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Marx e la decrescita. Per un buon uso del pensiero di Marx

di Marino Badiale e Massimo Bontempelli

Questo saggio, il cui titolo nomina Marx e la decrescita, è ovviamente rivolto in primo luogo alle persone interessate a Marx e a quelle interessate alla decrescita, e il primo obiettivo che ci poniamo è quello di suscitare una discussione costruttiva fra questi due gruppi.

1. Introduzione.

E’ noto che, in genere, fra coloro che continuano a ricavare ispirazione dal pensiero di Marx e coloro che in tempi recenti hanno iniziato a teorizzare la decrescita non corrono buoni rapporti. I primi tendono a vedere la decrescita, nel migliore dei casi, come un’aspirazione soggettiva di natura socialmente ambigua, mentre i “decrescisti” vedono nel pensiero di Marx nient’altro che una versione “di sinistra” dell’idolatria dello sviluppo che oggi domina il mondo e contro cui intendono combattere. Giudichiamo questa contrapposizione del tutto negativa, e cercheremo in questo saggio di mostrare le ragioni di questo nostro giudizio.

La prima tesi generale che ci sforzeremo di argomentare nel seguito può essere così enunciata, in una sintesi quasi da slogan: “coloro che seguono le teorie di Marx hanno bisogno della decrescita, la decrescita ha bisogno di Marx”. E con questo intendiamo dire quanto segue: da una parte, oggi ogni teoria ispirata a Marx ha bisogno della decrescita perché essa rappresenta l’unica formulazione possibile di un anticapitalismo adeguato alla realtà del capitalismo attuale; dall’altra, la decrescita ha bisogno del pensiero di Marx perché in esso si trovano alcuni fondamenti teorici indispensabili per l’elaborazione di una proposta teorica e politica adeguata ai problemi che la decrescita stessa individua.

Queste affermazioni ci portano alla seconda tesi fondamentale di questo saggio, che è la seguente: solo dall’incontro fra il pensiero di Marx e decrescita può nascere un anticapitalismo che sia capace di confrontarsi, sul piano teorico e politico, con la realtà del capitalismo attuale. La nascita di una tale forma di anticapitalismo è ormai una necessità stringente. La dinamica dell’attuale fase capitalistica sta infatti spingendo il mondo verso un baratro spaventoso, ma la percezione sempre più diffusa, anche se in maniere ancora indefinite, di una tale tendenza, non riesce ancora a tradursi in un movimento politico in grado di incidere davvero sulla realtà. Noi crediamo che l’incontro fra il pensiero di Marx e la decrescita sia una precondizione perché si possano combattere con efficacia le dinamiche mortifere del mondo attuale. Questo scritto, quindi, non si rivolge solo a coloro che sono interessati a Marx o alla decrescita, ma a tutti coloro che avvertono il carattere distruttivo dell’attuale capitalismo mondiale e cercano di contrastarlo.
 

2. La decrescita.

Il nostro intento di costruire un terreno di confronto costruttivo fra il pensiero di Marx e il pensiero della decrescita sarà posto in opera parlando soprattutto di Marx e marxismo, e meno della decrescita. Il motivo è semplice: la discussione su Marx e sul marxismo dura ormai da un secolo e mezzo, e la storia di questo secolo e mezzo di discussioni è talmente ricca, complicata, diversificata, conflittuale, da rendere molto elevata la possibilità di essere fraintesi, e di conseguenza inevitabile una lunga serie di chiarimenti, precisazioni, distinzioni.

Al contrario la decrescita è una proposta recente di riorganizzazione della società sulla base di assunti teorici semplici e lineari, e non ha quindi conosciuto scontri e fratture paragonabili a quelli avvenuti nell’ambito del marxismo. Almeno nell’essenziale, il suo contenuto teorico è per il momento sufficientemente “chiaro e distinto”, per dirla con Descartes. In questo paragrafo ne offriamo una versione estremamente sintetica[1].

Il punto fondamentale da cui partire per comprendere la nozione di decrescita è la distinzione fra beni d’uso da una parte e merci dall’altra. “Merce” non è sinonimo di bene o servizio, ma è un bene o servizio prodotto per il mercato in vista di un profitto e dotato quindi di un prezzo.

Non c’è sul piano teorico alcun rapporto necessario tra aumento quantitativo delle merci, diffusione del benessere e progresso delle conoscenze. Per un lungo periodo storico, fino a tutti gli anni Sessanta del secolo scorso, l’allargamento della scala di produzione di merci, pur con tanti risvolti negativi, è stato effettivamente associato, in un quadro storico complessivo, alla diffusione del benessere economico, all’ampliamento della libertà individuale, all’avanzamento dei costumi e delle conoscenze. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, però, l’ulteriore aumento quantitativo dei beni prodotti per il mercato è stato sempre più correlato, non accidentalmente (come mostra una vasta letteratura economica e sociologica), alla crescita delle diseguaglianze sociali, alla riduzione delle risorse destinate alla protezione sociale, a minori diritti del lavoro dipendente, alla diminuzione del tempo libero dal lavoro, allo sviluppo di processi di de-emancipazione e di marginalizzazione, cioè a indicatori precisi di un diminuito benessere della maggioranza della popolazione e di una minore libertà individuale.

Un altro punto da comprendere riguardo alla decrescita è che essa, proprio perché riguarda le merci e l’incorporazione di energia e materie prime nei prodotti, non i beni ed i servizi in quanto tali, non è affatto un progetto francescano di rinuncia alla ricchezza economica (o almeno non lo è nell’idea a cui qui si fa qui riferimento, ad esempio di Latouche o Pallante; certamente ci sono idee non condivisibili di decrescita, come al tempo di Marx c’erano idee non condivisibili di comunismo o socialismo). E’ un rifiuto dello sviluppo capitalisticamente inteso, cioè dell’unica nozione di sviluppo oggi diffusa e compresa, che schiaccia quanti non vogliono accettare investimenti economici che devastano il territorio. Ed è una presa d’atto delle necessità non di fruire di meno beni, ma di consumare meno merci, e soprattutto meno energia e meno territorio.

Diversi sono, nel nostro tempo, i casi in cui una vita migliore e più libera è correlata ad una minore quantità di beni. Nei paesi più sviluppati una dieta più sana presuppone il consumo di una minore quantità dei tanti prodotti altamente sofisticati e calorici dell’industria alimentare. Nelle città degli Stati Uniti una minore esposizione ai rischi presuppone una diminuzione delle armi da fuoco vendute e comprate. Una più libera fruizione delle nostre spiagge e delle nostre scogliere presuppone una minore quantità di colate di cemento sulle nostre coste. E via dicendo. In diversi altri casi, invece, la libertà individuale e la creatività mentale richiedono che la disponibilità di beni e servizi non diminuisca, oppure che aumenti.

Ma attenzione: una disponibilità accresciuta di beni e servizi può essere realizzata anche in un contesto non di sviluppo, ma di decrescita.

Un esempio: immaginiamo che il nostro sistema sanitario cominci a svolgere una seria attività di prevenzione ecologica delle patologie mediche, e, con un’immaginazione ancor più sganciata dalla realtà attuale, che il nostro sistema politico e amministrativo produca e faccia rispettare leggi che riducano drasticamente i rischi di infortuni sul lavoro e di contatto nell’ambiente con sostanze patogene.

In una tale situazione il cittadino fruirebbe di migliori servizi sanitari e potrebbe maggiormente disporre di quei beni preziosi che sono cure mediche attente alle persone e basate su buone informazioni ambientali, nel quadro non di uno sviluppo, ma di una decrescita dell’economia.

Infatti il contributo del sistema sanitario allo sviluppo dell’economia è dato dalla quantità di farmaci immessi sul mercato, dagli apparecchi diagnostici smerciati, dai tempi delle degenze ospedaliere, che evidentemente diminuirebbero nel caso di un’efficace prevenzione di diverse patologie e di una drastica diminuzione di malattie e infortuni sul lavoro.

Fin qui abbiamo parlato delle conseguenze negative dello sviluppo per la vita sociale. Non spendiamo molte parole per ricordare le conseguenze negative per l’ambiente naturale, perché su di esse c’è ormai una vasta letteratura. Ricordiamo solo che il peggioramento dell’ambiente non è una astrazione, ma si traduce in peggioramento della qualità della vita (depauperamento ed avvelenamento delle falde acquifere, pessima qualità dell’aria respirata, accumulo di rifiuti non smaltibili senza danni, nocività degli alimenti, dai pesci al mercurio alle carni agli ormoni e agli antibiotici ecc.).

La crescente invivibilità dell’ambiente per effetto dello sviluppo è una tale evidenza, di cui ciascuna persona psichicamente sana ha percezione quotidiana, che per negarla bisogna essere o privilegiati che hanno ancora per lungo tempo i mezzi per sottrarsi a gran parte delle sue venefiche conseguenze, o sciocchi resi tali da una radicale atrofia dell’anima.

In Italia uno dei modi in cui si manifesta la nocività dello sviluppo è quello di progetti economici che tendono a invadere e distruggere il territorio con strutture e opere di vario tipo.

Questa invasività e queste devastazioni sono inevitabili, all’interno dell’odierno meccanismo dello sviluppo. Infatti lo sviluppo non può fare a meno dell’accumulazione di realtà fisiche sul territorio (strutture produttive, infrastrutture edilizie come autostrade e aeroporti, strutture commerciali, mezzi di trasporto, rifiuti che occorre smaltire in qualche modo).

