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La progettualità comunista tra utopia concreta e necessità di funzionamento quotidiano

di Claudio Lucchini

fotki yandex 181Sia pur in termini generali e sganciata da un’illustrazione particolareggiata di come dovrebbe articolarsi il funzionamento quotidiano di una società comunista, la prefigurazione concretamente utopica, cioè realmente attuabile sulla base di determinate condizioni sociali complessive, di modi di vita e di lavoro trascendenti l’orizzonte storico delle estraniazioni classiste e capitalistiche, è parte integrante ineludibile del pensiero marx-engelsiano, che perderebbe anzi, senza di essa, una propria decisiva componente.

Non è certo un caso che, dopo aver minuziosamente citato il celebre brano marxiano dei Grundrisse relativo alle fondamentali forme storiche occidentali dei legami sociali interumani colti nella loro valenza assiologica rispetto alla formazione della personalità individuale, brano in cui si teorizzano al contempo le condizioni indispensabili al sorgere della libera individualità integrale comunista, Costanzo Preve commenti con piena ragione:

A mio avviso, questa è la più importante citazione filosofica che si possa fare spigolando nelle pagine di Marx. Nessuna altra citazione le è pari, neppure quella del giovane Marx sulla «alienazione». Qui Marx compendia la sua filosofìa della storia, senza la quale le migliaia di pagine sulla crisi capitalistica, sui profitti e sui prezzi, sulle classi ecc. sono assolutamente mute e prive di qualsiasi espressivitàIl fatto è che Marx aveva deciso di respingere la conoscenza filosofica […], ma era nello stesso tempo una persona intelligente, acuta e sensibile, e allora la filosofia non poteva fare a meno di tornare comunque nel processo della sua elaborazione di pensiero.

Questa citazione ne è la prova indiscutibile, di fronte a cui cadono tutte le mura althusseriane erette in difesa di una impossibile considerazione «scientifica» del tutto depurata dalla filosofia.1 

L’individuazione della libera individualità quale scopo essenziale e meta etico-antropologica ideale effettivamente realizzabile di un futuro ordinamento comunista dell’assetto sociale è costantemente ribadita da Marx e da Engels. Nel terzo libro del Capitale, per esempio, si possono leggere le famosissime pagine sul rapporto tra “regno della necessità” e “regno della libertà”, in cui Marx nuovamente compendia il senso etico-umano del superamento radicalmente democratizzante del modo capitalistico di produzione e, più in generale, di ogni formazione economico sociale-classista o coattivamente e gerarchicamente comunitaria:

Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di fuori di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa.2

Come si può facilmente arguire dalla lettura di tale brano, si deve anzitutto constatare che per Marx lo sviluppo delle forze produttive e della produttività del lavoro non è affatto legato ad un insensato “produt-tivismo sviluppistico”, essendo radicalmente disgiunto dalla tendenziale illimitatezza dell’accumulazione capitalistica, e viene invece rigorosamente finalizzato a rendere concretamente possibile l’affermazione delle più alte potenzialità ontologiche della natura umana, delle migliori attività in cui realmente si manifesta la nostra essenza d’uomini, divenendo umanamente accettabile solo in rapporto a questo fine. Quali che siano gli errori commessi da Marx e da Engels nel concepire il formarsi delle condizioni della transizione comunista all’interno del modo capitalistico di produzione (errori che cercheremo di evidenziare più avanti nel loro nucleo più rilevante, sulla scorta delle analisi di Gianfranco La Grassa e dello stesso Preve), o quale che sia l’eccessiva enfasi da essi talvolta posta sulla crescita della capacità produttiva dell’industria moderna, in un’epoca in cui peraltro i nefasti guasti provocati all’ambiente da un dissennato processo produttivistico erano ben lungi dal mostrare tutta la loro gravità, il concetto centrale di individualità non estraniata e riccamente multiforme resta il punto archimedico da cui valutare l’espressività complessiva del loro progetto di trasformazione sociale, compreso, lo si sottolinea, la necessità di contemperare costruzione armonica della personalità individuale e liberazione di un quantità sufficiente di tempo dagli obblighi del lavoro in vista dell’esercizio profondo e multilaterale delle potenzialità cognitive e affettivo-relazionali, comune patrimonio della specie umana. Si veda, per esempio, cosa scrive a tal proposito Engels:

Ed è precisamente mediante questa rivoluzione industriale che la capacità produttiva del lavoro umano ha raggiunto un livello talmente alto, che – per la prima volta da quando l’uomo esiste – la divisione razionale del lavoro fra tutti fornisce la possibilità di produrre non soltanto basta per un consumo più che sufficiente da parte di tutti i membri della società e per la costituzione di un abbondante fondo di riserva, ma consente anche di lasciare a ciascun singolo agio sufficiente perché ciò che c’è veramente di valore nelle civiltà storicamente tramandateci – scienza, arte, forme di rapporti personali – possa non soltanto venire conservato, ma sia trasformato da monopolio della classe dominante in bene comune di tutta quanta la società, ed ulteriormente sviluppato. E questo è il punto risolutivo. Non appena la produttività del lavoro umano si è sviluppata fino ad un livello così alto, svanisce qualsiasi pretesto per l’esistenza di una classe dominante. Infatti in ultima analisi il motivo che si è sempre portato a difesa delle differenze di classe era il seguente: deve esistere una classe che non sia obbligata a penare giorno per giorno per produrre il suo sostentamento, e a cui quindi resti il tempo per prendere cura del lavoro spirituale della società. Queste chiacchiere, che fino ad oggi avevano una loro forte giustificazione storica, hanno perso ogni fondamento, una volta per tutte, in seguito alla rivoluzione industriale degli ultimi cento anni. L’esistenza di una classe dominante diventa ogni giorno di più un ostacolo per lo sviluppo della forza produttiva industriale e un ostacolo altrettanto grande per lo sviluppo della scienza, dell’arte, e specialmente delle forme culturali dei rapporti umani. Non ci sono mai stati più gran somari dei nostri moderni borghesi.3

Tali considerazioni di Engels, in sostanziale linea di continuità con le affermazioni precedentemente riportate di Marx, offrono una signifcativa occasione di meditazione a proposito di alcuni problemi centrali che non potrà non porsi un’eventuale società comunista del futuro, la quale sarà obbligata a fare i conti con le tematiche della decrescita e con le sue ricadute ecologiche e socio-antropologiche. Si ricordi che già Herbert Marcuse, nel suo L’uomo a una dimensione del 1964, aveva acutamente osservato, riprendendo alcune precorritrici intuizioni di Marx, che il superamento rivoluzionario di un capitalismo trasformatosi in virtù della propria stessa logica nel debordiano regime della “sopravvivenza aumentata”, volto ad uno sforzo di accumulazione tendenzialmente infinito e vieppiù privo di sensatezza umana una volta divenuto il valore di scambio l’indiscusso principale regolatore della creazione di valori d’uso,4 avrebbe profondamente rimodellato i bisogni e le esigenze di un “regno della necessità” svincolato degli imperativi e dalle estraniazioni in vario modo deformanti e oppressivi impliciti nella riproduzione capitalistica. Una diversa organizzazione del ricambio organico con la natura

in vista di fini qualitativamente differenti – sostiene il grande francofortese – cambierebbe non solo il modo, ma anche il volume della produzione socialmente necessaria. Questo cambiamento, a sua volta, toccherebbe gli agenti umani della produzione e i loro bisogni. [Come scrive Marx nei Grundrisse] «il tempo libero trasforma chi lo possiede in un Soggetto differente e come Soggetto differente egli entra nel processo della produzione immediata.» […] Al di sopra del livello animale anche le necessità della vita in una società libera e razionale saranno diverse da quelle prodotte in e per una società irrazionale e coatta.”5

Sono motivi, questi, largamente presenti nelle proposte politiche, sociali ed economiche incentrate sul concetto di decrescita, che ritengono giustamente ineludibile il ripudio di uno sviluppo caratterizzato da un’insostenibile impronta ecologica della produzione e da una soffocante pervasività sociale della merce capitalisticamente prodotta, sviluppo destinato a generare crescenti guasti ambientali, sociali ed antropologico- culturali.6 E tuttavia alcune richieste provenienti dai sostenitori della decrescita - qualora beninteso non ci si illuda, più o meno tacitamente, di riuscire a far convivere proprietà capitalistica dei mezzi di produzione e ristrutturazione ecologicamente sostenibile del processo capitalistico di produzione, in un inoffensivo compromesso destinato a perpetuare l’esistente - aprono problemi che l’orizzonte ideale delle finalità comuniste ripetutamente definito da Marx ed Engels contribuisce a far emergere. Uno dei massimi teorici della decrescita, Serge Latouche, è per esempio del tutto convinto della necessità di «trasformare gli aumenti di produttività in una riduzione del tempo di lavoro e in creazione di posti di lavoro»,7 così come Piero Bevilacqua, altro intelligente critico dello “sviluppismo” capitalistico, afferma con incisività ancor maggiore e più profondo respiro teorico, che il tempo liberato da una drastica limitazione della giornata lavorativa

