiesto al protagonista di immedesimarsi nel personaggio, affinché di conseguenza gli osservatóri siano <poi> indotti a seguire quel protagonista <calato> nel personaggio —— cosicché essi non possano più <scegliere> questo o quell’altro protagonista <eroe> di turno (si ricordi quanto illustrato prima per i casi limitati all’Italia).

Il criterio opposto all’immedesimazione dell’epoca attuale risale appunto a Bertolt Brecht, che invece ha basato la capacità comunicativa sullo <straniamento> [da befremden: meravigliare, stupire]; cioè non volendo che qualsivoglia persona che rappresenti la storia in questione si immedesimi nel personaggio, ma rimanga estraneo, <straniato> e lo osservi, descriva e racconti dall’esterno: in termini “oggettivi”; domandandosi e anche criticando il personaggio interpretato; cosicché, interrogandosi sulla verità delle figure in campo, si possa fare esperienza sia della transitorietà sia della finzione con cui è raggirata la verità. L’evento è rappresentato in maniera <naturalistica> con una partecipazione totale degli osservatóri che divengono così i destinatari attivi (e non più passivi); quindi la capacità comunicativa straniata non riguarda in primo luogo l’<imitazione teatrale>, ma procede a uno sviluppo collettivo a livello culturale e sociale; la forma epica (anche quella teatrale) è, di conseguenza, esplicitamente politica, in quanto ogni suo elemento è pensato a fini politici, non solo per il contenuto specifico di propaganda. Si riferisce precisamente alla società in quanto comunità effettiva poiché mette di nuovo tutti gli osservatóri di fronte alla verità della realtà sociale, al contempo svelando i suoi inganni. In quest’ottica è un grande abbaglio dire che sia il protagonista a diventare <se stesso nell’altro>.

I teorici teatrali come Erwin Piscator e Bertolt Brecht, possono essere ricordati come i padri della nuova forma teatrale. Il teatro epico fu anzi lo sviluppo di quello espressionista, ma invece di <turbare> il pubblico come faceva quello, lo voleva indurre al ragionamento attivo. La forma epica si basa sul cosiddetto, definito appunto da Brecht, effetto di straniamento che è diametralmente opposta a quella convenzionale che si prefigge l’<immedesimazione> nello stesso modo in cui se ne servirebbe qualsiasi persona priva di predisposizioni drammatiche per imitare [<mimare>] un’altra persona. L’importante è sollecitare gli osservatóri alla critica del personaggio, scegliendo un punto di vista sociale e rendendo per tale scelta evidenti quegli elementi che rientrano nel campo d’azione della società. Così anche l’<arte> diviene un colloquio con le masse popolari degli osservatóri ai quali ci si rivolge, inducendoli a esaminare le condizioni reali, a seconda della classe sociale cui si appartiene. Bertolt Brecht disse: “Il pregio principale del teatro epico, basato sullo straniamento, il cui scopo è rappresentare il mondo in maniera che divenga maneggevole, è precisamente la sua naturalezza, il suo carattere tutto <terrestre>, il suo umorismo, la sua rinuncia a tutte le incrostazioni mistiche che il teatro tradizionale si porta appresso fin dall’anti­chità”. Tali idee, diametralmente opposte a quelle di Stanislavskij costarono a Mejerchoŀd la vita per le accuse di mancato rispetto del <realismo socialista> in Russia; la stampa il 17 dicembre 1937 lo attaccò violentemente, i suoi spettacoli vennero vietati e fu sospeso il suo progetto. Il 20 giugno 1939 fu arrestato con l’imputazione di essere ostile alla società sovietica e, sotto tortura, gli furono estorte dichiarazioni in cui si dichiarava <militante antirivoluzionario e trotzkijsta>: il 1º febbraio 1940 venne condannato a morte e la sentenza fu eseguita il giorno successivo mediante fucilazione. Per loro ventura Brecht e Piscator, essendo rivoluzionari tedeschi, scamparono alla fucilazione.

Per capire come il rivoluzionario <teatro> epico debba essere considerato per ciò che vada ben oltre alla messa in scena, ossia piuttosto per il fatto che l’essere modernamente e <naturalmente> “epico” si riferisce all’intera <comunità sociale>. Lo stesso Brecht – riferendosi a Galileo nel suo capolavoro teatrale – gli riconobbe il ruolo contraddittorio (in quanto perseguitato e minacciato di morte dalla ... <santa> Inquisizione gesuita della chiesa cattolica se non avesse “abiurato”) dello <scienziato che trasforma, rovesciandola, la visione dominante del mondo>. “Proprio perché si è rimasti all’oscuro circa la natura della società umana, ci troviamo ora di fronte alla possibilità di un totale annientamento del pianeta. Si lavori a trasformare il mondo. Se ci si mette dal <punto di vista della palla>, è evidente che le leggi del moto diventano inconcepibili” [Bertolt Brecht, Scritti teatrali , cit.]. Definiva questi “processi contraddittori, come cordiale contributo alle discussioni”, muovendo però dal presupposto che “il mondo d’oggi può essere visto come un mondo trasformabile, “purché” si sappia che la condizione che sia possibile una descrizione del mondo è un problema di ordine sociale”. <In tal modo, guardando con meraviglia la realtà sociale come se non la si capisse, si può poi scoprirne le leggi>, come fece Galileo con “occhio estraneo”, meravigliando gli osservatóri con un procedimento che “stranì ciò che invece appare come familiare” [ivi].

Si può leggere, in un’appendice del Capitale, un commento russo al libro di Marx: “Il Capitale è stato poco compreso, come mostrano già le interpretazioni contraddittorie che se ne sono date... E, si dirà, le leggi generali della vita economica sono uniche e sempre le stesse; ed è del tutto <indifferente> se si applicano al presente o al passato. “Marx nega proprio questo. Per lui tali leggi astratte non esistono. Per lui ogni periodo storico ha le sue leggi proprie. Appena la vita ha superato un periodo determinato dello sviluppo, appena la vita passa da uno stadio dato a un altro, comincia anche a essere retta da altre leggi. In breve, la vita economica ci offre un fenomeno analogo a quello della storia dello sviluppo negli altri settori della biologia. I vecchi economisti, confrontando le leggi economiche con le leggi della fisica e della chimica, mostravano di non averne capito la natura. Un’analisi più profonda dei fenomeni ha dimostrato che la distinzione tra i vari organismi sociali è altrettanto fondamentale di quella tra gli organismi vegetali e gli organismi animali”. [c, poscritto 1873 ii ed., (da Viestnik Evropy – Il messaggero europeo, Pietroburgo)]. In verità, dunque, è proprio diversa la logica dialettica – rispetto a un anodino dualismo, o pure ancor più piattamente <dialogo> – la quale dialettica opera da sempre e a fondo nella storia umana che non è soggettiva e men che meno dipendente dal singolo [“seconda natura” – in effetti chiama G.W.F.Hegel l’azione del lavoro umano collettivo, cioè non in quanto opera del singolo – che sia adeguata allo sviluppo della ragione per una trasformazione della “prima”, ma tale trasformazione ancora appare quasi <assolutamente naturale>, non determinata in limiti storicistici (qui basta il citato postulato fondamentale anticreazionista di Lavoisier)]. Appunto – come hanno insegnato Marx e Engels e da loro ha appreso Brecht – si trasforma anche la natura insieme agli umani che lavorano, e reciprocamente; non è vero perciò che la natura non cambi, ma nemmeno che al più si plasmi soltanto per soddisfare i cosiddetti <nuovi bisogni> della “società civile”, ovverosia “borghese”.

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