Ma il territorio italiano è saturo (altrove la situazione può essere diversa): l’Italia è un paese piccolo e sovrappopolato, il cui territorio è stato da tempo invaso dalle realtà fisiche legate allo sviluppo.

Non essendoci più spazio libero, le nuove strutture fisiche necessarie per lo sviluppo possono inserirsi solo in una realtà fisica e sociale già organizzata, mettendone in crisi gli equilibri.

In parole povere, le nuove strutture devono invadere la vita quotidiana degli abitanti del territorio, sconvolgendola. L’opposizione da parte degli abitanti del territorio attaccato è dunque naturale e istintiva, non necessariamente derivante da opzioni politiche e ideologiche generali, e quindi può certo presentare molti limiti, specie nella fase iniziale.

Il punto cruciale sta però nel fatto che essa va nella direzione della critica dello sviluppo, anche se i suoi attori possono non averne coscienza. Con questo intendiamo dire che la prospettiva della critica dello sviluppo è l’unica che renda coerenti queste lotte, dando ad esse un valore e un respiro generali.

Al di fuori di tale prospettiva, queste lotte possono essere facilmente criticate e isolate indicandole come espressione di egoismi locali che devono cedere il passo all’interesse generale. La risposta a questa critica sta appunto nell’indicare il rifiuto dello sviluppo, cioè la decrescita, come interesse generale del paese. Queste lotte hanno quindi, al di là della coscienza dei singoli individui che vi partecipano, un carattere di radicale contestazione dell’attuale ordinamento economico e sociale[2].

 
3 .”L’intelletto, cioè la capacità della ragione di distinguere”[
3] .

Introduciamo adesso, come annunciato sopra, alcune distinzioni e precisazioni relative al nostro modo di utilizzare il pensiero di Marx. Per cominciare a parlare di marxismo e pensiero di Marx occorre innanzitutto distinguere questi due termini.

Abbiamo scritto sopra che la decrescita ha bisogno “di Marx” e non “del marxismo” proprio per sottolineare l’importanza di tale distinzione. Essa è ormai moneta corrente fra gli studiosi di Marx, ma forse conviene ribadirla.

Il marxismo come movimento teorico-politico è una costruzione successiva alla morte di Marx.

Tale costruzione è dovuta in parte ad Engels, ma soprattutto ai dirigenti della socialdemocrazia europea, tedesca in primo luogo, che avevano bisogno di una ideologia di legittimazione del movimento operaio che stavano organizzando. Data la situazione culturale dell’epoca, era inevitabile che il marxismo come ideologia del movimento operaio assumesse un inquadramento di tipo positivistico e scientistico.

Sarà tale inquadramento a permettergli una grande efficacia pratica, a spese però di una distorsione dei concetti di Marx e di una riduzione della teoria sociale a un sistema semplificato e dogmatico spacciato per scientifico.

Il dogmatismo è infatti il necessario esito di ogni forma di scientismo.

Lo scientismo è definito dall’assunzione della moderna scienza della natura come unica forma di conoscenza razionale. Si tratta di un presupposto non dimostrato scientificamente né argomentato razionalmente[4], e cioè, appunto, di un dogma. Il carattere religioso del positivismo del tardo Comte, o anche quello del marxismo come movimento politico organizzato, non è quindi casuale ma si collega in profondità al carattere dogmatico di ogni forma di positivismo e scientismo.

Il peso di tale inquadramento positivistico del marxismo e la difficoltà di liberarsene si possono cogliere in un paio di esempi. Il primo è quello di Labriola.

In Italia Antonio Labriola è il primo serio studioso di Marx a livello accademico. Egli si sforza di inserire il pensiero di Marx in una riflessione culturale di alto livello, fornendo quindi al nascente movimento socialista uno strumento di grande valore nella lotta per l’egemonia culturale.

Ma proprio nel fare questo Labriola critica e supera le interpretazioni positivistiche di Marx, e questo lo allontana dalla cultura dei gruppi dirigenti del movimento operaio.

Labriola non partecipa al congresso di Genova del 1892, congresso dal quale nasce il Partito Socialista Italiano, e verrà sempre tenuto in disparte dai dirigenti del partito. Il secondo esempio è quello di Lenin.

Se consideriamo due suoi testi filosofici, Materialismo ed empiriocriticismo, scritto nel 1908-09, e la parte relativa alla logica hegeliana dei Quaderni filosofici, scritta nel 1914-15, scopriamo che il primo è imbevuto di positivismo ottocentesco, che è appunto la filosofia a cui egli aderisce per tutta la prima fase della sua vita, mentre nel secondo tale posivitismo è del tutto superato[5].

Ora, è ben noto che di questi due testi è Materialismo ed empiriocriticismo ad essere stato largamente recepito nel movimento comunista e ad averne influenzato il senso comune.

I Quaderni filosofici, nonostante rappresentino la più matura espressione del pensiero filosofico di Lenin, sono stati conosciuti, anche nei momenti di massima diffusione e prestigio del cosiddetto “marxismo-leninismo”, soltanto da pochissimi studiosi.


4. Altre distinzioni.

Con queste osservazioni iniziali sulla distinzione fra marxismo e pensiero di Marx non intendiamo naturalmente dire che la storia del marxismo sia un errore durato un secolo o più.

Il marxismo storicamente esistito ha prodotto molto ciarpame ideologico e dogmatico, ma anche molte analisi interessanti e creative. La nostra intenzione non è qui fare un bilancio del marxismo, ma solo precisare che marxismo e pensiero di Marx sono due cose diverse, anche se naturalmente interconnesse, e che, scrivendo “la decrescita ha bisogno di Marx”, intendevamo sottolineare che è proprio nel pensiero di Marx che si possono ritrovare alcuni elementi concettuali decisivi per una convincente fondazione teorica della decrescita.

Il passo successivo in questa analisi consiste nel rendersi conto che lo stesso pensiero di Marx presenta una grande complessità, anche solo riferendosi al Marx maturo.

In Marx coesistono diverse teorie, che riguardano oggetti diversi e utilizzano metodologie diverse.

Per cominciare a fissare le idee, e fare un po’ di chiarezza, conviene distinguere tre teorie diverse presenti nel Marx maturo:

a. Il materialismo storico. E’ questa una teoria che spiega come si generano i fatti storici. Il suo oggetto è quindi l’intera storia umana, e la sua metodologia si basa sull’interazione fra alcuni assunti teorici generali e la ricerca empirica sulle concrete vicende storiche delle diverse società umane.

Gli assunti teorici del materialismo storico consistono essenzialmente nel rimandare alla sfera della produzione come sfera “in ultima istanza determinante” dell’accadere storico, e nel concettualizzare tale sfera attraverso la nozione di “modo di produzione” che deriva dall’articolazione di “forze produttive” e “rapporti di produzione”.

Questi assunti teorici generali non dicono quale sia la specifica articolazione di forze produttive e rapporti di produzione in ogni società determinata, né come si realizzi caso per caso la “determinazione in ultima istanza” dei vari ambiti sociali da parte della sfera della produzione materiale.

Si tratta di questioni che possono essere affrontate solo in collegamento con la ricerca storica empirica, verso la quale la metodologia del materialismo storico presenta dunque una ampia apertura.

b. La teoria del modo di produzione capitalistico. Si tratta di una teoria chiaramente diversa dalla precedente, sia nel suo oggetto sia nella sua metodologia.

La diversità dell’oggetto è tale sotto due aspetti:

in primo luogo la teoria parla di una formazione sociale storicamente determinata e non dell’intera storia umana.

In secondo luogo, e soprattutto, essa parla della struttura logica della formazione sociale stessa, che è ciò appunto che indichiamo come “modo di produzione”, e non della sua storicità empirica.

Il modo di produzione che la teoria concettualizza è cioè la logica fondamentale della società capitalistica, ma non coincide con una concreta fase storica di un paese capitalista, per esempio con l’Inghilterra del secolo XIX o gli Stati Uniti del secolo XX.

La diversità della metodologia è data dalla deduzione dialettica delle forme globali del modo di produzione capitalistico, deduzione dialettica che è ovviamente cosa ben diversa dalla ricerca storica empirica che è propria del metodo del materialismo storico[6].

c. La teoria della rivoluzione comunista. Si tratta di una teoria di tipo sociologico e politologico, che cerca di individuare le forze sociali e i meccanismi politici sui quali basare una forza politica rivolta al superamento rivoluzionario della società capitalistica.

La teoria marxiana della rivoluzione indica nelle classi sfruttate all’interno del modo di produzione capitalistico il soggetto sociale in grado di abbattere questo modo di produzione e di instaurarne un altro.
 

Queste tre teorie si pongono su piani diversi e sono irriducibili l’una all’altra. Se non si coglie questo punto appaiono, nell’esame dei testi di Marx, problemi e contraddizioni che in realtà non esistono.

Facciamo un esempio. Nel Manifesto Marx ed Engels affermano con forza la tesi dell’immiserimento crescente del proletariato, presentato come dato di fatto su cui basare la prospettiva rivoluzionaria.

Nel XV capitolo del I libro del Capitale Marx presenta invece la possibilità teorica che lo sviluppo capitalistico porti ad un aumento del livello di vita degli operai.

Al capitalista infatti interessa che diminuisca il valore della forza-lavoro, ma è logicamente possibile, in presenza di un generale aumento della produttività, che la diminuzione del valore della forza-lavoro, quindi del valore delle merci necessarie alla vita del proletario, coesista con una maggiore estensione dei valori d’uso incorporati nel minore valore di scambio dei beni-salario.

