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Il fatto che il capitale abbia dei limiti, non significa che collasserà

Agon Hamza & Frank Ruda intervistano Moishe Postone

postone5Hamza & Ruda: Il tuo lavoro stabilisce una cruciale distinzione fra la critica del capitalismo dal punto di vista del lavoro e la critica del lavoro nel capitalismo. La prima implica una descrizione trans-storica del lavoro, mentre la seconda pone il lavoro come una categoria coerente - capace di "sintesi sociale" - del modo capitalista di produzione. Tale distinzione richiede che venga abbandonata ogni forma di descrizione ontologica del lavoro?

Moishe Postone: Dipende da cosa si intende per spiegazione ontologica del lavoro. Questo ci spinge ad abbandonare l'idea che ci sia, in maniera trans-storica, uno sviluppo progressivo dell'umanità che avviene per mezzo del lavoro, che l'interazione umana con la natura, in quanto mediata dal lavoro, sia un processo continuo che ci porta a continui cambiamenti. E che il lavoro sia, in tal senso, una categoria storica centrale.

Attualmente, questa posizione è più vicina ad Adam Smith che a Marx. Io penso che la centralità del lavoro rispetto a qualcosa che viene chiamato sviluppo storico può essere posta solamente per il capitalismo e non per qualsiasi altra forma di vita sociale umana.
D'altra parte, penso che si possa mantenere l'idea che l'interazione umana con la natura è un processo di auto-costituzione.

 

Hamza & Ruda: In che senso diresti che è possibile una spiegazione del lavoro in termini di costituzione? C'è qualcosa, che può essere trovato nel primo Marx, che punta in tale direzione?

Moishe Postone: Sì, e mi sembra che dal momento che Marx storicizza la centralità del lavoro rispestto ad un continuo processo di sviluppo, ciò di per sé non esclude l'idea che il lavoro sia il processo di auto-costituzione. Solo, non sarebbe legato al concetto di uno sviluppo storico e di un costante miglioramento del lavoro.

 

Hamza & Ruda: Uno dei contributi più importanti di "Time. Labor and Social Domination" consiste in una nuova teoria di dominio impersonale nella società capitalista. Alla luce di questa irriducibile forma astratta di dominio, non si potrebbe capovolgere - o forse aggiungervi una nuova distorsione - la famosa definizione di feticismo, data da Marx, come "relazioni fra persone che appaiono come relazioni fra cose"? Sono le relazioni personali ad essere la forma capitalista di dominio, non meglio definita se non come apparenza di relazioni realmente astratte come se fossero concrete? E inoltre, questo capovolgimento, o quanto meno il riconoscimento del ruolo cruciale che ha l'astrazione nel capitalismo, rende insostenibile la definizione di lotta di classe, o abbiamo piuttosto bisogno di un concetto di classe che tenga conto di questa distanza rispetto al concreto?

Moishe Postone: Non sono sicuro di essere del tutto d'accordo con questo tentativo di riformulazione. Innanzi tutto, riguardo alla citazione "relazioni fra persone che appaiono come relazioni fra cose", quello che resta fuori da tale versione di ciò che Marx ha detto è che egli aggiunge che le relazioni fra le persone appaiono come sono, come relazioni sociali fra cose e come relazioni reificate fra persone. Marx ha solo elaborato esplicitamente il concetto di feticismo con il feticismo della merce. Tutti e tre i volumi del Capitale, sono tuttavia sotto molti aspetti uno studio sul feticismo, anche quando questa parola non viene usata. E feticismo significa che a causa del peculiare, doppio carattere della forma sociale strutturante del capitalismo, le relazioni sociali scompaiono dalla vista. Quello che otteniamo sono relazioni reificate: otteniamo anche astrazioni. Tuttavia, una definizione del feticcio è quella per cui, come dici tu, le relazioni astratte appaiono concrete. Appaiono nella forma del concreto. Così, per esempio, il processo di creazione del plusvalore appare come un processo materiale, il processo lavorativo. Appare come se fosse tecnico-materiale, anziché plasmato dalle forme sociali. Eppure ci sono anche dimensioni astratte e regolarità che non appaiono nella forma del concreto. Sottolineo questo in quanto alcune forme reazionarie di pensiero vedono il capitalismo soltanto nei termini di queste regolarità astratte, e rifiutano di vedere che è il concreto stesso ad essere modellato, e ad esserne realmente intriso, dall'astratto. Penso che un bel po' di forme di populismo e di antisemitismo possono caratterizzarsi in tal modo. Ora, non sono sicuro che questa appropriazione delle categorie della critica marxiana dell'economia politica rensa insostenibile una definizione di lotta di classe, ma essa indica che la lotta di classe avviene dentro, ed è modellata da, le forme sociali strutturanti. Questa posizione rifiuta la centralità ontologica del primato della lotta di classe, come ciò che sarebbe veramente reale e sociale dietro il velo delle forme capitalistiche. Piuttosto, la lotta di classe è modellata dalle relazioni capitalistiche espresse dalle categorie di valore, merce, plusvalore, e capitale.

 

Hamza & Ruda: Una delle tue famose e spesso discusse tesi è che il dominio impersonale nel capitalismo, come ha anche notoriamente affermato Marx, viene esercitato sul tempo e che perciò la critica dell'economia politica ora diventa la critica dell'economia politica del tempo stesso. Per un filosofo standard, educato in quel che era l'idealismo kantiano tedesco, pre-hegeliano, questo può essere tutto tranne che una sorpresa: quel che Kant considerava essere un a priori dato dalla forma di intuizione dev'essere radicalmente storicizzato e quindi potrebbe avere - come si potrebbe sostenere con Sohn-Rethel - uno status aprioristico solo in quanto è stato storicamente posto a priori.

