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la citta futura

I concetti fondamentali di «Il capitale»

di Renato Caputo

La prima parte del capolavoro di Karl Marx ha enorme importanza per comprendere il mondo sempre più ingiusto e irrazionale in cui siamo ancora condannati a vivere. Alla luce di quanto segue – certo noto ma per questo non sempre realmente conosciuto – appare evidente, a chiunque non sia interessato a vivere dello sfruttamento del lavoro altrui, la necessità di organizzarsi per consentire l’affermazione di un modo di produzione maggiormente razionale

4b69d1f36462257020a88d256eebfa88 LNel primo libro de Il capitale Marx muove da una constatazione, un dato di fatto di per sé evidente, secondo il noto principio alla base del moderno metodo scientifico elaborato già da Cartesio: la ricchezza delle società in cui domina il modo capitalistico di produzione si presenta come un’immensa raccolta di merci. A chi, abituato oggi a vivere da sempre in una società a capitalismo avanzato, non apparisse altrettanto immediatamente evidente, provi a considerare una società in cui il capitalismo non si è ancora affermato, a certi paesi dell’africa subsahariana ad esempio. La singola merce può, perciò, essere considerata la cellula del modo di produzione capitalistico.

 

Il duplice valore della merce

Ma, come sappiamo da Hegel, ciò che appare evidente spesso non è realmente conosciuto, in effetti la merce ha una struttura complessa, che non si manifesta altrettanto immediatamente, ma richiede una riflessione e una certa capacità di astrazione. La struttura duplice della merce è, in effetti, quella propria della Logica hegeliana dell’essenza e non quella semplice della Logica dell’essere. La merce, come aveva già intuito Aristotele, è in primo luogo, nel suo darsi immediato, un oggetto formato dal lavoro umano con il fine di soddisfare bisogni umani (sia di natura materiale, quindi, che spirituale), e questo è il suo valore d’uso che si realizza consumandola (ad esempio la merce fucile si consuma sparando, la merce Bibbia edificandosi). D’altra parte le merci, in quanto prodotto sociale, hanno allo stesso tempo un valore di scambio, che corrisponde alla loro essenza. Tale valore, a differenza di quello d’uso che nella sua immediatezza ricade nella categoria della qualità, si esprime in un più complesso rapporto quantitativo, il che è essenziale dal momento che, come sosteneva già Galileo, ciò rende possibile una misurazione oggettiva, valida universalmente e, quindi, scientificamente determinabile, mentre il momento qualitativo del valore d’uso cambia da consumatore a consumatore, a seconda dei gusti, ma come è noto De gustibus non est disputandum, proprio perché siamo in un ambito soggettivo.

Proprio per questo nelle società moderne come la capitalista, dove questo aspetto diviene determinante, al capitalista interessa unicamente il valore di scambio di quanto produce, anzi l’investitore generalmente non sa neanche bene, né è realmente interessato a conoscere in cosa investe, in quanto mira unicamente al rendimento che tale investimento può garantirgli, tanto più che come sosteneva già Vespasiano Pecunia non olet. Dunque, il valore di scambio determina la proporzione secondo cui due merci, a prescindere dai loro valori d’uso che possono essere i più differenti, possono essere scambiate. In tale caso bisogna astrarre completamente dal giudizio qualitativo che i diversi soggetti possono dare del valore d’uso delle merci, perché ciò che preme è la possibilità di scambiarle nel modo più rapido e pratico possibile, tanto più che nelle società moderne, per soddisfare bisogni che tendono a raffinarsi, ogni individuo tende a specializzarsi nella produzione di una sola merce, mentre poi per vivere ha bisogno di scambiarla con quelle che producono altri. Ecco così che astraendo dal valore d’uso e guardando al puro aspetto quantitativo del valore di scambio posso determinare il valore di un fucile come equivalente a quello, ad esempio, di cinque Bibbie.

