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ilcovile

I misteri della sinistra per Michéa e Bordiga

di  Armando Ermini

13901OP944AU30294 600x581In questo numero proponiamo la recensione del bel libro di Jean Claude Michéa, I misteri della sinistra, insieme ad uno scritto di Amadeo Bordiga del 1922. Michéa racconta le tappe storiche della deriva culturale della sinistra e della sua progressiva subordinazione a una visione del mondo, quella borghese, estranea ai motivi ispiratori del socialismo delle origini, che aveva invece forti accenti comunitaristi. Discutendo delle cause di quella deriva, lo studioso francese arriva alla conclusione che il termine sinistra non è piú spendibile per un progetto politico di uscita dal capitalismo liberale.

 Di Amadeo Bordiga, fondatore del PCd’I, proponiamo invece un testo del 1922 sulla massoneria e la sua infiltrazione nel movimento socialista.

Secondo Bordiga — ed è una tesi storiografica curiosamente dimenticata — fu proprio il controllo della massoneria sul movimento operaio che permise di coinvolgerlo, contro i suoi interessi, nell’Union sacrée contro l’Austria, ultimo residuo del Sacro Romano Impero.

Non abbiamo elementi per avvalorare o smentire l’ipotesi bordighiana. Possiamo solo dire che Bordiga in quegli anni poteva vedere questi fenomeni da posizione privilegiata. D’altra parte, l’analisi delle concezioni culturali e antropologiche della sinistra attuale, compresa quella antagonista, non può non rivelarne l’affinità con quelle liberalmassoniche.

In ogni caso crediamo esistano motivi di riflessione e domande aperte ben oltre il giudizio sulla validità dell’ipotesi di Bordiga: cosa ha intravisto la massoneria in parte del movimento operaio e socialista, che le abbia fatto pensare di potersene servire? Perché quei partiti si sono mostrati permeabili a quelle infiltrazioni?

 La risposta a queste domande può contribuire anche a far meglio comprendere la natura e il senso di alcune concezioni teoriche e filosofiche, che si rivelano per ciò che effettivamente rappresentano solo a confronto con la realtà dei fatti, contribuendo quindi a svelare quei misteri a cui allude Michéa.

* * *

Esordisco dicendo subito che il titolo del libro non mi sembra azzeccatissimo perché quei misteri a cui allude, in realtà non sono tali; o almeno lo sono ancora solo per chi tuttora si rifiuta di guardare la realtà, romanticamente ancorato a miti formatisi nei secoli XIX e XX ma che oggi si mostrano in luce affatto diversa. Già oltre quarant’anni fa, il filosofo cattolico Augusto Del Noce aveva lucidamente previsto l’ineluttabile deriva dei Partiti Comunisti occidentali in partiti radicali di massa, tesi sviluppata analizzando i presupposti filosofici del marxismo stesso; essi — sosteneva — se gli consentivano una critica spietata e veritiera della società borghese, tuttavia gli inibivano completamente quella che definiva la pars construens, ovverosia la capacità di costruire concretamente una forma sociale che rappresentasse per davvero quel comunismo che Marx pensava fosse lo sbocco inevitabile delle crisi rivoluzionarie, sia pure dopo fasi intermedie di transizione (il socialismo e la dittatura del proletariato). Forse si può rimproverare a Del Noce una lettura di Marx affine a quella dominante del marxismo degli epigoni, invariata in sostanza fin dai tempi della Seconda internazionale ad oggi; forse anch’egli trascurò il Marx antimoderno dei Manoscritti, dei Grundrisse e del Capitolo VI inedito dal quale, come abbiamo cercato di far emergere in Marxisti antimoderni,1 sarebbero potute scaturire analisi teoriche e prassi politiche distanti da quelle che hanno portato agli esiti attuali; forse all’epoca in cui scriveva non era ancora evidente come oggi che è sbagliata l’equivalenza fra capitale e valori borghesi, e che borghesia e proletariato, le classi principali del modo di produzione capitalistico, avrebbero entrambe perduto la capacità di elaborare proprie autonome Weltanschauung introiettando canoni culturali omologhi, rimane il fatto che la sua previsione fu quanto mai esatta, anzi addirittura riduttiva agli occhi di oggi. Diciamo anche, a onor del vero e come abbiamo dato atto a piú riprese sul Covile, che nell’ambito dello stesso mondo marxista sono nate correnti e aree culturali che hanno tentato, e tuttora tentano con esiti alterni, ma con ben poca influenza politica pratica, di svincolarsi dall’epitaffio che Mario Tronti ha posto sulla pietra tombale della sinistra reale cosí come andata evolvendo nel tempo «Non si può essere piú moderni del capitalismo».