C’è una contraddizione fra queste due posizioni di Marx? Ha forse egli cambiato idea, nei circa vent’anni che passano dal Manifesto alla prima edizione del Capitale?

La risposta è che le due tesi sono su due piani diversi e appartengono a due teorie diverse. Nel Capitale Marx sta indagando la struttura astratta del modo di produzione capitalistico e ne presenta le varie possibilità logiche, rimanendo storicamente indeterminato quale di esse si realizzi poi nella storia concreta.

Nel Manifesto Marx ed Engles determinano forme e modi della rivoluzione proletaria sulla base della fase storica in cui si trovano.

Abbiamo quindi da una parte una analisi teorica delle varie possibilità implicite nel concetto di “modo di produzione capitalistico” (siamo cioè sul piano teorico che nell’elenco visto sopra corrisponde al punto b), dall’altra l’analisi di una fase storica e delle possibilità rivoluzionarie in essa implicite (siamo cioè sul piano teorico indicato al punto c).
 

5. Quale filosofia di Marx?

Di fronte alla presenza di queste tre diverse teorie, sorge spontanea la domanda di quale sia il tessuto connettivo che le collega, lo sfondo teorico generale o il contesto categoriale che le accomuna. In una parola, la constatazione dell’esistenza di (almeno) tre teorie diverse in Marx ci porta alla questione di quale sia la “filosofia di Marx”.

Anticipiamo la risposta: Marx non ha mai chiarito fino in fondo questo problema, e una filosofia di Marx in sostanza non c’è.

In una fase della sua vita, quella dei primi anni Quaranta, fra l’abbandono dell’hegelismo e l’elaborazione del materialismo storico, Marx aderisce in effetti esplicitamente ad una filosofia, cioè al materialismo filosofico di Ludwig Feuerbach.

Ma questa filosofia non può rappresentare la filosofia di collegamento delle teorie del Marx maturo, perché la prima di tali teorie che sopra abbiamo ricordato, cioè il materialismo storico, nasce, fra l’altro, proprio come critica e superamento del materialismo filosofico di Feuerbach, e questo non per accidente, ma perché vi è effettiva contraddizione fra il materialismo feuerbachiano e il materialismo storico, come è indicato in forma pregnante nelle celebri Tesi su Feuerbach.

Dopo aver abbandonato il materialismo di Feuerbach Marx non aderisce esplicitamente ad una specifica filosofia, e rispetto a questo problema si trovano, nell’insieme dei suoi scritti, indicazioni contraddittorie e non risolutive. Marx in alcune lettere dichiara la sua intenzione di scrivere un’opera di filosofia basata su Hegel, e in vari passi ribadisce la sua stima per il grande filosofo idealista, criticando chi lo tratta come un “cane morto”.

In altri momenti sembra assumere come fondamento filosofico della sua opera il materialismo storico, che in questo modo si trasforma da teoria della genesi dei fatti storici in una metafisica della storia.

Infine, in altri momenti sembra dire che la propria filosofia è implicita nell’opera scientifica di analisi storica ed economica che egli andava svolgendo.

Nessuna di queste indicazioni ci permette di risolvere il problema della “filosofia di Marx”. Esaminiamole.

Per quanto riguarda la prima indicazione, l’opera filosofica di Marx basata su Hegel non è stata scritta, e non ne possiamo ovviamente discutere. I passi nei quali Marx cerca di precisare valore e limiti della dialettica hegeliana sono troppo scarni per poter essere considerati l’esplicitazione della “filosofia di Marx”. Si può certo sostenere che nella sua indagine scientifica del modo di produzione capitalistico Marx utilizza in modo determinante alcuni elementi dell’apparato categoriale hegeliano.

E’ questa una tesi sostenuta di recente, in modo molto convincente, da vari autori[7].

Ma è chiaro che utilizzare un apparato categoriale determinato (in questo caso, la logica dialettica hegeliana) è cosa diversa dallo sviluppare una propria teorizzazione filosofica. Marx usa la dialettica hegeliana ma non teorizza in modo esplicito e compiuto tale uso.

Se per “filosofia” in senso proprio intendiamo lo sviluppo teorico della categorie implicite in una prassi, tutto ciò implica che non possiamo parlare in senso proprio di una “filosofia di Marx”. Per quanto riguarda la seconda indicazione, la trasformazione del materialismo storico da metodologia di conoscenza storica in filosofia della storia, anch’essa appare in Marx solo per brevi accenni, ma rappresenta un aspetto importante del marxismo novecentesco.

Si tratta di una filosofia della storia sostanzialmente dogmatica perché basata sull’assunzione non argomentata razionalmente di un Soggetto-della-Storia (il proletariato) e di una linea generale di evoluzione della storia stessa.

Prendiamo infine in considerazione la terza risposta possibile, quella secondo la quale la filosofia di Marx è implicita nella sua attività scientifica. Questa tesi può essere declinata in vari modi, a seconda del significato che si dà al termine “scienza”.

Si può in primo luogo interpretare la scienza di Marx come modellata sulle scienze moderne della natura, e in quest’ottica il contributo di Marx alla filosofia viene spiegato come la critica e il superamento di ogni forma di filosofia speculativa, che viene appunto dissolta nella scienza.

Questa tesi è una semplice variante di quelle posizioni scientiste che abbiamo sopra qualificato come dogmatiche. Si può in secondo luogo interpretare la scienza di Marx come una “scienza speculativa”, all’interno cioè dell’orbita di concetti tipici della tradizione filosofica culminata in Hegel.

In tal caso la tesi che la filosofia di Marx è implicita nella sua attività scientifica equivale alla posizione sopra discussa, cioè alla tesi che Marx nella sua opera scientifica utilizza in modo determinante l’apparato logico hegeliano senza darne una trattazione sistematica. Pur trovando convincente questa interpretazione, abbiamo già notato come essa non risolva il problema della “filosofia di Marx”.

La discussione fin qui svolta ci porta, come avevamo anticipato, alla conclusione che una “filosofia di Marx” semplicemente non c’è.

Non c’è in Marx una teorizzazione filosofica adeguatamente sviluppata che elabori lo sfondo categoriale complessivo delle diverse teorie scientifiche da Marx elaborate, e questa assenza non è stata colmata, almeno non in modo convincente, dal marxismo successivo.

Possiamo concludere che, in sostanza, Marx è stato un ottimo scienziato sociale e un cattivo filosofo.

Se ci è permessa una piccola digressione, si può notare che queste osservazioni forniscono una soluzione piuttosto semplice al problema del rapporto fra scienza e filosofia in Marx, sul quale tanto ha dibattuto il marxismo novecentesco. Basta infatti distinguere fra due problemi diversi: da una parte il tema generale del rapporto fra scienza e filosofia, dall’altra quello del rapporto fra scienza e filosofia in Marx.

La filosofia, intesa come riflessione razionale sul senso dell’operare umano, ha ovviamente, per definizione, una carattere logicamente prioritario rispetto alle varie dimensioni dello stesso operare umano, e quindi anche rispetto alla scienza.

Il che non vuol però dire che qualsiasi elaborazione filosofica sia logicamente prioritaria rispetto a qualsiasi elaborazione scientifica. In particolare, nel caso di Marx, succede quello che succede a tanti altri scienziati di valore: è la loro elaborazione scientifica che precede e illumina la loro filosofia per lo più implicita.

Si tratta, come dicevamo, di una soluzione molto semplice, che è possibile però solo oggi, dopo la dissoluzione della tradizione marxista.

Infatti, all’interno di questa tradizione, tale soluzione era inaccettabile e impensabile, dato che Marx vi figurava come creatore di una teoria in cui avevano trovato soluzione tutti i precedenti problemi storico-filosofici, e che doveva soltanto venire correttamente applicata ai problemi nuovi per farne emergere la soluzione[8].
 

6. Quale Marx per il presente?

Riprendendo il filo del nostro discorso, possiamo a questo punto porci una delle domande fondamentali di questo saggio: le teorie di Marx che abbiamo sopra distinto possono essere utilizzate oggi per un pensiero ed un’azione anticapitalistiche?

Anticipiamo la risposta: a nostro avviso solo la teoria del modo di produzione capitalistico ha oggi una tale valenza, non il materialismo storico né la teoria della rivoluzione. Vediamo perché.

Per quanto riguarda il materialismo storico, quanto abbiamo già detto ci sembra sufficiente.

Inteso come teoria della genesi dei fatti storici, il materialismo storico rappresenta una interessante metodologia applicabile all’intera storia umana, e non ha dunque contenuti specifici da offrire all’analisi del presente. Inteso come filosofia della storia esso diventa una metafisica priva di fondamento.

Esaminiamo allora la teoria marxiana della rivoluzione comunista, della quale finora poco abbiamo detto. Le tesi fondamentali della teoria rivoluzionaria di Marx e del marxismo (che in questo non si discosta molto dal maestro) possono probabilmente essere sintetizzate nel modo seguente: il modo di produzione capitalistico, come tutti i modi di produzione, presenta contraddizioni interne che determinano la possibilità di un suo superamento.

Esso avverrà attraverso una classe sociale costituita in modo tale da essere indirizzata a promuovere e gestire il passaggio ad un superiore modo di produzione. Tale classe sociale (la classe operaia, o il proletariato, o forse il “lavoratore collettivo”: queste distinzioni, importanti da molti punti di vista, non lo sono per il nostro discorso attuale) è intrinsecamente rivoluzionaria, e il compito degli anticapitalisti è di fornire a questo intrinseco potenziale rivoluzionario gli strumenti (intellettuali e politici) per realizzarsi concretamente.