Pertanto, si potrebbe dire, dal tuo punto di vista, che non tutta la storia è storia della lotta di classe, ma che tutta la lotta di classe è lotta di classe sulla storia, e più precisamente sul tempo? In quale trascendentale quadro temporale stiamo vivendo? E cos' il primo passo da compiere per spezzare la  trascendentalizzazione capitalistica del tempo (che rende aprioristico quello che viene chiamato "tempo storico") è dimostrare (per mezzo di quel che Marx chiama "Darstellung") che ciò che noi consideriamo essere naturale (tempo) è esso stesso un prodotto storico, che è come dire : non c'è nessun TEMPO IN QUANTO TALE (il tempo è essenzialmente relativo e non dovrebbe essere naturalizzato). Questa comprensione potrebbe essere la condizione per l'emancipazione rispetto a ciò che appare immodificabile in quanto regime naturale del tempo.

Moishe Postone: Sì, ma vorrei aggiungere che la natura della lotta di classe intorno al tempo cambia storicamente. Vale a dire, si potrebbe sostenere, e sotto molto aspetti alcuni, come E.P. Thompson, lo hanno sostenuto, che gran parte delle prime lotte della classe operaia erano lotte contro il nuovo regime che era stato introdotto. Era una lotta contro il regime di tempo astratto come tempo disciplinare, per così dire. Tuttavia, nello spazio di molte generazioni (e qui certo sono completamente schematico) le lotte della classe operaia divennero lotto all'interno della cornice del tempo astratto stesso, divennero lotte per la lunghezza della giornata lavorativa. In un certo senso, tali lotte presupponevano già l'esistenza della giornata lavorativa, in unità di tempo astratto, e così divennero lotte quantitative all'interno di quella data cornice.

Nei termini di ciò che ho sostenuto circa la possibile abolizione del regime temporale, che io ho riferito alla possibile abolizione del lavoro proletario, la possibilità storica dell'auto-abolizione del proletariato emerge in un modo che potrebbe cominciare a puntare oltre l'esistente quadro temporale. Laddove la lotta di classe industriale, avveniva all'interno di questo quadro temporale.

 

Hamza & Ruda: Si potrebbe riformulare la cosa in modo tale per cui il proletariato non sta combattendo contro un'altra classe (come la borghesia) ma piuttosto contro il mondo borghese e la sua concezione del tempo, laddove la reale abolizione del proletariato cambierebbe quel mondo reale e laddove cambierebbe la concezione costitutiva del tempo di tale mondo. Potrebbe essere questo il senso?

Moishe Postone: Sicuramente, assolutamente. Per le persone che vivono in un periodo come quello attuale, dove ci sono enormi disuguaglianze, questo diventa più difficile da vedere. Per cui pensano che la lotta sia contro l'1%. Ma sono completamente d'accordo.

 

Hamza & Ruda: Come si relaziona la tua descrizione del tempo, come "variabile indipendente" o tempo astratto e come "variabile dipendente" o tempo concreto, alla dimensione standard e piuttosto banale di tempo come passato, presente e futuro. Hai indicato che con lo sviluppo della tecnologia un'ora di lavoro può diventare più intensa, più densa, più condensata e tale da essere in una relazione specifica con le forme di tempo storicamente determinate, e sembra esserci un'intensificazione quantitativa che in ultima analisi potrebbe anche portare ad un salto qualitativo nella direzione opposta, cosicché ad un certo punto potrebbe anche sorgere una possibilità di superare e liberare il lavoratore dal lavoro, quando la tecnologia raggiunge un punto dove non c'è più bisogno del lavoratore. Concorderesti con questa ricostruzione banalizzante?

E se è così, e anche in caso contrario, come si relaziona la tua analisi del tempo nel e sotto il capitalismo alle analisi del capitalismo contemporaneo che cercano di dimostrare come il capitalismo sottragga una o anche più di una dimensione di tempo, in maniera tale che c'è una peculiare assenza non solo di futuro (come asserisce l'atteggiamento no-future), ma anche di un vero e proprio presente (e quindi anche di un vero e proprio passato)?

Moishe Postone: Il tempo (i tempi) del capitale consiste di una complessa dinamica, che comporta allo stesso tempo trasformazioni continue ed accelerate, che non sono solo tecnologiche ma riguardano tutte le sfere della vita, da una parte, e la ricostituzione delle basi fondamentali del capitale, dall'altra. Il processo di ricostituzione delle basi del capitalismo nel quadro della critica di Marx è la ricostituzione del lavoro, non solo come fonte della forma valore della ricchezza ma, in maniera relata, del lavoro in quanto attività mediatrice socialmente necessaria che dà luogo ad un'intera struttura di dominio astratto. Ho suggerito come le persone tendano a vedere solo una dimensione di questa complessa dialettica: o si accorgono che più le cose cambiano più tutto rimane uguale, ogni cosa è solo questo continuo deserto informe del presente, oppure si eccitano per come qualsiasi cosa solida si sciolga nell'aria, per come tutto sia accelerazione. L'attuale traiettoria dello sviluppo del capitale dentro il quadro della teoria, come mi risulta - e questo è particolarmente importante -, non dovrebbe essere inteso in relazione né all'una né all'altra ma ad entrambe allo stesso tempo. Questo significa che non si tratta di uno sviluppo lineare. Ci sono crescenti pressioni trasversali, come si direbbe in fisica, che sono interne al sistema. Sia la forma di produzione che il senso delle possibilità storicamente costituite devono essere comprese in riferimento a quello che chiamo le pressioni trasversali degli sviluppi capitalisti. Ha un senso questo?