potrebbe costituire la condizione di un vero salto di civiltà. Dopo mezza giornata di lavoro le persone avrebbero tutto il tempo per dedicarsi ai loro passatempi, leggere, dipingere, andare per boschi, scrivere, ascoltare e fare musica, stare con gli amici, con i figli, con i genitori, occuparsi di politica, impegnarsi per l’ambiente e avere cura della natura, fare volontariato, visitare anziani o infermi. Quanto nuovo impegno civile potrebbe sorgere da tanto tempo sottratto alla fatica quotidiana? Quale nuovo contributo alla partecipazione democratica dei cittadini?”8

Non v’è dubbio che tali proposte mostrino un’effettiva consonanza, almeno parziale, con l’utopia concreta comunista marx-engelsiana. Ciò nondimeno, almeno due questioni debbono essere sollevate. In primo luogo, sul piano ontologico-sociale e assiologico non è ancora sufficiente che venga resa disponibile per gli individui una notevole quantità di tempo sottratta agli obblighi del lavoro necessario per la riproduzione sociale, in quanto le attività in essa svolte devono svincolarsi progressivamente da quella potente manipolazione estraniante che, funzionale alla creazione di tipi umani organici allo scorrimento generalizzato e pervasivo delle merci nell’epoca del capitalismo assoluto, tende a plasmare le relazioni dei singoli con l’ambiente circostante secondo il marxiano “senso dell’avere”, foriero di un depauperante “godimento immediato e unilaterale”, antitetico a quello sviluppo ricco e profondo di capacità consapevolmente e liberamente solidali e comunitarie, connotanti la libera individualità comunista.9

Non si tratta dunque soltanto di favorire la mera estensione quantitativa delle attività esercitate ma di sollecitare un approfondirsi delle medesime in vista di una formazione sociale complessiva della personalità che, da un lato, ne potenzi effettivamente le facoltà razionali, sensibili, relazionali ( «Un lavoro realmente libero, per esempio comporre, è al tempo stesso la cosa maledettamente più seria che ci sia», scrive Marx nei Grundrisse),10 dall’altro, consenta di farne veicolo di atti ideativi e posizioni teleologiche dirette alla realizzazione pratica di riconoscimenti umani socializzanti in senso non estraniante.11

Non scevra di considerevoli problemi appare poi la simpatia che molti teorici della decrescita mostrano per la piccola produzione indipendente, soprattutto in campo agricolo; Latouche, per esempio, partendo dal sacrosanto proposito di opporsi ad una produzione agricola inquinante e lesiva degli equilibri ambientali, dissennatamente intensiva e mercificante, sempre più controllata da poche grandi società che espropriano o affamano milioni di coltivatori diretti,12 sostiene fermamente la necessità di «restaurare l’agricoltura contadina, e cioè incoraggiare una produzione il più possibile locale, stagionale, naturale, tradizionale».13 Il che, ammettendo che non si diano soluzioni alternative effettivamente praticabili, comporta comunque una seria riflessione sui modi di attuazione dei processi di divisione e organizzazione del lavoro, pianificati e coordinati in forme democratiche in un ordinamento comunista della produzione e dell’intera vita sociale. Perché se probabilmente, in una fase di transizione, risulta indispensabile la redistribuzione della terra tra piccoli coltivatori e piccole comunità non più strozzati da un mercato mondiale «a collo di bottiglia»,14 ma restituiti a più dignitose modalità di lavoro e di esistenza nel contesto di un processo radicalmente democratizzante, sembra inevitabile chiedersi quanto tutto ciò, alla lunga, sia congruente con il diritto di ciascuno ad uno sviluppo riccamente multiforme della propria personalità (diritto, beninteso, non imposto con metodi coercitivi, brutali e negatori dei principi etico-sociali affermati astrattamente).