Da molto tempo riteniamo che queste tesi non abbiano nessun fondamento. Non esiste nessun argomento, né empirico né teorico, a loro favore. La classe operaia, o più in generale il proletariato, non ha questa potenzialità rivoluzionaria che le viene attribuita.

E’ questa la situazione di tutte le classi sfruttate (nello specifico senso marxiano, cioè come erogatori del pluslavoro da cui deriva il plusprodotto appropriato dalle classi dominanti) nei principali modi di produzione che possiamo esaminare.

Le classi sfruttate sono certo capaci di lotte e ribellioni, ma non hanno mai, proprio mai, rivoluzionato il modo di produzione, cioè indotto e gestito il passaggio da un modo di produzione all’altro. In Europa i contadini si ribellano infinite volte contro lo sfruttamento feudale, ma queste ribellioni non comportano mai, di per sé, il superamento del feudalesimo.

Allo stesso modo i contadini cinesi si ribellano contro lo sfruttamento cui sono sottoposti all’interno del modo di produzione asiatico, e queste rivolte, in particolari momenti di crisi, possono persino vincere sul piano politico, nel senso che mandano al potere i ribelli.

Ma non cambia il modo di produzione, il capo dei ribelli contadini diventa il nuovo imperatore, e la società cinese, superata la crisi, si riassesta sui suoi fondamenti millenari.

Nelle rivolte di schiavi in Sicilia, gli schiavi ribelli catturano i loro padroni e ne fanno i propri schiavi. Si ribellano non per abolire la schiavitù, ma per diventare essi stessi schiavisti[9].

Nei tempi moderni la classe operaia, o più in generale il proletariato, non ha fatto nulla di diverso. La classe operaia ha lottato contro lo sfruttamento, è arrivata a imporre cambiamenti politici, ma non ha mai, proprio mai, indotto un cambiamento del modo di produzione[10].

Questi fatti, difficili da eludere, hanno secondo noi un fondamento teorico: le classi sfruttate, proprio perché sfruttate, sono interne al funzionamento del modo di produzione che organizza lo sfruttamento, e non sono quindi minimamente in grado di avviare una dinamica superatrice del modo di produzione stesso.

Il fatto di essere sfruttate implica infatti un ruolo preciso all’interno di una società strutturata su un dato modo di produzione, e questo dà alle classi sfruttate un ruolo sociale, una rete di relazioni, una coscienza di sé, che le rende capaci di azione sociale e anche politica.

Ma ruolo sociale, relazioni, coscienza di sé sono, appunto, legate al loro ruolo all’interno di quel modo di produzione, e rendono quindi impossibile l’avviare, in quanto classe, una dinamica storica di superamento del modo di produzione.

La stessa situazione oggettiva che dà alla classe sfruttata la possibilità di lottare contro il proprio sfruttamento rende ad essa impossibile lottare per il superamento del modo di produzione nel quale essa è sfruttata.

L’esempio principale di un mutamento rivoluzionario del modo di produzione indotto e gestito da una classe sociale, quello che Marx e i marxisti hanno sempre presente, è rappresentato ovviamente dalla rivoluzione borghese che abbatte il feudalesimo e instaura il modo di produzione capitalistico.

Anche questo esempio conferma quanto stiamo dicendo.

Infatti, nel modo di produzione feudale la classe sfruttata, nel senso marxiano, non è rappresentata dalla borghesia, ma, ovviamente, dai contadini. La borghesia nel feudalesimo è una classe in qualche modo “interstiziale”, che non partecipa, cioè, alla produzione del plusprodotto, ma organizza i processi del suo scambio, lucrando su di essi.

E’ proprio per questo suo carattere in qualche modo “esterno” al modo di produzione feudale che essa riesce a creare, negli interstizi della società feudale, i primi nuclei del nuovo modo di produzione, che rappresentano la base oggettiva di un ruolo sociale, una rete di relazioni, una coscienza di sé, alternative al feudalesimo. Lo sviluppo di tutti questi elementi darà alla classe borghese la capacità di abbattere la società feudale.

Di fronte a queste considerazioni, cosa hanno da opporre i teorici delle potenzialità rivoluzionarie della classe operaia?

Sul piano empirico, nulla. Sul piano teorico, le analisi di Marx.

Ma ciò che queste ultime realmente dimostrano è soltanto il carattere intimamente contraddittorio del modo di produzione capitalistico.

Quello di Marx è insomma, secondo noi, un tipico esempio di wishful thinking. Egli ha individuato correttamente le contraddizioni del modo di produzione capitalistico, e a questa analisi scientifica ha sovraimposto la narrazione mitologica di una classe operaia che liberando se stessa libera l’intera umanità.

In ogni caso, di fronte all’ingombrante testimonianza dei fatti, l’onere della prova spetta al difensore della tesi del carattere rivoluzionario della classe operaia: chi, di fronte all’evidenza del fatto che la classe operaia non ha finora fatto quella famosa rivoluzione comunista, sostiene però le sue potenzialità in tal senso, ha l’obbligo teorico di fornirci gli argomenti razionali a favore di questa tesi.
 

7. Accumulazione, decrescita, anticapitalismo.

Dopo aver spiegato perché riteniamo che il materialismo storico e la teoria della rivoluzione di Marx non possano rappresentare la basi teoriche per l’anticapitalismo contemporaneo, esaminiamo ora la teoria marxiana del modo di produzione capitalistico. Cercheremo di mostrare come in essa si possano trovare tali basi teoriche, e come appaia naturale il collegamento con la teoria della decrescita.

Il modo di produzione capitalistico è caratterizzato dall’appropriazione del plusprodotto nella forma specifica del plusvalore, attraverso la compravendita e l’uso di quella particolare merce che è la forza-lavoro.

La caratteristica fondamentale che qui ci preme sottolineare è il fatto che tale appropriazione si esprime necessariamente nella forma della riproduzione allargata.

Si ha riproduzione allargata del capitale quando, dopo un ciclo formato dall’acquisto di forzalavoro, dal suo uso produttivo di valore e dalla realizzazione di tale valore sul mercato, viene iniziato un nuovo ciclo con un capitale maggiore di quello del primo ciclo, utilizzando parte del plusvalore prodotto e realizzato nel primo ciclo.

Per usare un linguaggio non marxiano, si ha riproduzione allargata quando una parte dei profitti vengono reinvestiti, in un modo o nell’altro, nel processo produttivo.

Marx studia dapprima (nel capitolo 21 del primo libro del Capitale, dedicato appunto alla “riproduzione semplice”) il caso di un capitalismo in cui non vi sia riproduzione allargata, per mostrare che si tratta di un modello astratto, non corrispondente alla realtà, utile solo a porre in evidenza un punto particolare, cioè il fatto che il plusvalore è sempre lavoro non pagato.

La realtà dell’accumulazione capitalistica è descritta nel capitolo successivo, dedicato alla “trasformazione del plusvalore in capitale”, nel quale Marx prima osserva che “adoperare plusvalore come capitale ossia ritrasformare plusvalore in capitale significa accumulazione del capitale”[11] e poi che “considerata in concreto, l’accumulazione si risolve in riproduzione del capitale su scala progressiva”[12], cioè appunto in riproduzione allargata.

La riproduzione allargata è inevitabile, all’interno di un’organizzazione capitalistica, perché è diretta conseguenza della concorrenza: “la concorrenza impone ad ogni capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi coercitive esterne. Lo costringe ad espandere continuamente il suo capitale per mantenerlo, ed egli lo può espandere soltanto per mezzo dell’accumulazione progressiva”[13].

La riproduzione allargata, o accumulazione progressiva, è dunque strettamente legata agli aspetti fondamentali del modo di produzione capitalistico: “tutte le circostanze che determinano la massa del plusvalore cooperano anche a determinare la grandezza dell’accumulazione”[14], e inoltre “insieme con l’accumulazione del capitale si sviluppa quindi il modo di produzione specificamente capitalistico, e, insieme al modo specificamente capitalistico, l’accumulazione del capitale”[15].

Nell’analisi marxiana il capitalismo è quindi un rapporto sociale nel quale l’allargamento continuo della produzione, la sua mancanza di ogni limite, appare elemento costitutivo e fondamentale.

Questo fatto rappresenta la base di una spiegazione convincente dei problemi ecologici generati dalla società attuale.

E’ infatti del tutto chiaro che un sistema economico votato all’espansione senza limiti non è compatibile con la finitezza dell’ambiente naturale. Ma questo tema non si esaurisce qui.

Infatti, la tendenza all’accumulazione illimitata non devasta solo la natura, ma la stessa società umana. Essa conduce infatti, alla fine, all’estensione del rapporto sociale capitalistico a tutti gli ambiti della società, anche a quelli la cui logica di funzionamento è del tutto incompatibile con esso (la scuola, per esempio).

Fino a qualche decennio or sono nei paesi capitalistici la subordinazione alla logica del rapporto sociale capitalistico dei vari ambiti sociali esterni all’impresa capitalistica rappresentava un loro vincolo esterno, mentre al suo interno ogni ambito non aziendale continuava a funzionare secondo la sua logica specifica, diversa da quella del profitto.