 

Hamza & Ruda: Ce l'ha. Così, si potrebbe dire che alcune posizione teoriche contemporanee che appaiono sotto il nome di "accelerazionismo", una posizione che assume che si devono abbracciare le tendenze contraddittorie del capitale ed accelerare la sua produzione a tutti i livelli è soltanto una fantasia di superamento del capitalismo da dentro il funzionamento stesso del capitalismo e che quindi non può non aderire alla sua stessa dinamica?

Moishe Postone: Certo, anche se dovrei disarticolare diversi momenti della tua descrizione che sono stati fusi insieme. Questa dinamica dialettica che ho sottolineato è contraddittoria, cioè, genera e fa crescere una contraddizione fra il potenziale del sistema e la sua attualità. Il fatto che ci sia un limite al capitale non significa che il capitale collassi. Piuttosto il limite è una curva asintotica, che si avvicina sempre più ad un limite assoluto ma non lo raggiunge mai. Se la trasformazione sta per verificarsi, deve verificarsi in quanto le persone catturate nella contraddizione fra ciò che è e ciò che potrebbe essere, guardano a quel che potrebbe essere, al futuro, piuttosto che restare fissati su quel che pensano fosse il passato.

In un certo senso, gran parte della sinistra, a tal riguardo e da questo punto di vista, sta diventando conservatrice. Quel che voglio dire con questo è che il loro punto di vista è il passato. Nel 19° secolo, per esempio, molti movimenti anticapitalisti guardavano al passato. Conservavano un'immagine glorificata della società contadina, della sua organizzazione. Tale società non è mai esistita, ovviamente. Ed è stato il lavoro di intellettuali legati al movimento della classe operaia che ha visto molto chiaramente che non c'era modo di tornare indietro. Tuttavia, molti di quelli vicini ai movimenti della classe operaia, basandosi in parte sulla lettura del Manifesto Comunista, assumevano che la classe operaia si sarebbe ampliata indefinitamente ed avrebbe compreso la maggior parte delle persone. Alla fine, la società sarebbe stata composta da un 1% di borghesia ed i lavoratori avrebbero preso il sopravvento. Questo, pero', non è avvenuto e non avverrà. E quello di fronte a cui ci troviamo oggi è una crisi della classe operaia tradizionale e del lavoro. Eppure c'è ancora un pensiero di sinistra che glorifica ancora il lavoro proletario, che ha ancora implicitamente una concezione di società basata sulla piena occupazione - cosa con cui intendoo piena occupazione proletaria. Oppure, più socialdemocraticamente, guardano indietro al successo della sintesi fordista-keynesiana dei decenni del dopoguerra, in cui erano occupate molte più persone, in cui i salari erano più alti, in cui le disparità di reddito non erano nemmeno lontanamente così grandi come lo sono oggi, e vorrebbero vedere una ritorno a quel genere di utopia socialdemocratica. Ma, non c'è ritorno. E un'analisi ad occhi aperti del capitale indicherebbe che a quello non si torna e che coloro che insistono ancora a parlare di piena occupazione industriale ecc. sono, in un certo specifico senso, dei reazionari. Stanno guardando indietro ad un passato che non può più essere ristabilito. D'altra parte, la risposta non è semplicemente quella di abbracciare il capitale. Il capitale non sta andando a realizzare il potenziale che genera e non può farlo. Il capitale è enormemente distruttivo così come è generatore di possibilità che puntano al di là di esso. Ci deve essere un reorientamento del pensiero verso una differente concezione del futuro. Dobbiamo superare 150 anni di pensiero di sinistra e cominciare a considerare quello che è esistito come un filone minore, e cominciare a pensare a cosa potrebbe somigliare il lavoro post-proletario. Persone come André Gorz si sono occupate di simili questioni ma, tranne che fra gli intellettuali universitari, sono stati parecchio emarginati.

 

Hamza & Ruda: In "History and Helplessness" tu approcci la categoria critica di indeterminazione come un obiettivo di lotta politica e sociale, piuttosto che in quanto categoria di analisi sociale. Piuttosto che assumere che c'è una classe o un gruppo sociale intrensicamente libero da certe determinazioni sociali, tu evochi la produzione di indeterminazione come un importante risultato dell'azione politica. Potresti elaborare questo punto ed integrarlo con un'analisi del suo opposto: il luogo di indeterminazione nella struttura sociale capitalista, e la lotta per le diverse forme di determinazione come dimensione dell'azione politica?

Moishe Postone: Non sono sicuro su questa questione, in quanto non sono sicuro di avere sostenuto che l'indeterminazione sia una caratteristica della lotta politica e sociale. Se potessi approfondire un po' di più, la questione mi sarebbe più chiara.

 

Hamza & Ruda: Quello che ci chiedevamo era che cosa potrebbe occupare il posto che ora è occupato dal lavoro?

Moishe Postone: Capisco. Ci può essere un malinteso. Quando reagisco contro quello che un tema popolare in gran parte del pensiero post-marxista, fra gli accademici post-strutturalisti e soprattutto decostruzionisti, ciò riguarda l'indeterminatezza stessa in quanto segno della possibilità di resistenza: mostrare che la realtà è indeterminata, significa mostrare che la resistenza è possibile. E non voglio che la mia posizione venga confusa con quel genere di posizione. In quanto per me il loro concetto di indeterminatezza è troppo indeterminato, proprio come è politicamente molto indeterminata la loro idea di resistenza. Quel che abbiamo visto negli ultimi decenni sono molte forme di "resistenza" che sono reazionarie. Lo stesso termine di "resistenza" non dice niente in termini di emancipazione. Per cui non condivido quel genere di visione. Quel che cercavo di dire in quel saggio è che, già mezzo secolo fa, sono emerse nuove forme di movimento e di movimenti di studenti che erano globali.