La questione ha, come si vede, valenze più generali e si intreccia altresì con l’esigenza affermata da Marx di umanizzare le attività necessarie alla riproduzione sociale e di renderle degne della natura umana, delle sue migliori potenzialità cognitive e relazionali. In un brano assai significativo dell’ Antidühring, recuperando razionalmente talune istanze dei socialisti utopisti, Engels sviluppa una durissima critica ad una divisione del lavoro immiserente e deformante, che, sottratta ad un’intelligente pianificazione mossa da profonde istanze umanistiche, mutila spiritualmente e fisicamente tanto gli appartenenti alle classi dominanti quanto i membri delle classi dominate:

La prima grande divisione del lavoro, la separazione tra città e campagna, ha immediatamente condannato la popolazione rurale all’istupidimento per migliaia di anni e i cittadini all’asservimento di ogni individuo al proprio mestiere individuale. Essa ha distrutto le basi dello sviluppo spirituale degli uni e dello sviluppo fisico degli altri. Se il contadino si appropria il suolo e il cittadino si appropria il suo mestiere, nella stessa misura il suolo si appropria il contadino e il mestiere si appropria l’artigiano. Essendo diviso il lavoro, anche l’uomo è diviso. Tutte le altre capacità fisiche e spirituali sono sacrificate alla formazione di una sola attività. Questa minorazione dell’uomo cresce nella stessa misura in cui cresce la divisione del lavoro, che raggiunge il suo più alto sviluppo nella manifattura. La manifattura scompone il mestiere nelle sue singole operazioni parziali, assegna ciascuna di queste operazioni ad ogni singolo operaio come compito della sua vita e così lo incatena vita natural durante ad una determinata funzione parziale e ad un determinato strumento. […] E non solo gli operai, ma anche le classi che sfruttano direttamente o indirettamente gli operai vengono, dalla divisione del lavoro, asservite allo strumento della loro attività; il borghese dallo spirito squallido, al proprio capitale e alla propria avidità di profitto, il giurista alle sue incartapecorite idee giuridiche che lo dominano come un potere per sé stante; i «ceti colti» in generale alle molteplici meschinità e unilateralità del proprio ambiente, alla propria miopia fisica e spirituale, al loro storpiamento prodotto dall’educazione impostata secondo una specializzazione e dall’incatenamento vita natural durante a questa specializzazione stessa, anche se poi questa specializzazione è il puro far niente.15

Engels conclude ribadendo una volta ancora, in radicale antitesi con le sciocchezze del presunto collettivismo massificante insito nel progetto comunista, la centralità della pienezza e profondità dello sviluppo individuale di ogni singolo per un’autentica socializzazione democratizzante degli scopi, dei mezzi e dei modi delle diverse attività economiche, sociali, politiche e culturali:

La società, impadronendosi di tutti i mezzi di produzione per usarli socialmente e secondo un piano, distrugge il precedente asservimento degli uomini ai loro propri mezzi di produzione. Evidentemente la società non si può emancipare senza che ogni singolo sia emancipato. Il vecchio modo di produzione deve quindi essere rivoluzionato sin dalle fondamenta e specialmente deve sparire la vecchia divisione del lavoro. Al suo posto deve subentrare un’organizzazione della produzione in cui, da una parte nessun singolo può scaricare sulle spalle di altri la propria partecipazione al lavoro produttivo, fondamento naturale dell’umana esistenza, in cui, dall’altra, il lavoro produttivo, anziché mezzo per l’asservimento, diventa mezzo per l’emancipazione degli uomini, poiché fornisce ad ogni singolo l’occasione di sviluppare e di mettere in azione tutte quante le sue capacità sia fisiche che spirituali in tutte le direzioni, consentendogli inoltre la partecipazione alle più alte attività culturali della specie in virtù di una drastica riduzione della giornata lavorativa «ad una misura che, secondo le idee odierne, è minima».16

Sebbene il senso e la direzione etico-sociale complessivi del discorso marx-engelsiano siano chiari, non ci si può tuttavia esimere dal sollevare nuovamente alcuni problemi al fine di conferire effettiva concretezza e fattibilità al progetto di una società non più capitalistica e ordinata secondo le grandi finalità umanistiche dei due pensatori rivoluzionari tedeschi. Ben pochi dubbi sussistono sul fatto che il funzionamento quotidiano di una società radicalmente rinnovata richieda una molteplicità di competenze scientifiche, tecniche, organizzative, che in nessun modo possono essere acquisite tutte da tutti. Un neurochirurgo, un ingegnere, un chimico ecc. posseggono capacità che possono diventare patrimonio personale solo con un lungo tirocinio e non possono ovviamente essere improvvisate, pena la catastrofe della riproduzione sociale complessiva. Come possono applicarsi in concreto, allora, le parole di Engels testé citate? Anzitutto, si tratta di favorire - in un contesto di drastica limitazione della produzione insensata di beni umanamente irrilevanti, di notevole riduzione della giornata lavorativa, di messa in atto della volontà socialmente operante di sollecitare l’arricchimento reale delle individualità dei singoli - l’estensione tendenzialmente generalizzata di attività lavorative ricche di contenuto culturale e scientifico,17 distribuendo altresì tra tutti, per periodi limitati di tempo e in forme democratiche, la partecipazione ad attività indispensabili ma più modeste (il che contribuirebbe probabilmente a formare in linea generale individui privi della spocchia associata al privilegio esclusivo di compiti di “prestigio”). La rilevanza della diffusione di competenze di alto livello, associate a rinnovati abiti culturali ed etici, al fine di garantire una effettiva partecipazione democratica alla gestione politico-sociale della vita pubblica quotidiana della comunità, non è certo sfuggita a Lenin, il quale si trovò negli anni immediatamente successivi alla presa del potere bolscevica di fronte al difficile compito di avviare realmente la costruzione di una società socialista che provasse a rompere con le logiche della riproduzione capitalistica. Le sue parole sono ancora oggi ricche di insegnamenti, nonostante anch’egli riproponga uno dei fondamentali errori teorici di Marx, errore denunciato con particolare efficacia da Gianfranco La Grassa e da Costanzo Preve, che ascrive a merito del primo, al di là delle sua totale cecità di fronte alle implicazioni filosofiche dell’opera marxiana, l’aver posto in rilievo tale deficienza teoretica.