La novità che è intervenuta negli ultimi decenni sta nel fatto che tutte le sfere della società sono sussunte alla logica dell’accumulazione capitalistica, per cui la scuola è diventata un’azienda, gli ospedali sono diventate aziende, ed è diventato un’azienda anche lo Stato, che non è più “Repubblica italiana fondata sul lavoro”, ma appunto “azienda-Italia”.

Abbiamo introdotto tempo addietro l’espressione “capitalismo assoluto” per designare questa inedita configurazione del rapporto tra formazione sociale e rapporto di produzione, caratterizzata da un assorbimento quasi totale della prima nel secondo[16].

Arrivato il capitalismo nella fase del capitalismo assoluto, lo sviluppo capitalistico devasta la natura, la società e la psiche[17], e genera quindi forti resistenze sulle quali radicare una forza anticapitalistica.

Una delle forme che tali resistenze assumono oggi in Italia è, come dicevamo sopra, quella delle proteste popolari contro le grandi opere che devastano il territorio. Ma si tratta solo di un esempio.

Le resistenze contro lo sviluppo capitalistico possono assumere forme molto diverse, e il compito di una forza politica anticapitalistica sarebbe quello di collegare e coordinare tali lotte offrendo ad esse una progetto complessivo.

Su questo punto sono necessarie alcune precisazioni. In primo luogo occorre distinguere, come sempre si è fatto nella tradizione marxista, fra potenziale oggettivo delle lotte e coscienza soggettiva dei protagonisti delle lotte stesse.

Nei vari tipi di resistenze contro lo sviluppo capitalistico gli strati sociali coinvolti possono non avere coscienza della natura di queste lotte, possono aderire alla lotta per motivi puramente “locali”, possono insomma esprimere quella che è stata chiamata “sindrome NIMBY”[18].

Resta il fatto che tali lotte hanno un contenuto oggettivo anticapitalistico, per i motivi che abbiamo spiegato: mettono in questione l’accumulazione di plusvalore, e quindi la sostanza stessa del capitalismo. In secondo luogo, per poter costruire su queste basi una forza politica anticapitalistica occorre avere ben presenti le novità della situazione, che possono essere compendiate in due punti:
 

a. Le forze anticapitalistiche nella tradizione marxista avevano ben chiara la necessità di superare lo sviluppo capitalistico, ma rimandavano tale necessità al momento in cui lo sviluppo delle forze produttive avesse portato le contraddizioni capitalistiche al punto di esplosione, per cui le scelte politiche concrete delle forze anticapitalistiche non contraddicevano lo sviluppo stesso ma anzi tendevano a favorirlo, impostando la lotta politica piuttosto sul piano della redistribuzione del reddito.

Al contrario le resistenze alle quali facciamo riferimento tendono fin dal loro primo manifestarsi a contestare immediatamente lo sviluppo capitalistico, ed è questa l’unica prospettiva sulla quale abbia senso basare oggi una forza politica anticapitalistica.

Le lotte per la redistribuzione dei proventi dello sviluppo capitalistico oggi sono perse in partenza (torneremo più avanti su questo punto).

b. Le lotte anticapitalistiche del passato
erano strettamente collegate ad una classe sociale. Nelle resistenze anticapitalistiche attuali il soggetto antagonista non è più identificabile con una classe sociale: non si tratta del proletariato né di un suo sostituto. Il soggetto antagonista non è cioè sociologicamente precostituito dal modo di produzione, dai rapporti sociali dati, masi costituisce in una prassi trasversale a diversi gruppi sociali, attraverso l’emergere di bisogni umani conculcati. Per usare una vecchia formula, la resistenza anticapitalista è oggi“resistenza umana”.
 

8. Sulle contraddizioni del capitalismo.

Cerchiamo di chiarire ulteriormente. E’ noto che in fasi storiche precedenti i marxisti avevano individuato in modi diversi la contraddizione fondamentale del capitalismo, sulla quale fare leva per scalzarlo.

Essa poteva così essere individuata da alcuni nella contraddizione fra capitale e lavoro, da altri nel sottoconsumo implicito nell’economia capitalistica, da altri ancora nella caduta tendenziale del saggio di profitto.

Per fare un po’ di ordine in queste discussioni, conviene ricordare che quando parliamo di “contraddizioni del capitalismo”, ci riferiamo alla sfera logica, al concetto astratto di “modo di produzione capitalistico”, e che, una volta individuata una contraddizione insita nel concetto stesso di tale modo di produzione, essa può manifestarsi empiricamente in vari modi, a seconda delle concrete situazioni storiche.

Per impostare una politica anticapitalistica adeguata ai tempi occorre dunque capire quale sia la forma che le contraddizioni capitalistiche assumono in una determinata fase storica. Così, l’immiserimento crescente del proletariato è stata indubbiamente la forma in cui si sono manifestate le contraddizioni del capitalismo nella fase storica della vita di Marx ed Engels, ma tale contraddizione è sembrata superata per un lungo periodo, almeno nei paesi occidentali.

La contraddizione fra le capacità produttive generate dal capitalismo e i bassi salari di gran parte della popolazione, che si manifesta in definitiva come scarsità di domanda, può infatti rimanere latente per intere fasi storiche, come quella del secondo dopoguerra, nella quale la creazione di nuovi prodotti indirizzati alle masse, combinata con la politica dei redditi di stampo “socialdemocratico”, ha permesso per decenni di ottenere una domanda robusta e crescente per la produzione capitalistica.

Ma qual è allora la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico, e quindi la matrice ultima delle violente crisi economico-sociali ricorrenti nelle formazioni sociali capitalistiche?

Nella teoria economica di Marx, essa è rappresentata dalla contraddizione tra le condizioni di produzione del plusvalore e le condizioni di realizzazione del plusvalore stesso. L’esposizione di questa contraddizione si trova nel capitolo XV del terzo volume del Capitale, e non è quindi opera diretta di Marx (il quale, come è noto, del Capitale ha potuto curare solo la pubblicazione del primo volume), ma è stata costruita dopo la sua morte da Engels, organizzando e rendendo coerenti sparsi e disorganici appunti dell’amico. Ciò significa che la ricostruzione della teoria di Marx sulla ragione delle crisi capitalistiche richiede, in mancanza di un testo diretto di Marx, un grande impegno interpretativo basato sull’assimilazione dell’impianto logico della scienza economica di Marx quale risulta dal primo volume del Capitale e dai Grundrisse.

Ad ogni modo, nel capitolo XV del terzo volume del Capitale si dice che il limite della produzione capitalistica, che ne determina le sempre più devastanti crisi periodiche, sta nella teleologia costitutiva del capitale stesso, cioè nella sua incessante autovalorizzazione, che si basa da un lato sulla espropriazione e l’impoverimento dei produttori, in modo da estorcere loro in misura crescente il pluslavoro con cui accumulare un sempre maggiore plusvalore, e da un altro lato sulla trasformazione di questo plusvalore in denaro attraverso la vendita delle merci che lo incorporano, tale da consentire il suo reinvestimento in un nuovo ciclo produttivo che lo valorizzi ulteriormente.

Ma è chiaro che questi due lati dell’autovalorizzazione del capitale, cioè della teleologia costitutiva del capitale stesso, sono in contraddizione tra loro. Tale contraddizione è precisamente esposta nel brano seguente:

“Il guadagnare questo plusvalore costituisce il processo di produzione immediato, che, come si è già detto, non ha altri limiti che quelli sopra menzionati[19].

Il plusvalore è prodotto non appena il pluslavoro che è possibile estorcere di trova oggettivato nelle merci. Ma con questa produzione del plusvalore si chiude solo il primo atto del processo di valorizzazione del capitale, la produzione immediata (…).

Comincia ora il secondo atto di quel processo. La massa complessiva delle merci, il prodotto complessivo, tanto la parte che rappresenta il capitale costante e variabile, come quella che rappresenta il plusvalore, deve essere venduta.

Qualora questa vendita non abbia luogo, o avvenga solo in parte oppure a prezzi inferiori a quelli di produzione, lo sfruttamento dell’operaio, che esiste in ogni caso, non si tramuta in un profitto per il capitalista (…). Le condizioni dello sfruttamento immediato e della sua realizzazione non sono identiche: esse differiscono non solo dal punto di vista del tempo e del luogo, ma anche da quello della sostanza”[20].


La tradizione marxista ha per lo più insistito su altre contraddizioni capitalistiche, come abbiamo sopra indicato. Una di queste è la contraddizione fra capitale e lavoro, che attribuisce una falsa valenza anticapitalistica alle rivendicazioni redistributive della classe operaia, conformemente all’impostazione ideologica della Seconda Internazionale. Un’altra è la la caduta tendenziale del saggio di profitto.

Si tratta in questo caso del fatto che lo sviluppo capitalistico richiede un investimento sempre maggiore in quello che Marx chiama “capitale costante” (macchinari, materie prime, strutture) e quindi una diminuzione relativa di quello che Marx chiama “capitale variabile” (essenzialmente, i salari).

Poiché il plusvalore è generato dal capitale variabile, ciò implica (a parità di altre condizioni) una diminuzione del rapporto fra capitale investito e plusvalore ottenuto, e questo significa appunto una diminuzione tendenziale del saggio di profitto. Sulla base di questa configurazione viene attribuita al capitalismo una falsa tendenza alla stagnazione delle forze produttive, coerentemente con quanto affermato da Marx nella celebre Prefazione a Per la critica dell’economia politica[21], e con l’impostazione ideologica del comunismo novecentesco.