In un certo senso quei movimenti erano espressione dell'inadeguatezza delle precedenti analisi di quale fosse la natura della lotta, di chi dovesse essere il soggetto della lotta e, cosa più importante, quale sarebbe stato il possibile risultato della lotta. E ho detto che tutte queste certezze si erano sbriciolate. Ma questi nuovi movimenti non sono mai diventati abbastanza storicamente auto-consapevoli da cogliere che cosa avessero espresso storicamente, o meglio ancora, ciò di cui essi erano espressione storica. Vale a dire, essi non sono diventati consapevoli della loro situazionità storica. Credo ci sia stata codardia, teoricamente. Anziché ripensare cos'è il capitale, quale fosse il significato di questi movimenti post-proletari, e come essi suggerissero un diverso tipo di lotta anti-capitalista che puntava oltre una differente concezione di post-capitalismo, gran parte di quei movimenti sono diventati un movimento amorfo rivolto all'anti-imperialismo, e con questo non intendo lotta anti-coloniale di per sé, che io ho sostenuto. Piuttosto, era un modo di cogliere il mondo in termini di dominio concreto e di liberazione concreta. (Penso sia significativo che il carattere miserabile della maggior parte dei regimi post-coloniali non sia mai stato oggetto di analisi critica della maggior parte della sinistra). L'altra svolta rispetto al problema del dominio concreto in seguito agli anni 1960 è stata il sostegno alle lotte dei dissidenti nell'Est Europa. E ancora una volta, non è che io non simpatizzi con quelle lotte. Ma nonostante il fatto che tali lotte e le forze anti-imperialiste appaiono rappresentare due campi completamente opposti, ciò che avevano in comune era un focus sul dominio concreto. Se in un caso, si trattava di quello che chiamavano imperialismo, nell'altro si trattava del dominio del sistema statale dei Soviet. E in entrambi i casi si trattava di un focus sul dominio concreto, la cui distruzione avrebbe dovuto essere in qualche modo generativa di società civili di emancipazione. Entrambi indicavano un allontanamento dal compito storico di comprendere la nuova fase del capitalismo con le sue ancora più astratte forme di dominio.

 

Hamza & Ruda: Solo un punto, collegato a questo. Avresti detto: ci sono stati alcune descrizioni di movimenti di studenti più nuovi, come il movimento Occupy, dove le persone hanno evidenziato che un punto di forza di quel movimento è stato o è provenuto dalla loro assoluta indeterminatezza, almeno all'inizio. In maniera tale che non hanno sollevato alcuna richiesta specifica, eppure la reale debolezza di quel movimento è stata tale reale indeterminatezza, per cui è difficile determinare il punto preciso in cui l'indeterminatezza è ancora produttiva o smette di esserlo. Sei d'accordo con questa descrizione?

Moishe Postone: Non sono un grande fan dell'indeterminatezza del movimento Occupy. Si potrebbe affermare che se il concetto di futuro è indeterminato, allora il movimento dev'essere indeterminato. Ma quel che il movimento ha fatto è stato di scivolare indietro su un territorio del tutto familiare. Ad esempio, al posto del capitale, si è avuta una critica della finanza, cosa che per me è politicamente molto ambigua. Inoltre, una delle grandi debolezze di questi movimenti informali indeterminati è che ci sono dei leader autonominati che non sono responsabili nei confronti di nessuno. Ritengo che la forma anarchica sia fondamentalmente più autoritaria di una forma strutturata, in quanto non c'è responsabilità. Alla fine, il focalizzarsi di Bernie Sanders sulle politiche commerciali in quanto responsabili per la perdita dei posti di lavoro manifatturieri è un altro esempio di rivolgersi al concreto per spiegare quegli sviluppi che richiederebbero una teoria del capitale. La miseria della classe operaia negli Stati Uniti è stata aggravata dalle politiche commerciali, non è stata creata da esse. Cioè, le persone cui Sanders faceva appello e, in un modo diverso, cui Trump si rivolgeva sono persone cui è stato detto che ci sono degli atti concreti e delle persone concrete che sono responsabili per quello che è lo stato del mondo. Se, con la spiegazione razzista e xenofoba di Trump, si tratta dei messicani e dei musulmani ecc., per la sinistra populista sono le banche ed il commercio. Se non fosse per "loro", in America avremmo dei posti di lavoro. Ebbene, i posti di lavoro in America non stanno per tornare. Le ragioni hanno molto più a che fare con la logica del capitale, che con le politiche commerciali. Ma invece di pensare al modo in cui dobbiamo confrontarci con una società in cui il lavori manifatturieri stanno scomparendo, di pensare al fatto che la responsabilità del governo riguarda una situazione nuova, la sinistra populista evita tali questioni. Perciò non penso che Occupy sia un modello. È un'espressione di impotenza e di rabbia. Per cui abbiamo da una parte élite di tecnocrati, e dall'altra rabbia populista. Che naturalmente, come sappiamo, scorre anche attraverso tutta l'Europa.

 

Hamza & Ruda: In "Time, Labor and Social Domination" elogi la lettura epistemologica fatta da Sohn-Rethel delle categorie di Marx, un coraggioso tentativo di pensare le irriducibili astrazioni implicate nella forma-merce. mentre allo stesso tempo ne prendi le distanze, in quanto Sohn-Rethel privilegia lo scambio sulla produzione, e per la sua separazione della merce-scambio dall'emergere storico del modo capitalista di produzione. Tuttavia, c'è ancora un terzo aspetto del progetto di Sohn-Rethel, menzionato di sfuggita nel tuo libro: la dimensione produttiva, o addirittura emancipatrice, di astrazione ed alienazione (ad esempio, nelle astrazioni scientifiche - ma anche nel lavoro militare disciplinato, nell'organizzazione sociale complessa, ecc.). Questo potrebbe forse sviluppare ulteriormente la tua critica di Sohn-Rethel ed approfondire la tua posizione per quel che concerne il potenziale di emancipazione della dimensione dell'astrazione?