Affinché tale scambio sia possibile, anzi si realizzi nel modo più rapido, visto che non si tratta di un’attività produttiva – e nella società capitalista il tempo diviene sempre più denaro – bisogna stabilire la proporzione che rende possibile lo scambio di merci apparentemente così diverse. Tale differenza qualitativa che renderebbe le merci incommensurabili è solo immediata, in effetti la riflessione ci porta a cogliere quell’essenza comune che le rende immediatamente scambiabili, determinando la misura dello scambio quale rapporto dialettico fra le qualità e le quantità delle diverse merci. Tale essenza comune, che determina la misura della proporzione dello scambio, non può che essere la fonte comune da cui tutte le diverse merci si sviluppano.

 

La teoria del valore-lavoro

Qual è, dunque, il fondamento comune che consente di stabilire il valore delle merci mettendole in relazione, ossia misurandole le une con le altre? Per risalire a tale origine identica, al di là di tutte le differenze particolari, occorre riflettere sull’unico elemento che le accomuna tutte: il lavoro umano che le ha prodotte. La grandezza di valore di una merce è data, dunque, dalla quantità di lavoro umano in essa contenuto. Tale è la teoria del valore-lavoro, intuita già da quello che – non a caso – è considerato il padre dell’economia politica moderna, ovvero il grande filosofo scozzese Adam Smith, nella sua celeberrima opera La ricchezza delle nazioni del 1776. Tuttavia, dato il necessario scarto che si realizza nelle complesse società moderne tra il valore della merce, il suo costo di produzione, e il prezzo che se ne realizza sul mercato, Smith aveva fortemente limitato il valore della sua scoperta, confinandone la validità alle società primitive. Si trattava di un errore “provvidenziale” per l’economia borghese, perché con esso veniva meno la stessa possibilità di scoprire il plusvalore, fondamento di quello sfruttamento che determina la sfera della produzione che, a differenza di quella del mercato caratterizzata dallo scambio fra equivalenti da parte di soggetti liberi ed eguali, non appare. Non a caso alle sue soglie è scritto a lettere cubitali: proprietà privata, l’ingresso è vietato a non addetti ai lavori.

La sete di conoscenza doveva portare, il secondo grande esponente dell’economia classica, David Ricardo nel 1817 a superare i suoi stessi limiti di economista borghese, scoprendo che tale legge del valore-lavoro – al di là delle apparenze a cui torneranno a fermarsi gli economisti neoclassici, prigionieri della loro ideologia funzionale ai loro interessi di classe – resta pienamente valida anche per la moderna società capitalista. Tuttavia anche Ricardo non era stato in grado di dare una soluzione scientifica alla fatidica domanda, irrisolvibile per chi non è in grado di assumere uno sguardo straniato rispetto alla società capitalista, ossia data l’equazione valore e tempo di lavoro umano necessario a produrlo da dove provengono quei profitti che sono il reale movente della produzione nelle società di mercato e che producono quel mondo rovesciato dove chi lavora è sempre pericolosamente prossimo alla sfera della povertà, mentre chi non lavora e possiede vive nel lusso più sfrenato, al punto che oggi l’1% che non lavora – se non come hobby – guadagna più del restante 99% che in massima parte o lavora sempre più a ritmi sempre più disumani o è condannato all’inedita dalla precarietà e dalla disoccupazione.

 

La soluzione all’arcano del plusvalore quale prodotto del pluslavoro

Per risolvere tale arcano vi era bisogno di un grande filosofo politico mosso da ideali comunisti come Marx, che ha potuto guardare in una prospettiva straniata la società capitalista, dal punto di vista più elevato offertogli dalla concezione materialista della storia, che glia ha consentito, infine, di giungere a quella decisiva scoperta, che per sua stessa ammissione costituisce senza dubbio il più importante risultato delle sue decennali ricerche scientifiche: il plusvalore è il prodotto del pluslavoro, ossia dello sfruttamento del lavoro vivo da parte dei possessori in modo monopolistico del lavoro morto (macchine e capitali).