La trattazione della caduta tendenziale del saggio di profitto, anch’essa esposta nel terzo volume del Capitale, ha in realtà una funzione del tutto diversa all’interno della teoria marxiana del modo di produzione capitalistico. Infatti la reazione del capitalista alla caduta del saggio di profitto è l’allargamento della produzione: se aumenta in modo adeguato la massa dei prodotti, essa permette un accrescimento continuo del profitto complessivo anche se diminuisce il profitto sulla singola unità prodotta.

Di qui si diramano però conseguenze importanti. In primo luogo l’aumento della produzione si ottiene tramite investimenti in capitale costante che riproducono ad un livello superiore lo stesso problema della caduta del saggio di profitto, che quindi è un processo che si autoalimenta spingendo il capitalismo ad una continuo allargamento della scala della produzione.

In secondo luogo l’aumentata produzione deve pur essere venduta sul mercato, e di qui nasce la necessità di sottrarre quote di mercato agli altri capitalisti, e quindi l’acuirsi della concorrenza fra le singole unità capitalistiche. Il testo del terzo volume del Capitale ripete più volte che caduta del saggio di profitto ed accelerazione dell’accumulazione non sono che due diverse espressioni del medesimo processo di sviluppo delle forze produttive.

Ne consegue che il capitale non produce affatto, alla luce di queste teorizzazioni marxiane, la stagnazione delle forze produttive, ma produce, al contrario, il loro sviluppo, in modo che l’allargamento della scala di produzione, e quindi della massa del plusvalore, ipercompensi gli effetti della caduta tendenziale del saggio di profitto.

In questo modo, però, la coazione del capitale ad allargare la scala della sua produzione erode quegli stessi elementi storici e sociali che favoriscono la realizzazione del plusvalore sul mercato. La caduta tendenziale del saggio di profitto si rivela così, nella teoria marxiana del modo di produzione capitalistico, non la contraddizione sistemica fondamentale, ma la condizione, il presupposto della contraddizione essenziale, quella sopra indicata tra il modo in cui il plusvalore è prodotto e il modo in cui è realizzato.

Una forma “empiricizzata” ed “economicistica” di questa contraddizione fondamentale è quella che si traduce nella scarsità della domanda, alla quale abbiamo sopra accennato[22].

Da questa scarsità di domanda sono nate le tre grandi crisi di sovrapproduzione del 1929-33, del 1974-75 e del 1980-82. Oggi, invece, esistono mezzi che permettono di aggirare questo problema, anche se mai in modo compiuto e risolutivo, e la contraddizione fondamentale si esprime in altri modi, indotti da questi stessi mezzi che permettono di mettere in sordina il problema della scarsità di domanda.

Si può infatti notare che condizione per la creazione del plusvalore è lo sfruttamento della natura, mentre la condizione per realizzarlo è un consumo crescente di merci, e questo esige la stabilità necessaria alla ripetizione allargata del consumo.

Ma lo sviluppo capitalistico nella fase attuale devasta società e natura, e in particolare devasta il territorio e le comunità in esso insediate, come abbiamo detto.

Ecco quindi indicata una nuova forma concreta, storica, della contraddizione fondamentale del capitalismo, e di conseguenza una possibile leva per la lotta anticapitalistica: le lotte contro la devastazione capitalistica della natura, le lotte delle comunità invase e sconvolte dai vari tipi di interventi capitalistici, le lotte in difesa del territorio contro le grandi opere, rappresentano in questa fase storica l’esplicitarsi della contraddizione fondamentale del capitalismo e hanno, se condotte con coerenza, una valenza oggettivamente anticapitalistica (qualsiasi sia la coscienza di chi è coinvolto in esse) perché rappresentano un ostacolo all’accumulazione allargata del plusvalore cioè, come abbiamo indicato sopra, all’essenza del modo di produzione capitalistico.

L’idea della decrescita è l’idea della graduale sostituzione del consumo di merci con quello di beni e servizi non mercificati, del consumo di beni prodotti intensivamente su larga scala e trasportati da lunghe distanze con quello di beni prodotti su piccola scala e trasportati su brevi distanze, di alti consumi di energia con bassi consumi di energia, della costruzione di nuove opere invasive del territori con il riuso e la manutenzione di opere già esistenti.

Da quanto fin qui detto emerge che tale idea è allora, nella fase storica attualmente raggiunta, l’idea, la cui prassi costituisce il fattore capace di far esplodere la contraddizione fondamentale del capitalismo e di far nascere una nuova, non predeterminata, forma di società.

Facciamo un esempio. Abbiamo detto che oggi in Italia la distruttività dello sviluppo si percepisce soprattutto nel carattere invasivo delle “grandi opere” che devastano il territorio.

Il territorio è talmente consumato che ogni suo ulteriore consumo ha un immediato impatto distruttivo sugli equilibri ambientali e antropici, determinando forme di resistenza popolare che nascono quasi sempre con angusti orizzonti localistici e con marcate immaturità che le rendono ingannabili e aggirabili, e che starebbe a chi si dice anticapitalista battersi per portare a maturazione.

La difesa dell’integrità del territorio, attraverso proposte pratiche di decrescita, consente infatti di colpire elementi vitali di accumulazione del plusvalore (per esempio: sviluppo degli affari attraverso le cosiddette grandi opere, le grandi reti di distribuzione dell’energia, le grandi arterie di trasporto, lo smaltimento dei rifiuti) connettendo questa lotta contro l’accumulazione di plusvalore alla tutela delle condizioni materiali di vita degli insediamenti abitativi, e facendone la leva per nuove forme di redistribuzione della ricchezza collettiva a vantaggio dei ceti subalterni. La difesa dell’integrità del territorio, attraverso proposte pratiche di decrescita, consente inoltre di colpire l’attuale intreccio affaristico-corruttivo tra ceti politici e imprese capitalistiche che ruota attorno alle rendite ricavabili dal consumo del territorio.

Più in generale, dovrebbe ormai essere evidente la sostanza delle nostre tesi: se la riproduzione allargata del capitale, l’accumulazione del plusvalore, è un aspetto sostanziale e ineliminabile del modo di produzione capitalistico, allora se c’è la decrescita, cioè la negazione dell’accumulazione, si mette in questione la produzione di plusvalore, quindi il capitalismo.

La decrescita coincide quindi con la distruzione del modo di produzione capitalistico. La proposta della decrescita è quindi la proposta di un agire politico anticapitalistico adeguato alle forme in cui oggi si manifestano le contraddizioni capitalistiche.

Liberando l’anticapitalismo dalla ricerca di un Soggetto Sociale Rivoluzionario (la classe operaia, o i suoi succedanei come gli emarginati o gli immigrati) che faccia da garante metafisico del buon esito dell’impresa rivoluzionaria, la decrescita permette di guardare la realtà concreta alla ricerca delle contraddizioni reali che l’attuale fase di sviluppo del capitalismo genera: la degradazione dell’ambiente della vita comune, lo sconvolgimento continuo del territorio, l’invivibilità delle città, la lenta cancellazione di ogni forma di servizio sociale, l’insicurezza su tutti gli aspetti fondamentali della vita, tutto ciò si traduce in un continuo peggioramento della vita che genera tensioni e scontri.

Essendo le varie correnti anticapitalistiche incapaci di entrare in contatto con questo disagio, esso si traduce in pulsioni razziste e richieste securitarie, o semplicemente in degrado mentale.

Se l’anticapitalismo che si ispira a Marx facesse propria la proposta della decrescita potrebbe intercettare questo crescente disagio sociale, uscendo così dal vicolo cieco in cui si è cacciato inseguendo un inesistente Soggetto Sociale Rivoluzionario, e tornando a incidere sulla realtà[23].
 

9. L’unica via d’uscita.

La decrescita rappresenta l’unica prospettiva odierna di lotta anticapitalistica nei paesi occidentali. Le precedenti forme di questa lotta non hanno oggi nessuno sbocco possibile. Tali forme si compendiavano in due grandi principi contrapposti: da una parte la rivoluzione comunista, cioè la lotta rivoluzionaria per l’abbattimento immediato del capitalismo e l’instaurazione di un superiore modo di produzione; dall’altra il riformismo socialdemocratico, cioè la lotta per la redistribuzione del prodotto dello sviluppo nella prospettiva di un superamento futuro del capitalismo una volta che esso avesse compiuto la sua “missione storica” di sviluppo delle forze produttive.

Entrambe queste prospettive sono oggi prive di qualsiasi possibilità reale. Sulla rivoluzione comunista c’è poco da aggiungere a quello che un banale esame dei fatti storici insegna a chiunque, con l’esclusione dei pochi sacerdoti del Vero Comunismo chiusi nelle loro piccole sette: nei paesi occidentali la rivoluzione comunista non esiste come prospettiva reale, e non è mai esistita da circa ottant’anni a questa parte.

Non si tratta di una realtà storica da giudicare, di un movimento reale al quale rapportarsi in un modo o nell’altro. Si tratta di una irrealtà della quale semplicemente non vale la pena discutere, se non sul piano strettamente teorico (i movimenti comunisti nei paesi occidentali sono stati insignificanti sul piano storico, ma hanno talvolta prodotto cose interessanti sul piano intellettuale).

La percezione di ciò è oscurata, in paesi come l’Italia, dal fatto che sono esistiti partiti comunisti, come appunto il Partito Comunista Italiano (PCI), che non erano irrealtà ma anzi realtà significative, che hanno inciso durevolmente nella storia.