Moishe Postone: Beh, se posso tornare a quel che stavo dicendo prima, quel che ho cercato di ottenere è un modo di vedere la sfera della produzione nell'analisi di Marx come un luogo di dinamica storica. Non semplicemente un luogo dove vengono prodotte le cose concrete e dove le persone vengono sfruttate. Mi sembra che un bel po' di persone, incluso Michael Heinrich, fraintendano del tutto cosa sia la sfera della produzione. Nella critica di Marx, la sfera della produzione è la sfera della dinamica storica, è la sfera in cui il valore eccede sé stesso e ancora ricostituisce sé stesso. E focalizzandosi sullo scambio, Sohn-Rethel in un certo senso rimuove tale dinamica dalla ricerca, e cade preda di un'opposizione la quale - anche se Sohn-Rethel era molto sofisticato e non può essere assolutamente gettato nello stesso cestino intellettuale degli stalinisti - oppone la produzione allo scambio. Ed io critico questa posizione - e non perché glorifichi la produzione ma in quanto egli colloca il luogo dell'astrazione solo nello scambio. Penso che sia un grave errore, perché il luogo reale dell'astrazione è la dinamica storica. Eppure questo è molto più difficile da comprendere dell'idea dell'astrazione del mercato. Uno dei risultati è che tuttavia non c'è differenza storica in Sohn-Rethel fra la filosofia greca e la filosofia del 17° secolo ed il pensiero del 19° secolo. È tutto modellato dall'astrazione reale dello scambio. Ed io penso che per quanto ricco e suggestivo sia il suo lavoro, questo è un punto debole. D'altra parte, e questo attiene alla tua domanda, diversamente dai romantici, Sohn-Rethel dice che c'è una dimensione positiva nel regno dell'astrazione. Sono d'accordo con lui, ma vorrei modificare leggermente questo: il regno dell'astrazione generato un quanto parte dell'ascesa del capitale è universalizzante. Tuttavia, lo è in un modo che nega la particolarità. È parte di un sistema caratterizzato da una dicotomia e da un'opposizione polare fra l'astratto universale e lo specifico particolare. L'astratto universale ha una dimensione emancipatrice. L'universalità astratta della forma sociale costituisce la cornice storica dentro cui emergono, tutti dagli ideali dell'Illuminismo, categorie come diritti umani generali o i diritti dell'uomo. Dall'altra parte, è una forma di universalità che necessariamente astrae da ogni cosa particolare. Il capitale genera un sistema tipicamente dall'opposizione dell'universalità astratta, la forma valore, e della particolarità specifica, la dimensione del valore d'uso. A mio avviso, piuttosto che vedervi un movimento socialista o emancipatore come hanno fatto gli eredi dell'Illuminismo, come ha fatto il movimento classico della classe operaia, un movimento critico oggi dovrebbe impegnarsi in una nuova forma di universalismo che comprenda il particolare, piuttosto che esistere in opposizione al particolare. Questo non sarà facile, dal momento che oggi una buona parte della sinistra si é spostata verso la particolarità anziché cercare di trovare una nuova forma di universalismo. Penso che questo sia un errore fatale.

 

Hamza & Ruda: Il tuo lavoro è uno dei pochi - forse insieme alla teoria dei "modi di relazionarsi" di Kojin Karatani - a criticare la "metafora architettonica" che pensa la logica dei modi di produzione in termini di base/sovrastruttura senza arretrare sul terreno della centralità della critica dell'economia politica. Che cosa rimane della teoria dei "modi di produzione" quando non ci allontaniamo dall'oggettivo per andare verso il soggettivo, ma quando piuttosto evidenziamo, come tu suggerisci, la costituzione simultanea delle dimensioni soggettive ed oggettive della vita sociale sotto il capitalismo - e in che modo questo influisce sul concetto stesso di critica?

Moishe Postone: Anche in questo caso, penso che ci siano molte cose che sono coinvolte. Per prima cosa, metto in discussione il materialismo storico - che in realtà non è stato creato da Marx, ma in seguito e in gran parte da Engels - cioè, l'idea per cui ci siano modi successivi di produzione. Penso che analizzando le argomentazioni di Marx nel Capitale venga messo in discussione il concetto che ci sia un modo unificato di produzione prima dell'emergere storico del capitale, il quale è unificato nel senso che si può cominciare da un principio singolare, la merce, per spiegare e comprendere il tutto. Non si trova niente di analogo nelle altre forme di vita sociale, in parte perché la possibilità di spiegare il tutto sociale a parte da un punto di partenza singolare è possibile solo in quanto, nel capitalismo, il modo di mediazione è uniforme. È questa la lezione della forma merce. Nessun altra società ha una forma di mediazione omogenea, uniforme, perciò diventa veramente fuorviante parlare dei primi modi di produzione. E' legittimo dire che certe economie, come quella dei Romani, erano in larga misura basate sugli schiavi, ma la schiavitù non occupava lo stesso posto che ad esempio occupa sotto il capitalismo, dove è parte di un sistema molto più grande. Non c'è un sistema simile a Roma o nel Medioevo o in Cina. È molto più eterogeneo. Dimentichiamoci del concetto di base/sovrastruttura. È stato talmente frainteso, che è meglio liberarsene. È stato frainteso in quanto relazione fra oggettività e soggettività, mentre invece l'unica volta in cui Marx lo ha utilizzato, è stato a proposito dell'istituzionalizzazione delle forme di pensiero, che è una cosa diversa. Egli si riferiva, ad esempio, all'istituzionalizzazione giuridica, non alla forma del pensiero in sé. La forma di pensiero è intrinseca alle forme sociali. Cosa rimane della critica? Innanzitutto, dev'essere riflessiva. Se le categorie sono tanto categorie del pensiero quanto sociali, la stessa cosa vale anche per il pensiero critico. Nessuna forma di pensiero ha validità trans-storica. Non puoi sostenere che tutti gli altri siano formati socialmente, e presumibilmente ingannati, mentre io non sono socialmente formato e sto al di sopra ed al di là di tutti gli altri. Il linguaggio dei modi di produzione, che è un linguaggio trans-storico, permette a tale epistemologia trans-storica di sgattaiolare dalla porta sul retro. Quindi è meglio non averlo. L'approccio che ho delineato significa che la teoria critica è valida solo fino a quando esiste il suo oggetto. Non c'è e non ci può essere una cosa come una società marxista, a parte il capitalismo, naturalmente.