Il rapporto fra sinistra e modernità, è il fulcro su cui ruota il libro di Michéa, e la sua conclusione, che mi sembra pienamente valida, è che, se lo scopo è quello di «riunire il popolo attorno ad un programma di uscita dal capitalismo» in favore di una società socialista o, riprendendo Orwell, semplicemente decente, il «nome di sinistra non sia oggi davvero piú in grado di svolgere in maniera efficace questa funzione». Che però per lo stesso Michéa non si tratti di un mistero lo possiamo scoprire fin dalle prime pagine del libro, quando sottolinea che né Marx né Engels, si sono mai definiti uomini di sinistra, e che lo stesso valeva non solo per i primi movimenti operai di estrazione socialista o anarchica, ma anche per lo stesso PCF «nel suo periodo piú rivoluzionario» (a cavallo fra gli anni venti e trenta del XX secolo). Affermazioni come queste oggi sembrano sorprendenti, e lo sono veramente nella misura in cui a) non conosciamo piú la vera storia del termine sinistra e del come si è affermato mondialmente, e b) che nell’immaginario collettivo, e su suo stesso impulso, sinistra viene indissolubilmente legata al termine progresso.

Nel gergo parlamentare francese della metà del XIX secolo, per «destra» si intendevano i settori politici rappresentanti gli interessi dell’aristocrazia terriera e della gerarchia cattolica che occupavano quel settore del parlamento, mentre la «sinistra» era

il punto di adesione politica delle diverse porzioni della classe media […] dalla grande borghesia industriale e liberale […] fino alla piccola borghesia repubblicana e radicale ancora molto segnata, all’epoca, dalla tradizione giacobina,

mentre il movimento operaio e socialista, antifeudale e anticapitalista, mantenne ancora a lungo la sua indipendenza politica e organizzativa. Michéa sottolinea anche che le due repressioni di classe piú feroci del XIX secolo sono state opera diretta, nei moti del 1848 e nel maggio 1871 (i giorni della Comune), non dei monarchici reazionari bensí dei governi liberali e repubblicani, quindi di sinistra, benché ovviamente appoggiati anche dai primi. È solo nel quadro dell’affaire Dreyfus, di fronte al pericolo di un colpo di Stato della destra monarchica e clericale, che le organizzazioni parlamentari socialiste, con l’eccezione dei sindacalisti rivoluzionari, negozieranno un compromesso di «difesa repubblicana» coi liberali, i repubblicani e i radicali; compromesso che doveva essere provvisorio ma che invece segnerà, dice Michéa, il vero atto di nascita della sinistra moderna e, poco a poco, del suo inserimento definitivo nel campo del Progresso, però sotto l’egemonia intellettuale dell’allora Partito Radicale, e quindi sotto il segno dell’Illuminismo.

Senza l’esistenza di quel patto d’integrazione progressiva del movimento operaio socialista nella Sinistra borghese e repubblicana — prosegue Michéa — […] sarebbe impossibile capire il significato particolare che la parola sinistra avrebbe poi avuto nel corso di tutto il XX secolo.

La domanda che pone Michéa è se la «conversione affrettata della sinistra degli anni Settanta al liberalismo economico, politico e culturale» sia stata un «puro e semplice incidente della storia», quindi recuperabile, oppure «la conclusione logica di un lungo processo storico la cui matrice si trovava già scritta» in quel compromesso. La sua risposta, inequivoca, è che il maggior operatore filosofico che ha consentito quello slittamento fino a diventare il «marchio identitario dalle proprietà quasi religiose» della sinistra attuale, è la «metafisica del Progresso» insieme al «Senso della Storia», ossia lo «zoccolo duro di tutte le concezioni borghesi del mondo». È questo il codice sorgente della sinistra originaria che, ritradotto in forma scientista e positivista, ha caratterizzato il marxismo della Seconda internazionale, con la conseguenza di spingere nell’oblio le riflessioni di Marx legate alla scoperta degli studi antropologici di Georg Maurer e Lewis Morgan, ed all’incontro coi populisti russi.

Se per i liberali il capitalismo segna la fine della storia nel senso che si tratterà solo di migliorarlo, per il marxismo della Seconda internazionale (ed anche oggi) il metodo di produzione capitalistico costituisce comunque una tappa storicamente necessaria, quindi oggettivamente progressiva, tra il feudalesimo e il comunismo. È uno dei due postulati metafisici della sinistra, l’altro essendo costituito, questa volta in accordo con Marx ed Engels, dalla grande industria come unico modello organizzativo anche della futura società comunista dell’abbondanza, in cui quindi non avrebbero potuto trovare alcuna funzione «né l’artigianato, né la piccola imprenditoria, né l’agricoltura contadina».

Tali postulati hanno tre gravi conseguenze politiche. In sintesi, 1) la svalutazione delle classi medie tradizionali, bollate come reazionarie nonostante che i loro valori (amore per la terra o senso del mestiere) fossero incompatibili con l’utilitarismo liberale. Il risultato è stato di spingerle verso la destra conservatrice o verso il fascismo o il nazismo. 2) La perdita di consapevolezza che l’economia capitalistica non ha mai avuto come scopo la produzione di valori d’uso, beni atti a soddisfare bisogni umani reali, bensí valori di scambio. È comprensibile che ciò non fosse ancora evidente ai tempi di Marx. Ma con l’avvento della società dei consumi, allorché il capitalismo, per superare le ricorrenti crisi dei mercati, deve diventare primariamente una fabbrica di pseudo-bisogni soddisfatti con beni ad obsolescenza programmata, il fenomeno diventa evidente, tranne che, scrive, «per un Badiou o un Negri» e, ad ancora maggiore ragione, per un Deleuze o un Guattari. Il mito della crescita infinita, assurdo in un mondo dalle risorse naturali limitate, diventa il mascheramento, Michéa lo definisce «il prestanome mediatico», dell’accumulo illimitato di capitale. 3) La terza conseguenza dell’ideologia positivista del progresso è che, presto o tardi, avrebbe portato alla «progressiva dissoluzione dell’ideale socialista di una società senza classi» a favore (Michéa cita Debord di La società dello spettacolo, tesi 92), di una «ideologia della pura libertà che rende tutto uguale e che scarta qualunque idea di male storico». La fede della sinistra