Come mai una scoperta di tale portata non si è immediatamente affermata cambiando il modo di vedere le cose, per cui troppi ancora oggi non vivono come qualcosa di moralmente e razionalmente inaccettabile che singoli grandi proprietari di capitale finanziario, la forma attuale che ha assunto il capitale, concentrano nelle loro mani quantità di ricchezze superiori a intere nazioni, a milioni di uomini, nonostante che il lavoro morto che gli permette di appropriarsi del lavoro vivo di quei milioni di lavoratori sia il prodotto di una vita di lavoro e sacrifici delle precedenti generazioni? Perché oggi siamo giustamente indignanti nei confronti di una casta di politicanti che vivono alle spalle dei contribuenti, ma che per quanto svolgano un lavoro del tutto improduttivo e generalmente dannoso, sono enormemente meno ricchi e parassitari dei grandi proprietari del capitale finanziario che generalmente non svolgono nessunissima attività lavorativa e sono, nonostante ciò, generalmente rispettati?

Ciò dipende dal fatto che non solo la realtà non è mai quella che appare immediatamente, altrimenti la scienza e la filosofia perderebbero di significato come credono gli ignoranti, ma nella società capitalista i rapporti fra gli uomini si presentano in forme del tutto mistificate, che ne celano completamente la reale natura.

Come abbiamo visto, la merce ha un valore d’uso, una differenza qualitativa con le altre merci, e un valore di scambio, una differenza quantitativa con gli altri prodotti del lavoro umano, misurabile appunto in base al tempo necessario per produrli. In tal modo anche il lavoro incorporato nelle merci, che ne costituisce il fondamento comune, ha una natura altrettanto complessa, duplice. Da un lato tale lavoro è volto a produrre un valore d’uso e, perciò, deve essere un lavoro qualitativamente specificato, in quanto tale difficilmente comparabile. D’altro canto, la grandezza di valore di una merce non è data da questo lavoro particolare che la ha prodotta, ma dal lavoro astratto dalle differenze qualitative e, perciò, universamente determinabile in quanto ridotto alla sua sola dimensione quantitativa.

 

Il lavoro astratto

Per cui il valore di scambio delle merci è basato sul tempo di lavoro socialmente necessario alla loro produzione, che cambia da società a società, da epoca storica a epoca storica. Si tratta, in effetti, di una grandezza variabile sulla base della produttività del lavoro e dello sviluppo tecnologico soggetti a mutamenti temporali e più precisamente storici e sociali. Dati però questi ultimi, il lavoro astratto – che determina il valore di scambio della merce – corrisponde al tempo di lavoro mediamente necessario. Tanto che chi produrrà una stessa merce senza la tecnologia socialmente necessaria in quel momento storico impiegherà una quantità di tempo maggiore, che però non potrà far pesare sul prezzo della merce, altrimenti non sarebbe vendibile in quanto non competitiva con quelle prodotte in tempi più brevi. Allo stesso modo ogni riduzione del tempo di lavoro astratto, storicamente e socialmente necessario alla produzione di una determinata merce, consentirà a chi è in grado di produrla – generalmente grazie a una innovazione tecnica o a una migliore organizzazione e una maggiore divisione del lavoro – potrà realizzare degli extra-profitti, per un tempo necessariamente limitato, dal momento che la concorrenza farà di tutto per apprendere e adottare misure analoghe. Ciò spiega perché tendono a crescere in modo esponenziale le risorse impiegate nello spionaggio industriale, spese altrettanto improduttive di quelle egualmente sempre maggiori dedicate a influenzare i consumatori mediante i messaggi subliminali della pubblicità, spese che potrebbero essere impiegate in modo ben più razionale e socialmente produttivo in una società non più fondata sul monopolio dei grandi mezzi di produzione e riproduzione della forza lavoro accentrati in sempre meno mani.

 

Il carattere di feticcio della merce

Nel modo di produzione capitalista, il valore delle merci, sebbene sia determinato dalla quantità di lavoro astratto in esse contenuto, non si manifesta e, dunque, non è percepito come il frutto del lavoro umano e tantomeno come prodotto dello sfruttamento della forza-lavoro. Le merci sembrano dovere a se stesse il proprio valore, come se si trattasse di un loro carattere oggettivo, una loro qualità intrinseca indipendente dalla volontà umana. Tale mistificazione è la stessa denunciata da Feuerbach nella religione e nell’idealismo, in cui dio e spirito appaiono indipendenti dagli uomini che li hanno prodotti. Così, ad esempio, si tende ad ammirare un’auto da corsa senza riconoscere in essa il valore del lavoro sociale umano che la ha prodotta.