 

Hamza & Ruda: In generale, c'è un grande scisma fra, da una parte, il lavoro di svolgere una critica sia categoriale che settoriale dell'economia politica, e, dall'altra, la lotta di diversi fronti politici e militanti che di solito si basano su analisi locali della loro situazione politica. Come vedi oggi la relazione fra la critica dell'economia politica e l'organizzazione politica militante?

Moishe Postone: Da un lato non ci si può aspettare che le persone che cercano di elaborare una critica categoriale si trovino sempre nella prima linea dei movimenti e non ci si può aspettare che persone che sono più inclini all'attivismo possano essere dei grandi teorici. Ci possono essere delle eccezioni, ma generalmente non è così. Tuttavia, si può sperare che uno dei ruoli della teoria, e questo anche se appare modesto è molto importante, sia quello di mostrare quali percorsi sono chiaramente sbagliati. Si può spendere un sacco di energia e di forze nei percorsi sbagliati. Ricordo di aver discusso negli anni 70, con delle persone sia negli Stati Uniti che in Germania, sul fatto che un movimento di ritorno alla "natura" dove ciascuno poteva mungere la propria mucca era soddisfacente a livello personale e si trattava di un modo di vivere che era ricco e appagante. Ma questo non poteva servire in alcun modo come modello per una società. Nella misura in cui le persone promulgano questo ideale romantico, distolgono le forze di opposizione, i gruppi, i pensatori, dal cercare di combattere per la definizione di quale possa essere un percorso adeguato. Perciò, uno dei compiti più importanti della teoria forse non è tanto quello di indicare quale sia la strada per la rivoluzione, quanto indicare quali strade non portano ad una trasformazione emancipatrice. Ad esempio, questo discorso avrebbe potuto essere fatto nei confronti di Occupy.

 

Hamza & Ruda: La tua tesi, in " The Holocaust and The Trajectory of the Twentieth Century", secondo la quale i campi di concentramento andrebbero piuttosto compresi come "grottesca negazione anti-capitalista" della modernità capitalista - una sorta di «fabbrica della "distruzione del valore" (...) della distruzione della personificazione dell'astratto» - è una esempio convincente della tesi, presentata in "Time, Labor and Social Domination", secondo cui la dialettica capitalista di trasformazione/ricostituzione è di fatto un'espressione dell'intreccio di due forme di dominio, la prima basata sul tempo astratto, e l'altra sul tempo storico. Da questo potrebbero essere estratte conseguenze cruciali, soprattutto per quanto riguarda la critica di progetti emancipatori che basano le loro aspettative per il futuro sulla liberazione del "concreto"  e dello "storico" dalle grinfie dell'astrazione. Come influisce, la tua analisi delle categorie del tempo e della temporalità, sulla dialettica fra utopia e ideologia?

Moishe Postone: È un avvertimento. Quello che ho cercato di fare nel saggio sull'Olocausto cui ti riferisci sono due cose insieme. Ho cercato di aiutare le persone a capire che c'è una differenza fra l'omicidio di massa e lo sterminio. Non si tratta di una differenza morale. Non è che una cosa sia peggio o meglio dell'altra. Proprio analiticamente, non puoi capire l'Olocausto se lo sussumi sotto le categorie di xenofobia, odio razziale ed omicidio di massa. Voglio dire, ha un senso di missione e di obiettivo che le altre forme di razzismo non hanno. Non solo, è utopico. È utopico nel senso che tenta di liberare il concreto dalle grinfie dell'astrazione. Questo concetto di emancipazione ha dato forma alla cosiddetta "Rivoluzione Tedesca" dei nazisti. Gli ebrei, in questa visione del mondo, diventano in un certo senso non solo la personificazione del capitale, ma anche la fonte del suo dominio astratto. Penso che l'Olocausto dovrebbe servire come monito significativo contro tutte le forme di utopia che reificano il concreto e denigrano l'astratto - anziché vedere che entrambi, l'astratto ed il concreto, così come la loro separazione, sono ciò che costituisce il capitale. Questo è il primo punto. Il secondo è che il capitale (e questo si basa sulla mia lettura di Marx), non è semplicemente un vampiro astratto seduto sulla cima del concreto, per cui ci si potrebbe semplicemente sbarazzare di esso, come prendere un'aspirina. Nell'immaginario, il capitale è considerato estrinseco rispetto al concreto, alla produzione o al lavoro. Il capitale, tuttavia, in realtà modella il concreto. Svuota il lavoro, incrementando la sua significatività. Allo stesso tempo è una forma alienata di socialità umana, di capacità umane. Come tale, genera forme socialmente generali di conoscenza e di potere, anche se le genera storicamente e in una forma che opprime il vivente. Eppure, sotto molti aspetti, è proprio questo che diventa la fonte delle possibilità future. Cioè, il lavoro vivente (proletario) non è la fonte di possibilità storiche future. Piuttosto, tale fonte è quello che è stato costituito storicamente come capitale. Ora lo so che questo suona come se io stessi capovolgendo ogni cosa. Sto dicendo che la categoria del lavoro vivente in Marx non è la fonte dell'emancipazione. Lo è, piuttosto, il lavoro morto. Forse questo può sembrare una provocazione, ma è ciò su cui si deve riflettere.