nell’esistenza di di un movimento storico provvidenziale — e irreversibile — che aprirebbe pian piano al genere umano tutte le porte di un futuro radioso,

implica anche la svalutazione come piú o meno barbare di tutte le civiltà che hanno preceduto la nostra. Da qui, l’ossessione per la decostruzione di «tutte le tracce e tutte le radici» da cui la «continua esortazione degli individui e dei popoli a fare tabula rasa del loro ingombrante passato». Da qui il fatto che

la sinistra ufficiale è gradualmente arrivata a trovare i propri connotati simbolici privilegiati nel «matrimonio per tutti», nella legalizzazione della cannabis e nella costruzione di un’Europa sostanzialmente commerciale;

da qui il fatto che per un militante di sinistra

è psicologicamente impossibile ammettere che, in qualunque campo, le cose potessero andare meglio prima;

da qui anche il misconoscimento del fatto che il movimento socialista delle origini, se rifiutava coi liberali sia la società castale e aristocratica, sia la comunità agraria fondata sulla differenza di nascita, sulla famiglia patriarcale e sul dominio di un potere guerresco e religioso, tuttavia non intendeva affatto rimettere in questione gli aspetti comunitari delle società antiche, come invece intendevano fare i liberali, tanto che il termine socialismo fu «introdotto da Pierre Leroux, proprio per opporsi a quello di individualismo».

L’appiattimento sul liberalismo e sui diritti individuali, e la mistica del progresso, inducono la sinistra a classificare come reazionarismo e oscurantismo destrorso ogni resistenza alla dissoluzione degli antichi stili di vita, e le impedisce di riconoscere la complessità del pensiero conservatore, nonché le contraddizioni di cui è intessuto. Esistevano certamente, sostiene Michéa, settori esplicitamente reazionari che puntavano al ristabilimento dell’Ancien Regime e dei privilegi di cui era portatore, ed esistono tuttora ampi ambienti di destra che si fanno schermo della fedeltà ai valori tradizionali, peraltro da loro stessi traditi di frequente, per non cedere i consueti privilegi. Tuttavia il mondo antico non era unificato ed omogeneo, ed anche il pensiero di destra è piú complesso e articolato della rappresentazione che ne offre una sinistra che ha introiettato i dogmi ideologici del liberalismo.

Sotto le sue strutture monarchiche centralizzate (e santificate dalla Chiesa), il sistema feudale contribuiva infatti a mantenere interi pezzi di vita comunitaria — e di autonomia locale — che il principio di eguaglianza continuava a irrigare in profondità.

Ne erano esempi di diritti consuetudinari di «compascolo» e di «passaggio», che consentivano ai contadini piú poveri (la maggioranza) «di nutrire il loro bestiame sulle terre comuni e private del villaggio».

Solo la pressione ideologica degli economisti liberali poté presentare questi aspetti comunitari come «usanze barbare che hanno potuto esistere unicamente in secoli d’ignoranza» (Ethis de Noveant, 1767). Per la borghesia in ascesa ogni limitazione al diritto di proprietà, fosse essa costituita dai diritti signorili come da quelli collettivi, era da spazzare via come segno di governo feudale, e un pensatore marxista come C. B. Macpherson ha riconosciuto la «sorprendente complessità politica» di un autore conservatore e tradizionalista come Edmund Burke alla fine del XVIII secolo. Ciò non significa certo che pensiero conservatore e socialista siano identici o sovrapponibili, ma che le istanze comunitarie dei primi socialisti trovavano ad esempio un’eco — sostiene Michéa — nei Tories inglesi o nella destra tradizionalista francese. È lo stesso Marx a riconoscerlo, quando, dopo la scoperta di Lewis Morgan, riflette sulle forme piú arcaiche di proprietà comunitaria che avrebbero potuto evolversi in forme superiori moderne senza passare attraverso le forche caudine del capitalismo. Là dove tali forme fossero ancora presenti, come nelle comunità rurali in Russia, dice Marx, il passaggio attraverso il capitalismo significherebbe infatti privatizzare ciò che è già comune.

Sono stati gli studi di Marcel Mauss, di Karl Polany e di Marshall Sahlins, che hanno dato maggiore sostanza concettuale (e storica) alle intuizioni dei primi socialisti contrari al liberalismo. Mentre la

logica del dono (il triplo obbligo antichissimo di dare, ricevere e ricambiare) costituiva, dai tempi piú remoti, la trama basilare del legame sociale (sotto forme simboliche naturalmente molto varie — alcune egualitarie e altre no […], la logica liberale porta distruggere qualunque comunità umana (dalla tribú alla nazione, passando per il villaggio e il quartiere) attraverso l’intenzione di «farla entrare nella modernità» e di introdurvi la «libertà» e i «diritti dell’uomo».