Questo è il carattere di feticcio che assume la merce nella società capitalista. Il feticcio è un manufatto prodotto dal lavoro di una società umana che viene poi adorato come se fosse dotato di una potenza indipendente dal lavoro della comunità che lo ha prodotto, tanto da apparire dottato di proprietà sovrannaturali. In tal modo la comunità dei lavoratori non solo non trova soddisfazione nel risultato del suo operare, ma in esso non si riconosce e, anzi, finisce per essere dominato e oppresso dal prodotto del proprio lavoro sia nella forma primitiva del feticcio, sia nella forma moderna del capitale.

Allo stesso modo il rapporto sociale fra gli uomini – alla base della produzione delle merci all’interno di un determinato modo di produzione come il capitalista – che è in realtà un rapporto mediato dalle grandezze del lavoro sociale incorporato nelle merci, assume la “forma fantasmagorica di un rapporto tra cose”. Ciò comporta una reificazione e, quindi, una naturalizzazione di rapporti sociali storicamente determinati, frutto di scelte particolari dal punto di vista della politica economica, inizialmente rese preferibili dalla loro funzionalità allo sviluppo delle forze produttive della società.

 

Il denaro e la moneta

Tale carattere di feticcio della merce, che porta anche a una reificazione dei rapporti sociali fra gli uomini e ancora più fra le classi sociali, è enormemente favorito dall’incontrastato affermarsi nella società capitalista di un nuovo monoteismo, il cui protagonista è il denaro, alla cui onnipotenza tutto è sacrificato. Anche in tal caso siamo dinanzi a un processo di reificazione che porta necessariamente a occultare dietro al carattere di feticcio che assume il denaro il proprio valore sociale e il suo fondamento nel lavoro sociale e nei rapporti storici di produzione frutto di determinante scelte di politica economica. Ma qual è, dunque, la reale natura del denaro, al di là dell’aura sovrasensibile di cui necessariamente appare ammantata.

Il denaro è in realtà – come del resto un po’ tutto nel regno incantato del capitale, dove ogni cosa è mercificata – una merce appunto, dotata come ogni altra di un duplice valore. Il valore d’uso del denaro, corrispondente a un bisogno sociale reale storicamente determinato, è quello facilitare gli scambi, incarnando il valore di scambio. In tal modo invece di scambiare ogni merce con quantità di merci dello stesso valore la si scambia in modo molto più comodo ed economico con una merce in grado di reificare l’equivalente di valore di ogni altra. Ma per poterlo reificare anche il denaro deve assumere la forma di una determinata merce, in certe società storiche un determinato metallo, come l’argento o l’oro, in grado di mantenere relativamente immutato il proprio valore nel tempo, in successive la più pratica moneta e poi la banconota fino al chip delle attuali carte di credito.

Tali forme mutevoli storicamente (in generale definibili come moneta) in cui si incarna il valore d’uso del denaro, consistente come abbiamo visto nel favorire la misurazione del valore sociale di qualsiasi altra merce, fa sì che inevitabilmente la forma di moneta assunta dal denaro occulti ulteriormente il rapporto sociale che si cela nella forma valore delle merci, che ne costituisce il fondamento sulla base del quale si manifesta quella storicamente determinata apparenza. Così è ancora una volta quest’ultima a dominare, nel regno incantato del capitale in cui il fondamento reale scompare e si manifestano soltanto le sue diverse apparenze nella forma mistificata della reificazione e del feticcio, in modo tale che oro e argento, ad esempio, appaiono anch’esse, per dirla con Marx, “cose naturali dotate di strane proprietà sociali”.

Sebbene la moneta e l’oro fossero presenti anche nelle società precedenti, caratterizzate da altri modi di produzione, in questi ultimi, basati essenzialmente sulla produzione di valori d’uso per il consumo immediato e non di valori di scambio, il feticismo e la reificazione sono presenti in misura decisamente minore rispetto alla società capitalista, in cui il dio denaro ha spazzato via, come falsi idoli del passato, i valori venerati nelle epoche precedenti, dal momento che nel mondo rovesciato del capitale ogni cosa, anche la più sacra, è mercificata. Da qui la profonda ipocrisia dei fedeli alle credenze precedenti, le cui divinità non a caso erano contrapposte a Mammona, ovvero al dio denaro, nel pretendere di mantenere intatto il proprio credo, pur accettando in pieno la logica radicalmente diversa imposta dalla società capitalista.