Marx, a parere di la Grassa, coglie con piena ragione la necessità di sostituire alla contrapposizione tra dominati e dominanti una cooperazione solidale tra tutti gli agenti della produzione, ricongiunti con il “general intellect”, le “potenze mentali” scientifico-tecniche, e non più contrapposti da quella dinamica capitalistica, che la Grassa definisce in termini di incessante segmentazione antagonistica “verticale” (gerarchica) e “orizzontale” (frammentazione specialistica). Il pensatore di Treviri ritiene tuttavia erroneamente che le condizioni di un tale superamento storico delle modalità estranianti del cooperare umano si vengano in qualche misura già formando entro il modo capitalistico di produzione; secondo la prospettiva marxiana, infatti,

la centralizzazione dei capitali, connessa alla competizione che assicurerebbe la prevalenza dei pochi sui più, avrebbe dovuto condurre alla proprietà assenteista dei rentier (che sarebbero infine stati espropriati) e alla produzione controllata dai lavoratori (intellettuali e manuali, dirigenti ed esecutivi) che avrebbero avuto convenienza a cooperare, non a competere, tra loro. La piena collaborazione tra produttori sarebbe stata il fondamento della possibilità di un intreccio intersettoriale [realizzato] dalla pianificazione consapevole – del tutto equilibrato, che avrebbe garantito lo sviluppo continuo secondo i ritmi decisi dai produttori stessi in base alle esigenze della loro vita sociale.18

Marx, commenta Preve sulla scorta di tali osservazioni di La Grassa, si illudeva quindi che all’interno stesso della dinamica capitalistica della produzione si formasse un «lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, alleato con le potenze mentali della produzione», di cui «la classe operaia e proletaria [non fosse] che l’avanguardia politicamente e sindacalmente organizzabile»; le cose però non sono andate così, «dal momento che [questa] è solo un’astrazione teorica»,19 incompatibile con i processi di incessante contrapposizione antagonistica tra i diversi agenti della produzione attuata dalla riproduzione sociale del capitale.

Lenin, dal canto suo, condivideva certo l’illusione marxiana, ma, al contempo, dovendo realmente porsi il compito di edificare una società socialista, non poteva non constatare quanto le classi lavoratrici fossero di per sé incapaci di guidare il processo di transizione, come dovessero attrezzarsi culturalmente ed eticamente per un tale compito, che assumeva sempre più quindi i connotati di quello che effettivamente deve essere: un progetto concreto, fattibile e funzionante, di superamento delle estraniazioni classiste e capitalistiche in vista dell’affermazione sociale tendenziale della libera individualità comunitaria di ciascuno, realizzato da tutti coloro che divengono consapevoli dell’esigenza etico-politica di una simile trasformazione intermodale. Rifiutando sdegnosamente la greve retorica della «cultura proletaria», foriera di imbelle ignoranza presuntuosa e nefasta, il grande rivoluzionario russo sostiene con forza che un’autentica cultura comunista

deve consistere nello sviluppo sistematico di tutto il sapere che fu elaborato dall’umanità sotto il giogo della società dei capitalisti, della società dei proprietari fondiari, della società dei burocrati […]. Si può diventare comunisti soltanto se si arricchisce la propria memoria con tutta la ricchezza di conoscenze che l’umanità ha elaborato […]. Se un comunista volesse vantarsi del suo comunismo per essersi impadronito di conclusioni bell’e fatte, senza aver compiuto un lavoro che è tra i più difficili e i più seri, senza comprendere i fatti che egli deve esaminare criticamente, questo comunista sarebbe ben meschino. Una tale superficialità sarebbe veramente una rovina. Se so di sapere poco, farò in modo di sapere di più; ma se una persona afferma di essere comunista e di non aver bisogno di saper niente di serio, non diventerà mai nulla di simile ad un comunista.20