Il processo liberale di modernizzazione/emancipazione in senso individualistico e atomistico, rimpiazza cosí il progetto socialista di abolizione progressiva dei soli legami sociali fondati sullo sfruttamento, «con l’unico aberrante progetto di farla finita col legame sociale stesso», il che rende plausibile la guerra di tutti contro tutti

che è la verità ultima del diritto «ugualitario» di tutti su tutto e della situazione di concorrenza generalizzata che ne è l’ineluttabile conseguenza.

È sbagliata, quindi, per Michéa, la distinzione fra liberalismo economico e liberalismo culturale. Esiste fra di essi una stretta unità filosofica, che si fonda sul concetto di individuo astratto, un a-priori slegato da qualsiasi appartenenza concreta, etnica, culturale, spaziale, comunitaria, familiare: insomma il Robinson di Defoe elevato a modello umano universale che invece rispecchia la concezione borghese. Non ha senso, perciò, coniare termini quali neoliberalismo, liberismo o neoliberismo, cari alla sinistra moderna, per contrapporli al liberalismo. O meglio, si tratta di un’operazione atta a «cancellare qualunque traccia di una relazione pericolosa tra il liberalismo di Adam Smith e il liberalismo reale».

Il liberalismo economico (che pretende l’abolizione da parte dello Stato di tutti i limiti all’espansione, considerata naturale, del mercato e della concorrenza) e il liberalismo culturale (che pretende l’abolizione da parte dello Stato di tutti i limiti allo sviluppo— ritenuto naturale — dei diritti dell’individui e delle minoranze), sono, da un punto di vista filosofico, logicamente indissociabili,

quantunque lo possano essere di fatto, ma in via transitoria. Se l’essenza del liberalismo economico consiste nel diritto individuale di «produrre, vendere e comprare tutto quello che è suscettibile di essere prodotto e venduto»,2 allora è improponibile ogni limite imposto in nome di una morale, di una filosofia o di una religione (che per i liberali sono preferenze private che devono rimanere ai margini della vita pubblica), perché distruggerebbe «le fondamenta stesse del libero scambio». Il liberalismo culturale cosí caro alle sinistre (anche e soprattutto quelle cosí dette antagoniste, aggiungo) è dunque soltanto il

complemento filosofico suscettibile di giustificare nella sua interezza il movimento storico che porta senza sosta il mercato capitalista ad invadere tutte le sfere dell’esistenza umana, comprese le piú intime.

Insomma, il potere ha appaltato alla sinistra — utili idioti, diremmo — proprio quel liberalismo culturale che gli serve alla perfezione per poter presentare come ovvio e naturale quello economico.

Se questo è l’approdo sistemico dell’assunzione da parte della sinistra dei canoni culturali del liberalismo, ne discende strettamente e logicamente la conseguenza che, qualsiasi siano le motivazioni delle lotte per i cosí detti diritti civili, sempre esse hanno come esito il rafforzamento e non l’indebolimento del capitalismo. Il che è normale per la sinistra cosí detta moderata, che considerando il capitalismo liberale come lo sbocco definitivo della storia, quindi solo migliorabile, non può che gioire delle vittorie «progressiste» e di libertà (sempre individuale, naturalmente, avendo escluso o messo in secondo ordine come derivazione necessitata dalla prima le libertà sociali). La cosa impressionante — e qui c’è davvero un mistero spiegabile, forse, solo attraverso categorie psicologiche — è però che i residui della vecchia sinistra che amava definirsi di classe, lottano ormai contro i mulini a vento del cosí detto oscurantismo religioso, della famiglia patriarcale morta almeno da decenni, contro ogni minimo canone etico e morale comunitario e condiviso, scambiandoli per l’essenza del terribile nemico capitalista quando ne erano invece solo un supporto storico e culturale transeunte. Intanto il nemico lascia fare ben volentieri a loro il lavoro sporco di eliminare tutti gli inutili residui culturali ancora patrimonio popolare.

L’analisi di Michéa è condotta rispetto alla situazione francese, ma con qualche aggiustamento è facilmente estendibile al resto d’Europa, almeno a tutti quei paesi che hanno, o hanno avuto, una sinistra forte e radicata, insieme a robuste radici cristiane, cattoliche in particolare, che hanno contribuito a sedimentare le credenze e i costumi popolari.