La risposta a questa apparente smentita alla nostra tesi sta nel fatto che partiti come il PCI, comunisti di nome, non avevano assolutamente nulla a che fare con la prospettiva di una rivoluzione comunista: nella loro prassi politica interna erano semplicemente dei partiti riformisti, mentre erano legati all’URSS in politica internazionale. Si trattava insomma di “socialdemocrazie filosovietiche”, un apparente ossimoro che spiega la difficoltà di comprenderne correttamente la natura.

Per quanto riguarda il riformismo socialdemocratico, esso ha rappresentato una forza storica reale che ha segnato un’intera fase della storia recente dei paesi occidentali, quella del “trentennio d’oro” seguito alla fine della Seconda Guerra Mondiale, una fase che ha visto avanzamenti effettivi del reddito, dei diritti, del livello di vita dei ceti subalterni. Queste conquiste si basavano sul fatto che la crescita dei redditi dei ceti subalterni creava un mercato per le merci prodotte dall’industria di massa. Tale fase, come è noto, è finita da almeno trent’anni, e ad essa si è sostituita quell’organizzazione del capitalismo mondiale che è abituale chiamare “neoliberismo” e “globalizzazione”.

Questa fase ha implicato la perdita di ciò che i ceti subalterni avevano conquistato nella fase precedente, e anche un livello di sviluppo capitalistico nettamente minore rispetto a quello della fase precedente.

La crisi dei redditi popolari avrebbe provocato stagnazione della domanda e difficoltà di generare profitti, se ad essa non si fosse ovviato con la finanziarizzazione dell’economia e lo sviluppo del credito al consumo, specialmente negli USA, che sono così diventati i ”compratori in ultima istanza” del sistema capitalistico. E’ noto come queste “soluzioni” del problema della bassa domanda abbiano a loro volta provocato la crisi economica attuale24.

Se si parte da queste considerazioni, sembrerebbe allora sensata la proposta di una fase di lotte sociali per una politica di tipo riformista, cioè centrata sulla crescita dei consumi popolari come base per lo sviluppo capitalistico. Si tratta a nostro avviso di una proposta priva di prospettive reali, per vari motivi.

In primo luogo, essendosi il capitalismo ormai riorganizzato sulle basi di ciò che viene comunemente chiamato “neoliberismo”, è evidente che in esso si sono sedimentati interessi sociali, forze politiche, correnti ideologiche che proprio entro tale organizzazione ricavano forza e potere.

Il ritorno a una politica di tipo “riformista” richiederebbe di spezzare il coagulo di tale forze, e questo equivale a un grande sconvolgimento politico e sociale. Non a caso l’avvio della stagione “socialdemocratica” del “trentennio dorato”, ebbe bisogno, per spezzare un analogo accumulo di interessi, di uno sconvolgimento globale come la Seconda Guerra Mondiale.

Oggi occorrerebbe dunque un riformismo sostenuto da forti e radicate lotte sociali con l’obbiettivo di sconvolgere l’attuale quadro economico e politico. Ora, a parte la contraddizione di compiere una rivoluzione per realizzare un progetto riformista, non sono disponibili forze sociali per questo programma. Le forme tradizionali della lotta rivendicativa sono oggi infatti completamente spiazzate dall’evoluzione del capitalismo: i lavoratori sono ricattati dalle delocalizzazioni, messi in concorrenza con la forza lavoro immigrata, incapaci di controllare le modificazioni delle forme del lavoro indotte dai mutamenti tecnologici.

Inoltre il modello riformista si basa sullo sviluppo capitalistico e abbiamo detto che esso oggi genera sofferenze e quindi resistenze: ciò significa che la proposta di lotte per rilanciare una specie di “riformismo radicale” è condannata in partenza perché essa, per usare un linguaggio d’antan, genera “contraddizioni in seno al popolo”: con uno slogan, potremmo dire che tutti sono contenti che vengano costruiti centri commerciali, ma non tutti sono contenti che vengano costruite discariche o inceneritori; ma il centro commerciale, ovviamente, implica la discarica o l’inceneritore.

Infine, in presenza di un nuovo massiccio aumento dei consumi di massa, si farebbero sentire i vincoli ecologici dello sviluppo, che porterebbero un aumento di costi dovuto alla sempre maggiore difficoltà nel reperire risorse e alle spese per combattere l’inquinamento e le sue conseguenze. Tutto questo renderebbe alla fine poco sostenibile economicamente l’idea di un rilancio dei consumi di massa nelle forme tipiche del “trentennio dorato”.

Concludiamo: le idee tradizionali sulle quali si sono basate le forze anticapitalistiche di ispirazione marxista non hanno oggi nessuna possibilità concreta.

La proposta di basare un nuovo anticapitalismo sull’idea della decrescita non ha alternative reali. Inoltre, quella della decrescita è un’idea-forza perché consente di ottenere una redistribuzione della ricchezza sociale che le lotte salariali non sono più in grado di ottenere. Infatti lottare contro le grandi opere a favore di una capillare manutenzione del paese significa lottare anche per un aumento dei posti di lavoro necessari a tale manutenzione.

Lottare contro il consumo distruttivo di territorio a favore di un suo uso funzionale ai bisogni delle comunità significa lottare per una politica di estesi servizi pubblici.

Lottare per produzioni non intensive, distribuite a brevi distanze con basso consumo di energia, significa estendere l’area della piccola produzione indipendente.

Ma più posti di lavoro, più erogazione di servizi pubblici, più piccole produzioni indipendenti, significano decrescita dei profitti e redistribuzione della ricchezza sociale in forma non di merci ma di beni e servizi.
 

10. Cosa può dare il pensiero di Marx alla decrescita.

Nei paragrafi precedenti abbiamo cercato di indicare cosa può dare la decrescita all’anticapitalismo che si ispira a Marx. In questo paragrafo conclusivo cerchiamo di spiegare cosa può dare il pensiero di Marx alla decrescita.

In primo luogo, per poter impostare un programma di cambiamento sociale incentrato sulla decrescita, occorre avere chiaro quanto fin qui detto: la crescita, che è la nozione che nel linguaggio ufficiale traduce l’accumulazione del capitale, è indispensabile all’attuale sistema economico. Se non si capisce questo punto, l’adesione alla crescita appare unicamente come un errore intellettuale e morale, che si può quindi correggere con le argomentazioni e con l’esempio.

Ora, la “religione della crescita” è sicuramente anche un errore intellettuale e morale, per combattere il quale occorrono tutte le argomentazioni teoriche elaborate dai pensatori della decrescita, e occorrono tutti i possibili esempi e iniziative pratiche prodotte dalle persone impegnate nella decrescita.

Ma non si comprende la forza e la persistenza di questo errore intellettuale e morale se non si capisce che esso si incardina entro il rapporto sociale capitalistico e ne rappresenta l’espressione appunto intellettuale e morale. Perdendo di vista questa connessione le persone impegnate nella decrescita non arrivano a inquadrare la realtà del potere e della politica contemporanee, e in questo modo sembrano ridursi a sperare che dal sistema emergano prima o poi politici sensibili ai temi della decrescita, e che si possano convincere i ceti dirigenti della convenienza economica della decrescita.

Queste sono illusioni che paralizzano l’azione politica. I politici attuali sono vincolati ad un sistema di potere che ha fatto della crescita la sua base vitale, né si può sperare di dimostrare la convenienza economica della decrescita, perché in effetti all’interno del capitalismo essa non è conveniente in termini macroeconomici.

Per fare un esempio su quest’ultimo punto, una tipica argomentazione dei teorici della decrescita è che le proposte di risparmio energetico sarebbero convenienti a livello economico, perché da una parte permetterebbero di ridurre certi costi sia per le imprese sia per le famiglie, e dall’altra una politica di risparmio energetico creerebbe nuovi posti di lavoro.

Ma chi argomenta in questo modo non tiene conto del fatto che nel capitalismo ciò che è costo per l’uno è guadagno per l’altro: il risparmio energetico favorirebbe certe imprese ma ne colpirebbe a morte altre, e ben più rilevanti, vale a dire quelle produttrici e distributrici di energia, quelle fornitrici dei mezzi necessari all’uso di energia, quelle che fabbricano le armi con cui l’imperialismo va ad appropriarsi delle risorse energetiche.

In sintesi, non si può pensare ad un mutamento radicale dell’organizzazione sociale senza che questo mutamento, se per caso si avviasse nella realtà, susciti l’opposizione di tutte le forze che hanno interessi al mantenimento dell’attuale organizzazione sociale.

I marxisti hanno sempre saputo questa ovvietà, il movimento della decrescita non può sperare di rimuoverla.

In secondo luogo, i teorici della decrescita sembrano ritenere che il dogma dello sviluppo, e il potere politico-economico ad esso collegato, sia una specie di “ostacolo” tolto il quale la società potrà progredire “serenamente” e “felicemente” secondo linee più umane e sensate.

Non è così, purtroppo, e il problema sta nel fatto che il capitale è un rapporto sociale che si riproduce e allarga continuamente la sua sfera, e quindi incide sull’insieme dei rapporti sociali. Nei paesi occidentali esso si è instaurato da secoli ed ha ormai modificato in profondità la natura dei rapporti sociali, informando di sé l’intera compagine sociale.

Oggi il capitalismo, come abbiamo detto, è diventato “assoluto”, non “domina” la società, ma la struttura. Se è così, è chiaro che la proposta della decrescita è destrutturante.