 

Reificazione e feticismo sono necessari nel capitalismo

Il dominio storico di tale logica fa sì che il valore di scambio non sia possibile considerarlo una mera convenzione, che si possa soggettivamente non accettare. Lo stesso feticismo della merce, la reificazione per cui i rapporti sociali fra i diversi individui e il lavoro sociale dell’uomo si manifestano come se fossero proprietà naturali delle cose, non può essere considerato il frutto di un semplice inganno, che può essere svelato, ma è il prodotto per così dire “naturale”, ovvero necessario di una società come la capitalistica in cui è il sistema di produzione a padroneggiare gli uomini e questi ultimi, pur essendone gli artefici, sono sempre meno in grado di padroneggiare, da veri e propri apprendisti stregoni, un modo di produzione che appare regolato da leggi naturali e immodificabili.

Tanto che oggi nessuno si stupisce più che un’entità immateriale, un prodotto storico e sociale, come i mercati possa, con l’autorevolezza di un imperativo categorico, imporre il taglio alle spese per l’istruzione, la sanità e i trasporti pubblici, o imporre il cambiamento di un governo che voglia operare in modo libero e indipendente, magari cercando di rispettare i programmi sulla base del quale è stato eletto, o addirittura possono portare uno Stato a fallire o un popolo a essere posto sotto il controllo di potenze estranee.

Anche in questo caso, dunque, sulla base di quello che è un caposaldo del materialismo storico, il feticismo e la reificazione non sono il parto del pensiero, il prodotto di una ideologia asociale come la neoliberista, che una volta confutata potrebbe far terminare l’incantesimo, ma sono un dato reale, il prodotto di rapporti di produzione reali, certo storicamente determinati, che portano inevitabilmente la coscienza comune a essere inconsapevole preda di tali forme di alienazione. Feticismo e reificazioni, quindi, non potranno essere realmente superate sul piano teoretico, ovvero semplicemente rivelando al grande pubblico il funzionamento necessariamente occulto alla coscienza comune, prigioniera della certezza sensibile, del modo di produzione capitalista. Anche in tal caso la soluzione non può che realizzarsi passando dal – per quanto necessario – piano teoretico, dall’imprescindibile mondo astratto dei concetti, al piano pratico dell’azione politica, che sulla base di una certa interpretazione del mondo, che in questo caso aspira a essere scientifica, lo trasforma radicalmente.

Del resto solo in una in una società radicalmente diversa da quella in cui viviamo, strutturata sulla base del modo capitalistico di produzione, in cui le relazioni degli uomini con i prodotti del loro lavoro saranno finalmente trasparenti, ovvero quando i lavoratori potranno pianificare il loro lavoro e appropriarsi dei suoi frutti, si potrà superare quell’alienazione ed estraneazione che sono la base materiale, radicata nell’essere sociale, del feticismo e della reificazione. In altri termini come non è sufficiente mostrare come storicamente siano state le società umane a ideare le diverse forme di sviluppo storico del fenomeno religioso, per far venire meno il bisogno reale per i ceti sociali subalterni in particolare di trovare rifugio nei paradisi artificiali del misticismo, così non è certo sufficiente diffondere la spiegazione scientifica del modo di produzione capitalistico, per far venire meno quell’aura mistificante che occulta il fondamento nel lavoro sociale della ricchezza delle nazioni.

 

In duplice significato della libertà della forza lavoro nella società capitalista

Come abbiamo visto infatti, sino a che domina il modo capitalistico di produzione, non solo il prodotto del lavoro sociale dell’uomo diviene un mondo di merci dotate di un intrinseco valore, ma lo stesso lavoro sociale o meglio la forza-lavoro, come del resto ogni altra cosa, è ridotta a merce, in questo caso peraltro a una merce venduta sempre a un prezzo d’occasione.