 

Hamza & Ruda: Pensi o vuoi sostenere che ogni cambiamento fondamentale nelle dinamiche e nella struttura del capitalismo sia sempre qualcosa di pericoloso, non solo nel senso che minaccia di ricadere sempre in quello che si vorrebbe superare, ma anche nel senso che stiamo correndo il rischio di peggiorare? Si potrebbe pensare con Walter Benjamin che diceva che dietro ogni fascismo c'è una rivoluzione fallita. E vorresti dire che, nondimeno, bisogna assumersi il rischio di fallire nel rivoluzionare (e quindi il rischio del fascismo) o qualcosa è cambiato con e dopo il 20° secolo (di modo che l'imperativo è piuttosto e sempre che per prima cosa bisogna evitare il rischio del fascismo e quindi bisogna ripensare rivoluzione e trasformazione politica sotto questa prospettiva)?

Moishe Postone: Penso che si tratti di una serie di problemi molto complicati. Da una parte, non penso che il rischio del fascismo, che è un rischio assai grande, sia tale che non dovremmo cercare di cambiare niente. In quanto non è che noi viviamo in un sistema statico che possa funzionare abbastanza bene da solo, senza che si creino problemi. Piuttosto, i problemi si creano, si creano a partire dagli sviluppi storici strutturali. C'è un pericolo reale di fascismo, e qui è dove l'analisi comunista riduzionista del fascismo ci ha reso un tremendo cattivo servizio. Il fascismo non è semplicemente un movimento manipolato dalla classe dominante reazionaria, non è semplicemente un'espressione del declino delle classi tradizionali. Piuttosto il movimento verso un nuovo fascismo esprime in parte la sofferenza provata dalle persone come risultato della trasformazione del capitale in assenza di un movimento politico che dia un senso a quella sofferenza in dei modi che non siano antisemitici né del ruolo del capro espiatorio giocato da vari gruppi in maniera xenofobica o razzista. Penso che questo sia particolarmente attuale oggi. Un fenomeno come Donald Trump, alcune ali dei supporter di Bernie Sanders, il movimento per il Brexit, la destra in Francia - queste non sono più espressioni delle classi tradizionali reazionarie, ma in gran parte espressioni delle classi lavorative industriali in declino. Non è sufficiente, per la sinistra, chiamarli semplicemente razzisti, xenofobi e gretti. E sarebbe un terribile errore adottare opportunisticamente la loro mentalità, anche se si prende sul serio la loro miseria. In questo caso non ci si sta confrontando in modo adeguato con la crisi del capitale industriale. Abbiamo invece bisogno di un altro modo di vedere il mondo, al di là delle politiche identitarie sia della sinistra che della destra. In quanto membri di una configurazione cosmopolita, non possiamo semplicemente dire che il multi-culturalismo è figo perché ci piace molto camminare per le strade di una citta come Londra, che è una vera metropoli, e fare esperienza in mille modi della globalità di tutto quanto. Non possiamo semplicemente cancellare tutto quello che si trova nel nord dell'Inghilterra. Il fatto che abbiano commesso un errore non significa che non ci siano buone ragioni per loro di sentirsi radicalmente insoddisfatti. Così, il nuovo pericolo del fascismo, e ora sto usando "fascismo" in un senso molto lasco, è generato dalla sofferenza e dalla miseria causata dalla dinamica del capitale. È accaduto che molti, a sinistra, hanno cercato di affrontare la natura del capitalismo di essere soggetto alle crisi, per mezzo di un programma di piena occupazione e attraverso forme di previdenza sociale che si basavano su tale piena occupazione. Questo non funziona più. Non sto denigrando tale programma perché era riformista. A suo tempo, aveva perfettamente senso. Tuttavia, ora non ha più senso. Così. la sinistra ha sempre meno da dire in termini di analisi della situazione - se non presentarsi come anti-razzista, cosmopolita e globalizzante. Tutto ciò che sta facendo è creare rabbia da parte di coloro che attualmente soffrono i colpi dell'economia globalizzata.

 

Hamza & Ruda: Si prende sul serio chi non può essere preso sul serio. E così possiamo dire che l'unica articolazione politica che viene data a quel tipo di insoddisfazione è una sorta di fascismo, e si puo anche vedere un fallimento della sinistra che ha qualcosa a che fare con questo?

Moishe Postone: Si.

 

Hamza & Ruda: Una delle posizioni prevalenti a sinistra è l'idea che abbiamo bisogno di nuove forme di organizzazione politica che privilegi l'immanenza sulla trascendenza, la molteplicità sull'unicità - ed il concreto, impegno locale sulle mediazioni astratte. Quali sono, a tuo avviso, i limiti degli strumenti tradizionali di lotta della sinistra (forma partito, sindacati, ecc.)? Inoltre, la tua critica della visione teleologica del proletariato implica una concezione populista della costruzione di agenti politici?