Nel momento in cui il processo di accumulazione del plusvalore modella tutte le relazioni umane, tutte le sfere sociali, metterlo in questione significa disarticolare l’intera società, e generare quindi una crisi radicale dell’intera organizzazione sociale. Se si vuole realmente avviare le nostre società sulla strada della decrescita, occorre essere preparati a sconquassi sociali di grandi dimensioni.

La decrescita non può pensarsi come un processo di sostituzione indolore dell’attuale società dissennata con una società più razionale, senza scosse né traumi. Non si può seriamente pensare ad una decrescita che sia solo “felice” o “serena”.

Le nostre società saranno spinte sulla strada della decrescita, se mai lo saranno, certo anche dall’aspirazione ad una “serenità” e “felicità” che l’attuale sistema sociale non può dare, ma soprattutto dal rifiuto del continuo peggioramento della vita che la crescita capitalistica comporta, dallo spettacolo di degrado materiale e spirituale che il nostro mondo mostra con evidenza a chiunque voglia vedere.

Lungo questa strada occorrerà affrontare da una parte la violenza dei poteri che si nutrono della degradazione prodotta dallo sviluppo, dall’altra le crisi e gli sconquassi prodotti sia dalla degradazione capitalistica stessa sia dai tentativi di sostituire alla logica necrofila dell’attuale sistema una logica di vita.

Nessun risultato è garantito, l’unica certezza è quella della profonda crisi di civiltà e cultura alla quale l’attuale sistema ci sta portando.

Genova-Pisa, inverno 2009-2010

[1]Per una visione più approfondita delle proposte dei teorici della decrescita, rimandiamo ai testi relativi, per esempio M.Buonaiuti (cura di), Obiettivo decrescita, Bologna 2005; M.Pallante, Decrescita e migrazioni, Edizioni per la Decrescita Felice, Roma 2009; M.Pallante, La felicità sostenibile, Rizzoli, Milano 2009. Serge Latouche ha esposto le idee della decrescita in numerosi testi, fra i quali particolarmente chiaro e sintetico è S.Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino 2007. Senza nominare la decrescita, espone idee ad essa contigue P. Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari 2008

[2]I n questo paragrafo abbiamo ripreso alcuni passaggi di un nostro precedente intervento: M.Badiale, M.Bontempelli, Per salvare la vita-28 tesi contro la barbarie, reperibile in linea per esempio all’indirizzo http://www.megachipdue.info/tematiche/kill-pil/228-per-salvare-la-vita-28-tesi-contro-la-barbarie.html

[3]E.Pagliarani, da Proseguendo un finale, in Tutte le poesie (1946-2005), Garzanti, Milani 2006

[4]Si veda M.Badiale, Difficili mediazioni, Aracne, Roma 2008, pagg.21-22, per una breve critica allo scientismo.

[5] Lenin vi afferma tra l’altro che “non si può comprendere a pieno il Capitale di Marx, ed in particolare il suo primo capitolo, se non si è studiata e capita tutta la Logica di Hegel. Di conseguenza, dopo mezzo secolo nessun marxista ha capito Marx!” (Lenin, Opere scelte, vol. III, Editori Riuniti, Roma 1973, pag. 445).

[6] In buona parte del Capitale Marx si dedica a ricostruzioni di tipo storico ed empirico, ma è ben noto agli studiosi che si tratta di esemplificazioni dei processi logici che egli individua nel modo di produzione capitalistico, in modo analogo alle note esemplificative che Hegel aggiunge nella Scienza della Logica.

[7] Per esempio R. Finelli, Marxismo della “contraddizione” e marxismo dell’ “astrazione”, in D.Sacchetto, M.Tomba (cura di), La lunga accumulazione originaria, Ombre corte, Verona 2008, pagg. 74-88, e soprattutto R.Fineschi, Marx e Hegel, Carocci, Roma 2006. Lavori come questi, basati sulla nuova edizione critica della opere di Marx, rappresentano a nostro avviso il definitivo superamento delle discussioni novecentesche fra marxisti “hegeliani” e marxisti “anti-hegeliani”, e permettono di porre finalmente su basi adeguate il problema del rapporto Marx-Hegel.

[8] Possiamo aggiungere, molto brevemente perché non è questo adesso il nostro tema, che un nuovo movimento culturale e politico anticapitalistico avrà senz’altro bisogno, fra tante altre cose, anche di una seria e rigorosa fondazione filosofica. Ma non la dovrà cercare in Marx

[9] Sulle rivolte degli schiavi si veda Diodoro Siculo, Biblioteca storica, Sellerio, Palermo, libro 34, par. I, II. E’ probabile che Spartaco sia stato uno dei pochissimi schiavi ribelli che rifiutavano davvero la schiavitù come istituzione. Sulla sua figura si veda M.Bontempelli, E. Bruni, Il senso della storia antica, vol. 2, Trevisini, Milano s.d., pagg. 247-259.

[10] Se si interpreta come nuovo modo di produzione quello instaurato in Russia tra il 1918 e il 1933, occorre osservare che esso è il risultato non dell’azione della classe operaia industriale ma al contrario della sua scomparsa durante la guerra civile.

[11]K.Marx, Il Capitale, Libro I, Editori Riuniti, Roma 1977, pag. 635 (il corsivo è nel testo).

[12]K.Marx, cit., pag. 637.

[13]K.Marx, cit., pag. 648 (corsivo nel testo).

[14]K.Marx, cit., pag. 655.

[15]K.Marx, cit., pag. 684.

[16]Si veda M.Badiale, M.Bontempelli, Il mistero della sinistra, Graphos, Genova 2005, pagg 14-15, e Id., La sinistra rivelata, Massari, Bolsena 2007, pagg. 169-174. Si veda anche l’articolo M. Bontempelli, Capitalismo, sussunzione e nuove forme della personalità, reperibile in linea, per esempio all’indirizzo: http://www.rivistaindipendenza.org/Teoria%20nazionalitaria/Bontempelli%20-%20sussunzione.htm.

[17]Si veda per esempio M.Benasayag, G Schmitt, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2009. Molti autori hanno riflettuto sul carattere psicopatogeno dell’attuale organizzazione economico-sociale, ma ci pare manchi un collegamento fra queste riflessioni sparse in vari campi del sapere e una proposta politico-culturale anticapitalistica.

[18] Not In My BackYard, “non nel mio giardino”: sigla con la quale si usa stigmatizzare i movimenti di protesta contro le opere invasive del territorio, per suggerire il carattere puramente egoistico di queste mobilitazioni.

[19] Cioè, come Marx ha spiegato poche righe prima, le materie prime disponibili, i metodi di produzione utilizzabili, l’estensione della popolazione operaia sfruttabile, il grado di sfruttamento storicamente consentito.

[20] K. Marx, Il Capitale, Libro III, vol. 1, Editori Riuniti, Roma 1977, pag. 296.

[21] K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1974. La Prefazione di Marx è alle pagg. 3-8. Si tratta di un testo che precede il Capitale e che noi consideriamo da quest’ultimo superato, nel senso spiegato.

[22] E che si può sintetizzare nella seguente argomentazione: per produrre plusvalore devi pagare poco i lavoratori, ma in un mondo di bassi salari la domanda sociale resta bassa e non puoi vendere le merci prodotte e realizzare il plusvalore.

[23] La nostra impostazione può essere considerata “autenticamente marxiana” oppure no? Si tratta di una questione abbastanza secondaria, per cui ne discutiamo rapidamente in una nota. La proposta fin qui esposta di un incontro fra decrescita e pensiero di Marx può essere interpretata come una rottura con le coordinate del pensiero di Marx solo dalle piccole conventicole di sedicenti marxisti e sedicenti rivoluzionari, la cui autoriproduzione si basa su una scarsa comprensione della complessità di tale pensiero e soprattutto su un radicale disinteresse alla costruzione di una prospettiva anticapitalistica che abbia qualche possibilità di incidere sulla realtà. Rispetto alla tradizione marxista noi certamente rifiutiamo idee come il carattere fondamentale della contrapposizione tra capitale e lavoro, la tesi che la classe lavoratrice produttrice di plusvalore sia il soggetto rivoluzionario capace di indurre e gestire il passaggio ad un superiore modo di produzione, la fede nel comunismo come sbocco storico necessario del capitalismo, l’illusione che sia prefigurabile la configurazione della società post-capitalistica. Ma queste cesure con la tradizione marxista sono intese a valorizzare quella che riteniamo in Marx la teoria forte e decisiva, cioè la teoria del modo di produzione capitalistico esposta principalmente nel Capitale. Del resto, le tesi tradizionali che rifiutiamo non derivano dai principi logici fondamentali del modo di produzione capitalistico, ma da altri e più contingenti ambiti nei quali si è esercitata la riflessione di Marx. La nostra impostazione “decrescista” è basata sulla piena valorizzazione della scienza critica dell’economia politica scoperta da Marx.

[24] Ci siamo soffermati sulla crisi economica attuale nell’Appendice a M.Badiale, M.Bontempelli, Civiltà occidentale, un’apologia contro la barbarie che viene, Il Canneto, Genova 2009, pagg.279-296. L’interpretazione della crisi come dovuta in ultima analisi a depressione della domanda è diffusa nell’ambito degli economisti “eterodossi”, vedi per esempio E.Brancaccio, S.Fassina, P.Leon, La crisi di un mondo di bassi salari, in Antologia della crisi globale, Quale Stato-trimestrale della Funzione Pubblica CGIL, n.1/2, 2009, pagg. 45-57.
 

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