Certo anche questo non è il prodotto di una legge naturale, ma è un risultato storico, in quanto il lavoratore per poter alienare vendendola la propria forza, ossia la propria capacità di lavoro, deve prima essere divenuto libero, dal momento che nelle società precedenti – in modo mistificante idealizzate dai reazionari – dominava il rapporto servo-padrone, per cui il lavoro era essenzialmente un’occupazione da servi e schiavi o da esseri considerati come inferiori quali le donne. Tale decisivo processo storico, che ha prodotto la liberazione della forza-lavoro, presupposto posto del modo di produzione capitalista, non toglie che anche tale libertà non acquisti, in questo dominio della logica dell’essenza un duplice significato. Dal punto di vista dell’apparenza, il lavoratore è divenuto finalmente libero, dopo secoli di sanguinosissime lotte servili e di altrettanto aspri scontri sul piano delle sovrastrutture, di disporre della propria capacità di lavoro.

D’altra parte, altrettanto necessariamente, dal punto di vista del fondamento occulto – che non si manifesta ma determina la parvenza – tale libertà assume una valenza radicalmente diversa, addirittura capovolta in quanto il produttore viene liberato, nel processo storico dell’accumulazione originaria del capitale, dei mezzi di produzione necessari all’attività lavorativa e dei mezzi di riproduzione della forza-lavoro di cui precedentemente disponeva, in quanto erano inalienabilmente legati alla propria condizione servile. Ora, al contrario, in un violentissimo processo di espropriazione durato secoli, il lavoratore ne è stato liberato al punto da essere costretto ad alienare l’unico bene di cui dispone per potersi riprodurre nel proprio misero stato: la propria capacità di lavoro. In altri termini con la dissoluzione del feudalesimo i servi della gleba ottengono sì la libertà dalla precedente servitù, ma sono al contempo “liberati” dai loro strumenti di lavoro e di sussistenza, tanto da essere costretti, per sopravvivere, a pregare i capitalisti di “liberarli” persino dell’unico bene ancora a loro disposizione, ossia la propria forza-lavoro e quella della propria prole.

 

L’Accumulazione originaria

Il monopolio dei mezzi di produzione e di riproduzione della forza lavoro – presupposto del modo di produzione capitalista in quanto rende necessaria l’alienazione della capacità di lavoro del proletario – è il prodotto dell’accumulazione originaria del capitale, a partire dalla dissoluzione del feudalesimo mediante lo sviluppo dei commerci e delle attività finanziarie. La forza-lavoro, essendo ridotta a merce, ha un suo valore che equivale a quello dei mezzi di sussistenza necessari per la sua riproduzione. Perciò chi sostiene che l’uomo non è una merce, dovrebbe conseguentemente battersi contro un sistema che riduce l’essenza generica della maggioranza degli individui a una merce, per altro da vendere sempre a un prezzo ribassato. In effetti, in cambio dello sfruttamento della forza-lavoro, i capitalisti corrispondono alla classe dei salariati il salario minimo necessario, in una determinata epoca e società, per consentirle di continuare a lavorare fino a quando non sarà sostituibile dalla nuova generazione, a tale scopo formata. Il salario, come categoria sociale, è corrisposto al salariato in forma diretta con la busta paga, in forma indiretta attraverso tutti quei servizi a prezzi calmierati indispensabili alla riproduzione della forza lavoro, e in forma differita nel tempo, come riserva necessaria a non far morire di stenti il lavoratore quando non è più abile a essere adeguatamente sfruttato sul posto di lavoro.

Ciò permette di comprendere l’amenità della battaglia della a-sinistra riformista o neo-lassalliana che si batte per lo Stato sociale o il Welfare State. Come se lo Stato borghese, funzionale allo sfruttamento della classe dei salariati, svolgesse una funzione a favore della società favorendo la riproduzione di un ceto sociale costretto a vendere come merce la propria forza-lavoro per realizzare profitti sempre più privati. Ci vuole dunque la faccia tosta dei riformisti per poter definire Stato del benessere, lo Stato destinato a perpetuare lo sfruttamento della grande maggioranza del genere umano a beneficio di una minoranza di non lavoratori sempre più esigua.