Destra e sinistra moderne, ormai entrambe liberali, si alternano al governo applicando a turno con solo qualche differenza di dettaglio, «il programma economico definito e imposto dalle grandi istituzioni capitalistiche internazionali». Si tratta solo di una messinscena. Dopo la parentesi gollista, i nuovi ispiratori spirituali della destra sono diventati Hayek e Milton Friedman, e ciò segna, senza che da quelle parti nessuno pensi piú ad alcuna restaurazione, l’adesione piena ai settori piú modernisti del grande capitale ed ai principi del liberalismo economico e della globalizzazione. Cosí che i richiami insistenti in campagna elettorale di un Sarkozy alla difesa dei valori tradizionali, che sa benissimo essere incompatibili cogli assetti economici di cui anch’egli è promotore, ed anche la titubanza nelle liberalizzazioni richieste dai poteri transnazionali (non casualmente appaltate alla sinistra) sono dovuti non a convinzioni vere, ma soltanto al problema posto dalla composizione del suo elettorato popolare (piccoli imprenditori, artigiani, agricoltori, dipendenti delle piccole e medie imprese). L’adesione di questo elettorato popolare (base anche del Front National), nonché della sempre crescente massa di astensionisti, ai valori tradizionali — scrive Michéa — non nasce da nessuna pretesa di revanche, ma «in quel sentimento naturale di appartenenza che si oppone, per definizione, all’individualismo astratto del liberalismo moderno» incompatibile con qualsiasi nozione di di confine o identità nazionale ed anche con quelle virtú che ne sono conseguenza:

senso dei confini e dei debiti simbolici, attaccamento alla nozione di morale e di merito individuale-contro la pretesa liberale di subordinare l’insieme dei rapporti umani alle sole regole uniformatrici del Diritto e del Mercato — riconoscimento dell’importanza della trasmissione familiare e scolastica, ovvero lo scrupolo di proteggere un certo numero di tradizioni e di abitudini collettive che sono alla base di ogni cultura popolare

come, aggiungo io, in Italia aveva capito già negli anni settanta un comunista eretico e omosessuale quale fu Pasolini. Se quei valori non vengono sviluppati in senso ugualitario e posti al servizio di fini universali, potranno certamente essere strumentalizzati a fini elitari, ma di per sé non sono né reazionari né di destra. Al contrario

possono costituire benissimo […] il punto di partenza privilegiato del progetto socialista e della sua particolare cura nel preservare, contro il movimento capitalista di atomizzazione del mondo, le condizioni primarie di ogni esistenza veramente umana e comune.

La sinistra però, dopo il crollo del vecchio PCF che nonostante il suo pervertimento staliniano e il culto per lo sviluppo delle forze produttive, era pur sempre un «genuino movimento popolare ideologicamente contrario al sistema vigente», è diventata priva di ogni «difesa immunitaria di fronte allo sviluppo terribilmente devastatore della società dello Spettacolo e del suo liberalismo culturale». Perciò l’atteggiamento arrogante (tradotto nelle troppo facili accuse di razzismo, xenofobia oscurantismo etc) verso quell’elettorato operaio e popolare, spesso la parte piú modesta e la meno protetta dalle istituzioni, che si estrinseca nell’ordine di piegarsi al culto della «modernizzazione a oltranza», della mobilità obbligatoria generalizzata e «della trasgressione morale e culturale sotto tutte le sue forme», fa sì che quell’elettorato percepisca la sinistra come nemica.

Destra e sinistra sono dunque diventate le due facce complementari della stessa medaglia. Michéa, questo è il tema del libro, si propone di analizzare il problema, e le eventuali soluzioni, secondo un’ottica genericamente socialista, quindi di sinistra, ed arriva alla conclusione che soltanto se

la sinistra della sinistra, decidesse di compiere lo sforzo (intellettuale, morale e psicologico) di comprendere le buone ragioni che anche il popolo di destra piú svantaggiato […] può avere per sentirsi indignato,

solo cosí potrebbe indurlo a

superare i limiti manifesti del suo risentimento attuale […] E anche aiutarlo a rivolgere la sua rabbia e la sua esasperazione contro ciò che rappresenta, in ultima analisi, la causa prima delle sue disgrazie e delle sue sofferenze, vale a dire quel sistema liberale globalizzato che non può crescere e prosperare se non distruggendo progressivamente l’insieme dei valori morali.

Ma per questo occorre che la sinistra della sinistra si tiri fuori, una volta per tutte e prima che sia troppo tardi, dal liberalismo culturale mitterandiano che le impedisce di percepire il capitalismo non semplicemente come un sistema economico non ugualitario, ma come «fatto sociale omnicomprensivo, ovvero una totalità dialettica della quale tutti i momenti sono inseparabili», siano essi, economici, politici, culturali. Dovrebbe perciò trattarsi di un recupero in chiave antimoderna del socialismo delle origini e delle sue istanze morali, cosa che, riconosce Michéa, ben pochi hanno iniziato a fare. Il giudizio sulla fattibilità di simile impresa, sia in termini temporali (forse è già troppo tardi), ma anche e soprattutto in termini teorici, dopo decenni in cui la sinistra ha abbandonato poco a poco ogni sua posizione iniziale, lo lascio ai lettori. Per parte mia faccio alcune osservazioni che mi inducono ad un certo scetticismo.

È ben vero che, come già scritto, in Marx esistono anche istanze di quel tipo, ma è altrettanto vero che sono sempre state tralasciate in favore della lettura «progressista» dei suoi testi; ed è questa lettura che ha nutrito generazioni di teorici, di capi e di militanti di partito, ed infine dell’intero popolo di sinistra, che, oltre le discettazioni teoriche, ha finito con l’identificarsi pienamente, qui in Italia, con personaggi dello spettacolo quali Nanni Moretti che esorta a «dire qualcosa di sinistra», o Roberto Benigni che glorifica l’amore gay come superiore, perfetti esemplificatori della deriva liberal non solo del PD, ma anche e soprattutto della sinistra cosí detta antagonista.