Ovviamente, Lenin non disgiunge mai la necessità di acquisire competenze indispensabili al funzionamento quotidiano della nuova società in via di formazione e al suo controllo democratico, dall’esigenza di sviluppare una nuova dimensione assiologica concretamente operante sul piano sociale, che faccia agire quelle indispensabili capacità secondo i fini propri del progetto trasformativo comunista;21 e la concretezza non astrattamente utopistica di tali esigenze è ben rimarcata da Lukács, il quale commentando un brano del leniniano Stato e rivoluzione sull’aqui-sizione dell’abitudine a seguire le regole elementari della convivenza sociale da tutti conosciute da secoli, osserva con notevole finezza che il “salto” qualitativo realizzato dal comunismo non crea nulla di assolutamente nuovo, ma fa “semplicemete” pervenire a «universalità sociale totale determinati atteggiamenti, comportamenti, ecc. umani che fino a quel momento avevano potuto realizzarsi inefficacemente solo come “eccezioni”».22

La socializzazione democratizzante dei mezzi di produzione costituente l’orizzonte storico indispensabile alla universalizzazione della tendenza teleologica a sviluppare la libera individualità dei singoli, deve quindi contemperarsi, sulla base di quanto si è finora venuti dicendo, con le necessità di funzionamento pratico quotidiano della società comunista, nella quale, per intenderci, deve efficacemente operare quella fitta rete di attività produttive e di servizi indispensabile al “ben essere” di tutti. La pianificazione di ciascun settore, relativamente alla riproduzione della totalità sociale e all’attuazione delle sue essenziali finalità etiche, antropologiche, comunitarie, deve quindi necessariamente essere frutto del lavoro collettivo di molte persone e di molte competenze, beninteso in un clima di totale libertà di espressione e pensiero, anche formalmente garantita.23

Gravemente lesivo della stessa possibilità di dar vita ad un’autentica quotidianità sociale comunista sarebbe per esempio il ripetersi di quanto accaduto nei precedenti tentativi di dar vita a società socialiste. Il comunista tedesco Robert Havemann, stolidamente perseguitato dalle autorità della defunta Repubblica democratica tedesca, sviluppa alcune osservazioni di notevole acume teorico, che evidenziano assai bene come una pianificazione rigidamente centralizzata, soffocatrice di una libera e democratica circolazione di informazioni, sia destinata ad un fallimento coinvolgente i più pressanti ed elementari bisogni quotidiani. Convinto assertore della piena legittimità storica dei tentativi compiuti per trascendere l’orizzonte classista e capitalista della società, Havemann, nel suo libro del 1980 Domani, formula alcune proposte che consentano di superare le storture dei paesi del cosiddetto “socialismo reale”, la DDR in particolare:

Io inizio con le richieste economiche, con le più semplici. Esse riguardano l’approvvigionamento dei più vitali beni di consumo. Ciò che è in discussione non è il prezzo, la quantità e la qualità dell’offerta, ma l’ingiustizia e l’inadeguatezza della distribuzione delle merci, tanto in senso temporale che spaziale. Determinate merci scompaiono sempre daccapo, il tempo in cui le si poteva comprare senza interruzioni, in quantità sufficienti e dappertutto finisce per motivi inspiegabili e per mesi esse sono introvabili. Quando esse vengono richieste, appare sul viso delle commesse il sorriso già tipico della Rdt, che dovrebbe esprimere il sospetto che il richiedente viva certo sulla luna. Si tratta per lo più di cose assai comuni, come candele o lenzuola, apriscatole o batterie per auto, ecc. Improvvisamente come mosse da una mano fatata, esse scompaiono dai negozi e i pochi posti dove si possono ancora trovare diventano segreti, infine riappaiono dappertutto come se non fosse accaduto nulla.24

Di certo, continua l’autore, i sostenitori dell’economia di mercato imputano tutto ciò alla mancanza di libera iniziativa, per cui nessuno è seriamente interessato ad un veloce e regolare approvvigionamento dei beni.