Altrettanto amene appaiono le rivendicazioni dell’attuale (a)sinistra neo-proudhoniana a partire dal salario sociale, considerato che il salario è per definizione tale, al salario minimo, caratteristica egualmente necessaria della retribuzione della forza-lavoro nella società capitalista, al reddito di sussistenza per disoccupati e sottoccupati, già ricompreso nel concetto di salario sociale. Si tratta, non a caso, di rivendicazioni desunte inconsapevolmente dagli stessi ideologi neoliberisti, in quanto si tratta sostanzialmente di misure volte semplicemente a redistribuire il salario in quanto tale sociale tra i diversi settori della classe, per consentire la riproduzione dell’esercito industriale di riserva nelle sue tre forme; la fluttuante, corrispondente ai lavoratori in cassa integrazione e in mobilità, la latente, corrispondente ai lavoratori in formazione, la stagnante: “una parte dell’esercito operaio attivo, ma con un’occupazione assolutamente irregolare.(…) Le sue caratteristiche sono: massimo tempo di lavoro e minimo di salario”. Così, ad esempio, il “padre nobile” del neoliberismo, Friedrich August von Hayek pur opponendosi a ogni forma di giustizia sociale, a ogni misura economica a favore dei più bisognosi, in quanto violerebbe la sacralità della proprietà priva, per i deboli, malati, vedove, orfani ecc. ritiene debbano avere assicurati un reddito minimo per sopravvivere dall’assistenza sociale. Anche perché tale misura assistenziale nei confronti degli individui renderebbe più semplice cancellare i diritti collettivi conquistati dal movimento dei lavoratori.

 

L’origine del profitto dal plus-lavoro

Per comprendere l’origine del profitto, bisogna ricordare che il valore d’uso della forza lavoro nella società capitalista è di creare plusvalore, ovvero una quantità maggiore di ricchezza di quella retribuita con il salario. Le macchine invece, in quanto prodotto del lavoro passato, ormai morto, in media riproducono il loro valore, corrispondente al lavoro astratto impiegato a produrle. Dunque, chi è costretto per potersi riprodurre a vendere la propria forza-lavoro ne realizza il valore di scambio alienandone il valore d’uso, come il venditore di qualsiasi altra merce, mentre il capitalista – acquistata la forza-lavoro – la consuma a proprio piacimento, come qualsiasi altra merce. Il consumo della forza-lavoro è l’attività lavorativa che produce per chi la ha acquistata nuove merci con un valore superiore a quelle di cui il salariato ha bisogno per riprodursi come forza-lavoro e che gli sono corrisposte nel salario. La merce forza-lavoro viene infatti consumata, ovvero è costretta a lavorare per il padrone sino a che non ha prodotto un valore maggiore di quello anticipato dal capitalista per impiegarla, tale valore aggiunto è definito da Marx plusvalore.

 

Plusvalore assoluto e relativo

Occorre in primo luogo definire il plusvalore assoluto, dato dal tempo del pluslavoro, ovvero dalla parte della giornata lavorativa in cui il lavoratore non riproduce più l’equivalente di valore che gli viene retribuito, ma produce valore a esclusivo beneficio dell’acquirente della sua capacità di lavoro, che vorrà far fruttare al massimo il proprio investimento, aumentando quanto più possibile la durata della giornata lavorativa. Tale aumento però ha dei limiti fisici, non solo per la durata della giornata, ma per la necessità di lasciare alla classe dei salariati il tempo necessario per potersi riprodurre come tale. Proprio perciò chi acquista forza-lavoro mirerà al contempo a massimizzare il plusvalore relativo, velocizzando al massimo i ritmi della produzione, eliminando ogni tempo morto, per diminuire la percentuale della giornata destinata a riprodurre il valore della forza-lavoro corrisposto nel salario, implementandone lo sfruttamento. Il capitalista, sotto la costante pressione della concorrenza, se vorrà rimanere tale, dovrà cercare di aumentare, con ogni mezzo necessario, l’ammontare del pluslavoro. Tanto più che si tratta di un suo “diritto”, dal momento che chi acquista una merce si appropria della possibilità di consumarla come meglio crede, ossia traendone il massimo profitto. Così se i salariati non sono in grado di organizzarsi e battersi per limitare i ritmi e l’orario di lavoro, dovrà intervenire lo Stato, posto a tutela degli interessi della grande borghesia nel suo complesso, altrimenti la forza-lavoro non avrebbe il tempo necessario per riprodursi e, quindi, lo sfruttamento non potrebbe perpetuarsi nel tempo. Discorso analogo vale per l’uso della forza lavoro, dal momento che l’acquirente potrebbe consumarla come meglio crede, così se i lavoratori non sono in grado di unirsi e lottare per porre dei limiti all’arbitrio dello sfruttamento, sforzandosi di fissare delle condizioni massime per il consumo della forza-lavoro, limitando le mansioni e i ritmi, si arriverebbe a un genocidio come quello degli amerindi da parte dei conquistadores, o agli harem a beneficio degli impresari che descrive Engels già nel suo pionieristico studio su La condizione della classe operaia.