Mi sembra evidente, infatti, che un ripensamento da parte della sinistra della sinistra nel senso auspicato da Michèa avrebbe ripercussioni ben più importanti. Il suo liberalismo culturale non è un semplice accidente, ma nasce, come già detto, dalla concezione di Marx della borghesia come classe oggettivamente progressiva, liberatrice dell’individuo dai variopinti legami personali, che nei sistemi precapitalistici lo tenevano incatenato. Ne dovrebbe conseguire, perciò, anche un ripensamento di Gramsci, il cui alveo di pensiero era tutto dentro questa dinamica. Ma non solo. L’antiliberismo della sinistra della sinistra, si richiama sempre, in fondo, all’analisi delle classi marxiana, sia pure cercando di individuare, nella nuova situazione creata dalla trasformazione del capitalismo da industriale a finanziario (con conseguente declino in senso numerico e di coscienza di classe del proletariato) il soggetto a cui affidare le sorti della rivoluzione, qualsiasi cosa possa oggi significare quel termine; soggetto individuato di volta in volta nelle moltitudini, nelle donne etc... Tutti tentativi che hanno nella realtà esiti opposti a quelli desiderati. Quel ripensamento che Michèa chiede, la sinistra della sinistra non può farlo senza negare se stessa e la sua storia reale. Infine, chiediamoci come sarebbe un socialismo quale auspicato da Michéa. Sarebbe una società fondata su valori morali ed etici condivisi che ne costituirebbero il cemento e condizione necessaria per iniziative, pubbliche e private, tese ad eliminare o quanto meno attenuare le tendenze spontanee alla divaricazione di ricchezza e alla disuguaglianza. Sarebbe una società che, pur lasciando libertà agli individui di tenere comportamenti difformi, riconoscerebbe come fondamentali la differenza sessuale e la famiglia tradizionale, e quindi agirebbe sul piano pubblico non per mortificare tali differenze o per omologare qualsiasi tipo di unione, ma per salvaguardare ciò che riterrebbe di superiore interesse collettivo o comunitario. Sarebbe una società che riconoscerebbe la necessità dei limiti e delle identità solide che sono, appunto, definite proprio dai limiti e che non implicano affatto uno stato di inimicizia generalizzato, ma il contrario. Sarebbe una società che riconoscerebbe il valore delle tradizioni e dei costumi popolari, anche di quelli religiosi, come elemento prezioso di coesione comunitaria.

Sarebbe un socialismo che, forse, recupererebbe le sue origini ma che, c’è da scommetterci, verrebbe immediatamente accusato di rosso-brunismo o criptofascismo, la scomunica definitiva ad ogni tentativo di mettere in discussione i capisaldi del capitalismo liberale. Personalmente dubito che per una società siffatta potrebbe essere designata col termine di socialista, ma anche fosse cosí, non sarebbe certamente di sinistra, per il significato che quel termine ha ormai assunto nell’immaginario collettivo. Sarebbe un progetto per me affascinante; una storia, però, ancora tutta da scrivere nei suoi capisaldi teorici e concreti. Forse in qualche altra parte del mondo qualcosa si muove; non vedo ancora espliciti movimenti in tal senso in Occidente; non sul piano teorico, a parte qualche voce isolata, e tanto meno su quello politico, anche se è doveroso dire che spesso i fenomeni covano sotto la cenere ed emergono improvvisamente. Tutto sta a coglierne i segnali. 

Jean-Claude Michéa, I misteri della sinistra. Dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto, Neri Pozza editore, 2015.

Note
1 Il Covile n° 902, maggio 2016.
2 Friedrich Hayek, La via della schiavitú, Rubettino, 2011

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Il movimento operaio italiano e la massoneria (1922)

di Amadeo Bordiga

Le radici dell’inutile strage 1915–18. Un’informata ipotesi storiografica dimenticata. Chissà perché.

La questione della massoneria ha, nel movimento operaio italiano, tutta una storia. La massoneria è stata estremamente influente in Italia. Raggruppando tutte le diverse società segrete di tendenza liberale borghese che avevano giocato un ruolo storico considerevole durante le lotte per l’indipendenza e l’unità nazionali, essa seppe occupare un posto di prim’ordine tra i politicanti e tra l’élite della classe dominante.

 

Tradizione rivoluzionaria della massoneria italiana

La massoneria aveva in Italia delle tradizioni d’azione rivoluzionaria cospirativa, e persino di dedizione. Era la portabandiera dell’ideologia anticlericale, che aveva caratterizzato la formazione dello stato borghese unitario contro la resistenza del Vaticano e dell’ultracattolica Austria-Ungheria.