Naturalmente è vero che nell’economia capitalistica qualsiasi impasse nell’approvvigionamento viene subito individuata dagli abili commercianti e sfruttata nel modo più vantaggioso possibile. Ma perché non potrebbero esserci anche da noi persone che individuano simili difficoltà? Anche da noi ce ne sono, naturalmente. Ciascuno incappa in simili handicap. Solo che non si ha la possibilità di ricavare da essi dei vantaggi personali, escluso forse il mercato nero. E tuttavia non esiste neppure la possibilità di rendere pubbliche le proprie scoperte, come sarebbe naturale. Già in queste semplici questioni vale il principio generale della nostra informazione di massa: non può essere ciò che non deve essere, ragion per cui rendere noti i limiti dell’approvvigionamento delle merci sarebbe vilipendio di Stato. Già a questo infimo livello [e in ciò sta l’essenza dell’argomentazione di Havemann] sono visibili le conseguenze della mancanza di democrazia. Infatti non si può immaginare un mezzo più efficace contro la sciatteria nell’azione degli organi di Stato di un giornale sul quale ogni giorno si possa leggere cosa e dove c’è e che cosa non si trova, informazioni possibilmente affiancate dai risultati delle ricerche di valenti giornalisti sulle cause di questa catena.”25

Al di là dei limiti storici e locali dell’analisi e della proposta del pensatore tedesco, è evidente che una questione decisiva in un’economia che voglia al contempo essere effettivamente socializzata, pianificata e funzionante è legata alla primaria esigenza di bilanciare le competenze tecnico-organizzative con la partecipazione comunitaria dal basso, del tutto democratica, dato che è proprio la ricchezza e la libertà non manipolata della circolazione delle informazioni uno degli strumenti più utili per consentire di sostituire, con assai maggior equità e rispetto della dignità di ciascuno, in tempi ragionevolmente brevi, i movimenti dei prezzi e degli investimenti di un’economia mercantile volta al profitto con un reale, sollecito orientamento a soddisfare ineludibili bisogni delle persone. In tal modo, inoltre, sembrerebbe diventare più semplice combattere il possibile ricostituirsi di una casta autoreferenziale di dominanti, cosa altresì ostacolata da quel generale aumento del livello di conoscenza e consapevolezza etico-culturale dei membri della comunità, che è precedentemente apparsa come un’altra essenziale necessità della costituzione di una comunità comunista democratica.

Ovviamente, nessuna delle scarne osservazioni contenute in queste pagine può pretendere di sostituire il compito collettivo di specifica progettazione sistematica – e naturalmente soggetta a rettifiche – di una società radicalmente rinnovata. Continuare però a differire questo compito, non comprendendo quanto di filosoficamente decisivo e concretamente utopico vi sia già nel progetto comunista marx-engelsiano, al di là del grado di coscienza che i loro autori potevano storicamente averne, significa condannarsi probabilmente ad un ribellismo impotente, accompagnato nei fatti a rivendicazioni riformistiche, certamente apprezzabili nell’immediato ma in fondo sterili, poiché dissociate da un più profondo orizzonte teorico e strategico.