 

Lo sfruttamento

Dunque oltre al lavoro retribuito il salariato deve svolgere, nella società capitalistica, anche un lavoro non retribuito, un plus-lavoro. Se le ore necessarie a ripagare il valore di scambio della forza lavoro sono, facendo un esempio realistico, quattro, il capitalista farà lavorare l’operaio almeno altre quattro ore, per realizzare il fine di questo modo di produzione, ovvero la massimizzazione del proprio profitto privato. Con il plusvalore prodotto da due ore di pluslavoro, seguendo il nostro esempio, l’imprenditore pagherà le materie prime e i mezzi di lavoro consumati, le altre due ore saranno a beneficio del suo profitto. Se al livello del mercato, che si svolge alla luce del sole, ed è regolato dal diritto e dall’utilitarismo individualista, avevamo uno scambio di equivalenti, forza-lavoro in cambio del valore necessario a riprodurla, nella produzione che si svolge sempre in un ambito privato, dove l’accesso è da sempre negato ai non addetti ai lavori, per cui varcate le sue soglie dalla sfera dell’eguaglianza giuridica si ritorna all’antica relazione fra servo e padrone, abbiamo l’appropriazione di valore non retribuito. Il plusvalore prodotto è proprietà di chi si è assicurato il possesso della forza-lavoro e, dunque, se ne gioverà interamente il capitalista, sebbene non si tratti del frutto del proprio lavoro, ma del pluslavoro dei propri sottoposti. Così il capitalista non solo reintegra il capitale anticipato in forza-lavoro, materie prime e macchinario, ma necessariamente deve aumentarlo, altrimenti investirebbe altrove. Tragicomiche appaiono, dunque, le denunce di quei dirigenti sindacali che mettono in guardia contro i rischi di sfruttamento del lavoro. Anzi, nel mondo rovesciato del capitale, un proletario è in grado di riprodursi solo se trova chi lo sfrutta adeguatamente alle proprie aspettative di profitto.

 

La necessità dell’innovazione tecnologica e le condizioni paradossali che produce

Dunque, sotto la spinta della concorrenza, il capitale sarà portato ad aumentare sempre più il plusvalore assoluto, allungando il tempo di lavoro, rendendo sempre più indispensabili alla sopravvivenza del lavoratore gli straordinari, sempre meno riconosciuti e retribuiti come tali. Quando ciò non è più possibile, in quanto si è raggiunto il limite fisico, oppure in quanto i lavoratori coalizzati sono in grado di far valere i propri interessi, i capitalisti tenderanno a introdurre nuove tecnologie che permettono di produrre in meno tempo e a un prezzo più basso i mezzi di sussistenza anticipati nel salario, concentrando e centralizzando la produzione in modo da realizzare una maggiore divisione del lavoro. Così il processo produttivo diviene sempre più sociale, tanto che si parla di globalizzazione della produzione, mentre i mezzi di produzione e di riproduzione della forza-lavoro sono concentrati in sempre meno mani, visto che la concorrenza fa sì che i pesci più grandi divorino i pesci più piccoli. Quando non sarà più possibile accrescere neanche il plusvalore relativo, il capitale, spinto ancora dall’implacabile legge della concorrenza, introdurrà macchine che consentiranno di aumentare l’esercito industriale di riserva, facendo aumentare la sua pressione e il suo ricatto sugli occupati, segnando così l’ulteriore diminuzione del prezzo della forza-lavoro.

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