Allorché incominciò a delinearsi un movimento rivoluzionario della classe operaia, la borghesia di sinistra seppe sfruttare contro tale movimento quelle tradizioni che potevano conferirle una certa popolarità, e la massoneria divenne il perno di una campagna volta a distogliere la classe operaia dai suoi obiettivi socialisti e dalla lotta di classe. Dopo la fase della dura reazione del 1898 vi fu il periodo della politica democratica dell’estrema sinistra parlamentare, che comprendeva in un «blocco popolare» i radicali (democratici borghesi), i repubblicani e i socialisti. La politica del blocco anticlericale, basata sulla demagogia e sui luoghi comuni del libero pensiero, veniva portata avanti non soltanto in parlamento ma anche nei comuni, ed era sostenuta da tutta una serie di associazioni e circoli anticlericali che volevano controllare la propaganda e l’agitazione proletaria. La massoneria dirigeva tutto questo lavoro dal suo centro occulto. Quella fu anche l’epoca caratteristica del «giolittismo», cioè della politica abilmente controrivoluzionaria della collaborazione di classe. Giolitti era massone; e lo era anche il re democratico — che si è ora rivelato fascista.

Fu allora che il riformismo intensificò la propria azione e trascinò il movimento operaio sulla strada piú pericolosa. Esso sostenne i ministeri borghesi e costituí dei blocchi elettorali, e Bissolati — socialista — si recò al Quirinale.

 

La lotta tra socialismo e massoneria nel Partito Socialista

Nel partito socialista si produsse una reazione contro questa degenerazione. La nostra tendenza di sinistra si scontrò con il problema della massoneria. Il lavoro delle logge massoniche, che non soltanto mantenevano sotto la propria influenza i nostri intellettuali e i nostri capi ma che avevano anche organizzato una sapiente propaganda nella classe operaia attirando a sé tutti i militanti del movimento sindacale, era riuscito ad influenzare l’opinione e l’organizzazione del partito.

Il congresso socialista di Reggio Emilia (luglio 1912), che sancí la scissione con Bisso-lati e coi riformisti, fautori della collaborazione ministeriale e della guerra di Tripolitania, adottò una risoluzione di principio contro i massoni, ma l’influenza massonica era tale, anche in seno alla sinistra, che la questione venne rimandata ad un referendum. L’accanita propaganda dei massoni fece fallire il referendum grazie ad una maggioranza di astensioni.

Fu soltanto al congresso successivo, nel 1914 ad Ancona, che grazie agli sforzi dell’estrema sinistra e della gioventú socialista si ottenne, dopo un dibattito assai movimentato, una risoluzione sull’incompatibilità della massoneria con il socialismo. Bisogna aggiungere che anche alcuni riformisti erano contrari alla massoneria, e che alcuni membri della sinistra vi aderivano. Ma questi casi personali non cambiano molto la portata dell’influenza e dell’«infiltrazione» massonica nel partito.

 

Le radici dell’adesione dei socialisti europei all’inutile strage

Fu in larga misura grazie a quella risoluzione, in seguito alla quale diversi massoni ci abbandonarono (altri, che nascondevano la loro affiliazione, vennero espulsi), che il nostro atteggiamento rispetto alla guerra mondiale poté essere tanto felicemente diverso da quello della maggioranza dei partiti della vecchia Internazionale.

 

Lo scandalo di Napoli

Un episodio eclatante della campagna antimassonica si verificò a Napoli, dove un piccolo gruppo di compagni rivoluzionari, del quale io facevo parte, sostennero una lunghissima lotta contro gli elementi massoni e «bloccardi» che esercitavano un controllo totale e scandaloso sul partito. La corruzione aveva raggiunto un livello inimmaginabile, e gli avvenimenti successivi ne hanno portato le tracce: il nostro partito ha pubblicato un piccolissimo opuscolo che racconta l’edificante storia di questi fatti. A Napoli i politicanti riformisti e i candidati di professione erano massoni; e lo erano anche i militanti piú noti e i capi dei raggruppamenti sindacalisti rivoluzionari. La politica del partito e delle organizzazioni operaie veniva decisa in anticipo nelle logge massoniche, che spendevano a tal fine non poco denaro, fornito dai loro affiliati borghesi. Lo scandalo fu piú grande che altrove, ma il metodo era generale e veniva applicato nei confronti di tutto il movimento operaio italiano.

 

Cacciare i massoni per recuperare sovranità

Ecco perché il comunista italiano, che si ricorda come tale questione abbia potuto facilmente essere risolta prima della guerra, quando non avevamo ancora né un’Internazionale rivoluzionaria né dei partiti comunisti, si meraviglia nel sentire ancora chiedere perché non si potrebbe essere nello stesso tempo massone e buon militante comunista. Tanta incomprensione dimostra ancora oggi che il problema deve essere risolto in linea di principio. In Francia la questione massonica ha per lo meno la stessa importanza che in Italia. Basti ricordare del periodo «combista»,3 in cui l’isteria anticlericale borghese raggiunse il suo apogeo. Un altro fatto, che il movimento massonico sfruttò dovunque, e in Italia non meno che altrove, fu l’esecuzione di Francisco Ferrer. Ferrer era anarchico: l’anarchico spagnolo Malato mi dichiarò in un’intervista del 1913 di aver abbandonato la massoneria perché essa, che aveva sfruttato dappertutto il cadavere di Ferrer, in Spagna non aveva fatto nulla per salvarlo. Ma la grande manifestazione parigina che ebbe luogo nella serata stessa del giorno dell’esecuzione era diretta da Édouard Vaillant, che arringò la folla dall’alto della scalinata della Sorbona vestito delle insegne ufficiali dell’ordine massonico, cosa che, secondo il complicatissimo rituale massonico, avviene unicamente in situazioni del tutto eccezionali.