Note
1 Costanzo Preve, Marx inattuale. Eredità e prospettiva, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, pp. 163-164. Riportiamo di seguito per esteso, data la sua importanza, il passo di Marx sopra citato: «Ciascun individuo possiede il potere sociale sotto la forma di una cosa. Strappate alla cosa questo potere sociale e dovrete darlo alle persone sulle persone. I rapporti di dipendenza personale (all’inizio su una base del tutto naturale) sono le prime forme sociali, nelle quali la produttività umana si sviluppa soltanto in un ambito ristretto e in punti isolati. L’indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale è la seconda forma importante in cui giunge a costituirsi un sistema di ricambio sociale generale, un sistema di relazioni universali, di bisogni universali e di universali capacità. La libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, quale loro patrimonio sociale, costituisce il terzo stadio. Il secondo crea le condizioni del terzo. Sia le condizioni patriarcali sia quelle antiche (e anche feudali) crollano perciò con lo sviluppo del commercio, del lusso, del denaro, del valore di scambio, nella stessa misura in cui di pari passo si innalza la società moderna». (Cfr., oltre alla p. 163 del menzionato scritto di Preve, i marxiani Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1858, La Nuova Italia, Firenze, 1997, vol. I, pp. 98-99).
2 Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro terzo [pubblicato postumo, a cura di Friedrich Engels, nel 1894], Editori Riuniti, Roma, 1977, p. 933.
Friedrich Engels, La questione delle abitazioni [1872-1873], Editori Riuniti, Roma, 1988, p. 52
4 Cfr. Guy Debord, La società dello spettacolo [1967], Baldini&Castoldi, Milano, 2001-2002, pp. 72-73.
Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione [1964], Einaudi,Torino,1991, p.250.
Per una introduzione seria competente tali temi, ci limitiamo citare: Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena [2007], Bollati Boringhieri, Torino, 2008; Piero Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari, 2008; Marino Badiale - Massimo Bontempelli, Marx e la decrescita, abiblio, Trieste, 2010.
S. Latouche,op.cit.,p.85.
P. Bevilacqua, op. cit., p. 216.
9Cfr. Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844in K. Marx,Opere filosofiche giovanili, a cura di Galvano Della Volpe [1950], Editori Riuniti, Roma, 1977, pp. 228 -231. Sulle forme contemporanee dell’estraniazione, valga per tutti il capolavoro di György Lukács, Per l’ontologia dell’essere sociale [postumo, 1976], vol. II, Editori Riuniti, Roma, 1981, in particolare le pp. 754-808.
10 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1858cit., vol. II, p. 278.
11 A proposito della democratizzazione socialista, Lukács scrive che «suo compito è di compenetrare realmente l’intera vita materiale di tutti gli uomini; dalla quotidianità fino alle questioni decisive della società, di dare espressione alla loro socialità in quanto prodotto dell’attività personale di tutti gli uomini» (György Lukács, L’uomo e la democrazia [postumo, 1985], Lucarini, Roma, 1987, p. 67).
12 Su tali temi cfr. anche, per esempio: P. Bevilacqua, Miseria dello sviluppocit.; Vandana Shiva, Ritorno alla terra [2008], Fazi Editore, Roma, 2009; Raj Patel, I padroni del cibo [2007], Feltrinelli, Milano, 2008; Arundhati Roy, I fantasmi del capitale [2014], Guanda, Parma, 2015.
13 S. Latouche, Breve trattato sulla decrescita serenacit., p. 85.
14 Cfr. R. Patel, op. cit., pp.15-17.
15 Friedrich Engels, Antidühring [1878], Editori Riuniti, Roma, 1971, pp. 312-313.
16 F. Engels, op. cit., p. 314.
17 Marx, nei Grundrissescrive ad esempio: «Il lavoro di produzione materiale può acquistare questo carattere [di lavoro libero] 1) se è posto il suo carattere sociale, 2) se è di carattere scientifico, e al tempo stesso è lavoro universale, se è sforzo dell’uomo non come forza naturale appositamente addestrata, bensì come soggetto che nel processo di produzione non si presenta in forma meramente naturale, primitiva, ma come attività regolatrice di tutte le forze naturali.” (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1858, cit., vol. ii, pp. 278-279). Lukács, a sua volta, evidenzia come in un rinnovato processo di vita sociale le posizioni teleologiche relative alla progettazione di nuova tecnologia dovranno combinare la necessaria funzionalità di essa col “fne di renderla sensata per il lavoratore, [allo scopo di] trasformare il lavoro in un’esperienza degna d’essere vissuta.” Cfr. Wolgang Abendroth – Hans Heinz Holz – Leo Kofer, Conversazioni con Lukács [1967], De Donato, Bari, 1968, pp. 65-66.
18 Gianfranco La Grassa, Gli strateghi del capitale. Una teoria del confitto oltre Marx e Lenin, manifesto libri, Roma, p. 117.
19 Cfr. C. Preve, Marx inattuale. Eredità e prospettivacit., p.133.
20 Vladimir Ilic Lenin, I compiti delle associazioni giovanili [1920], in V. I. Lenin,Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1976, pp. 1489-1490. Per un’analisi più accurata del pensiero leniniano su tali temi, mi permetto di rinviare al mio Scritti su democrazia, comunismo e materialismo, Librerie CUEM, Milano, 1996.
21 Cfr., per esempio, tra molti scritti leniniani che si potrebbero citare, Meglio meno ma meglio [1923], in V. I. Lenin, op. cit., pp. 1815-1827.
22 G. Lukács, L’uomo e la democraziacit., p. 72.
23 Cfr. la vibrante rivendicazione del diritto formalmente garantito di pensiero ed espressione in Costanzo Preve, Contro il capitalismo oltre il comunismo, Editrice C.R.T., Pistoia, p. 12.
24 Robert Havemann, Domani. La società contemporanea al bivio: distruzione o Utopia [1980], De Donato, Bari, pp. 242-243.
25 R. Havemann, op. cit., pp. 243-244.

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