La questione della massoneria giunge a mostrarci quale utilità positiva vi sia sempre nel mettere della precisione nei nostri metodi di lotta. La pigrizia caratteristica dell’opportunismo riformista ci ha ficcato in testa, dopo d’allora, l’argomento secondo cui tutti i mezzi sono buoni ammesso che si sia socialisti, e che si deve penetrare anche nelle logge massoniche per militarvi. Vediamo invece che, in quell’ambiente dominato dagli elementi borghesi, erano i socialisti ad essere influenzati e deformati nella loro ideologia di classe.

 

Non si possono servire due padroni

Ma che cos’è il socialismo? Il socialismo all’epoca delle nostre lotte contro la massoneria si stava trasformando in un ideale beneducato, in grado di mostrarsi nella buona società e nei saloni alla moda. Diventava una variante del democratismo borghese, pacifista, umanitario, amico della civiltà e del progresso, detentore del monopolio della scienza che illuminava l’umanità ignorante e della filantropia che consolava le sue sofferenze. Il socialismo si era dimenticato di essere nato dalla piú formidabile critica che si era opposta alla democrazia borghese e al cumulo di ipocrisia e di menzogne sul quale essa è stata costruita grazie all’ingenuità di coloro che stanno alla base e alla furbizia di quelli che occupano il vertice. Potemmo ristabilire, per noi stessi e per il proletariato, queste verità feconde nella dottrina e nella propaganda grazie allo slancio iconoclasta con cui facevamo penetrare la luce nelle ombre discrete del tempio del Grande Architetto.

La polemica ci forniva delle armi contro il riformismo evoluzionista, la collaborazione di classe e il falso umanitarismo borghese, che dovevano dar vita al nazionalismo piú sanguinario. In questa evoluzione la sinistra borghese democratica e massonica non fu affatto da meno della destra cattolica e reazionaria, in Francia piú che altrove.

C’era anche il vantaggio di far rispettare energicamente la disciplina del partito proletario e di salvaguardarne l’organizzazione contro la penetrazione delle influenze borghesi. Che cos’è la disciplina politica? La sua caratteristica fondamentale risiede nell’unità. Non si possono avere «due» discipline. Il membro del partito, che deve essere pronto in ogni momento a ricevere la parola d’ordine del suo partito, non può impegnarsi — e per di piú segretamente — ad eseguire un ordine diverso, attinente agli stessi problemi, che provenga dalla massoneria o da altre organizzazioni del genere.

La prova di questa incompatibilità, che è tanto teorica quanto pratica, ci è stata fornita da numerosi fatti; basti dire che, quando il partito stabilí una tattica elettorale intransigente, i suoi membri massoni, che erano tenuti a sostenere il blocco di sinistra, furono spinti a infrangerne la disciplina. Cosí si producevano i piú spiacevoli conflitti.

L’epurazione del partito dagli elementi che concepivano il socialismo e la sua disciplina in maniera tanto ridicola e sorprendente si rivelò, in Italia, di un’immensa utilità. Gli operai rimasero con noi. Gli arrivisti e i parassiti del movimento proletario ci abbandonarono in gran numero. Una simile operazione non può che essere ricca di buoni risultati. Nascondersi il male sarebbe un crimine, per un partito che vuole essere comunista. I nostri amici francesi debbono porre la questione in tutta la sua ampiezza, svilupparne l’aspetto ideologico e attuare coraggiosamente l’epurazione che si impone: benché sia tardi per farlo, questa campagna antimassonica deve essere intrapresa, in conformità con le risoluzioni dell’Internazionale, alla luce del sole di fronte al proletariato francese, al quale la menzogna democratica stringe dolcemente il collo per strangolarlo.


Fonte: [Amadeo] Bordiga, «Le mouvement ouvrier italien et la Franc-Maçonerien» (sic), La Correspondance Internationale, a. II, n. 97, 16 dicembre 1922, pp. 740–741; traduzione dall’originale francese di Paolo Casciola, www.sinistracomunistainternaz.it.

Note
1 Il Covile n° 902, maggio 2016.
2 Friedrich Hayek, La via della schiavitú, Rubettino, 2011
3 Dal nome di Justin-Louis-Émile Combes (1835–1921). Presidente del consiglio francese dal 1902 al 1905, aveva portato alle estreme conseguenze la laicizzazione della Terza Repubblica sciogliendo le congregazioni religiose, denunciando il Concordato del 1801 e rompendo le relazioni diplomatiche con la Santa Sede. Nel gennaio 1905 era stato costretto alle dimissioni in seguito alla scoperta che, con la collaborazione della massoneria, il Ministero della guerra francese schedava gli ufficiali in base alle loro opinioni religiose (N.d.T.).

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