Moishe Postone: Credo di aver già toccato questi argomenti in parte. Privilegiare l'immanenza sulla trascendenza, la molteplicità sull'unicità, e l'impegno concreto locale sulle mediazioni astratte significa semplicemente solo prendere uno dei poli della dicotomia costituita dal capitale. Così, quello cui purtroppo stiamo assistendo troppo spesso è un dibattito fra intellettuali globalizzanti ed élite economiche che rappresentano il lato astratto, da una parte, e gli attivisti reazionari ed anche i populisti di sinistra che prendono il lato concreto, dall'altra parte. Non si considera la relazione del determinato concreto e del determinato astratto in dei modi che potrebbero quanto meno puntare alle forme di trascendenza immanente o di immanenza trascendente, né un universalismo che contiene delle particolarità o un particolare che anziché essere settario è un particolare che in sé stesso è diventato più universale. Non possiamo semplicemente adottare una posizione che si allinei alle particolarità, che guarda alle varie usanze e pratiche altrove nel mondo e semplicemente dice che questa è la loro cultura. E neppure possiamo loro semplicemente imporre qualcos'altro. Innanzitutto quello che viene considerato come la loro cultura molto spesso è stata solamente una loro reazione moderna negli ultimi 100 o 150 anni alla sconfitta ed alla perdita di potere, che rappresenta sé stessa come un ritorno ai "fondamentali autentici". Ma non è così. In ogni caso, tali "fondamentalismi" dovrebbero essere letti come reazioni ad un mondo globalizzato, ed essi hanno alcune caratteristiche che coincidono con le caratteristiche del fascismo. C'è il pericolo che la sinistra possa cadere nel buco del coniglio. La sinistra deve cominciare a verificare il potenziale di emancipazione della globalizzazione. Molti lo assumono senza prendersi la briga di analizzare realmente la propria forma di vita, e ciò che questo implica relativamente ad un'altra forma di globalizzazione, forse una forma più emancipatrice di globalizzazione. Quella che chiami la svolta all'immanenza ed al particolare è essenzialmente romantica ed è stata una caratteristica del capitalismo negli ultimi 200 anii e continuerà ad essere una caratteristica del capitalismo. Viene generata dal capitalismo stesso, così come l'astratto universale, contro cui reagisce. E le forme puramente anarchiche di organizzazione non riusciranno mai a svolgere questo compito storico. Dobbiamo cercare di sviluppare nuove forme di organizzazione, che siano realmente organizzate. Suggerisco che un'organizzazione ha più possibilità di sviluppare una significativa democrazia interna rispetto alla maggior parte delle modalità anarchiche.

 

Hamza & Ruda: In "Time, Labor and Social Domination" sostieni ad un certo punto che si potrebbe paragonare strutturalmente e sistematicamente l'affermazione di Hegel secondo cui l'Assoluto è sostanza ma anche soggetto, alla determinazione di Marx del capitale in quanto valore auto-valorizzante in cui il capitale sarebbe per l'appunto l'anonima, impersonale forma di dominio che è tanto la sostanza quanto il soggetto del capitalismo. In Hegel, questa storia dello spirito (ed anche lo spirito Assoluto . vale a dire, l'Assoluto in quanto spirito) arriva necessariamente ad una fine (che per lui è precondizione perché continui in maniera non-predeterminata). Intendi che si potrebbe dire qualcosa di simile anche per Marx? Potrebbe essere che bisogna prima abbracciare - come sembra fare Jean-Pierre Dupuy, il teorico france delle catastrofi - la fine (del capitalismo e dell'emancipazione, ecc.) per poter ottenere in ultima analisi una nuova prospettiva riguardo l'emancipazione?

Moishe Postone: Non credo che il capitale come il Geist arrivi necessariamente ad una fine. Una delle differenze importanti fra Hegel e Marx è che per Hegel l'arrivo di una fine implica la piena realizzazione della totalità Per Marx, se il capitale arriva ad una fine, questo non comporta che realizzi sé stesso, ma lascia il posto ad una nuova forma di vita che è stata resa possibile e concepibile dal capitale stesso. Ciò comporta il superamento del capitale sulle basi del capitale. La comprensione anarchica di una società emancipata è di solito quella di un modello locale. Non so come uno si immagini che un pianeta che è stato costituito storicamente ora torni alle comunità locali che hanno tenui relazioni con altre comunità che non sono vicine. Penso che l'anarchismo oggi possa essere visto come una fuorviante ma comprensibile reazione al tipo di burocratizzazione della società civile e dello Stato che è caratteristica del capitalismo avanzato. Ma non è adeguato alla catastrofe verso cui stiamo andando. Penso che ci sia una ragione per cui sono stati realizzati tanti film distopici ultimamente. Quella che possiamo avere è un'immagine del completo collasso sociale. Il capitalismo non collasserà necessariamente economicamente, in quanto sistema di mediazione sociale della ricchezza. Ma la società cui ha dato origine collasserà. Il risultato potrebbe essere una forma di vita sociale allo stesso tempo hobbesiana - violenta cattiva e breve (penso a Mad Max) - e militarmente controllata. Ci troviamo alla vigilia di questo collasso sociale. Lo dico anche se non sono affatto un amico delle teorie della catastrofe. Non amo le visioni apocalittiche, in genere sono state sempre distruttive.

 

Hamza & Ruda: Dupuy fa un ragionamento leggermente diverso in quanto sostiene che la strada che porta al nostro futuro è parte della catastrofe che sta già avvenendo. Afferma che il nostro modo di affrontare la crisi ecologica si basa su una struttura di calcoli che deve rimanere stabile e noi stiamo agendo assumendo che sia così e che non ci sia alcun punto di non ritorno che una volta raggiunto cambierebbe il quadro. Ma potrebbe esserci un punto di irreversibilità proprio come effetto del nostro modo di affrontare la catastrofe che vogliamo prevenire (assumendo che possiamo gestirla), poiché la catastrofe avverrà sicuramente se noi cerchiamo di prevenirla nel modo in cui lo stiamo facendo.

Moishe Postone: Questo ha per me più senso. Ma, le persone che sostengono l'importanza di limitare l'aumento delle temperature di due gradi sono a conoscenza di un dilemma. Se dici a tutti che ora la catastrofe ambientale è irreversibile, questo potrebbe indurre le persone a rifiutare tale posizione come semplicemente allarmista oppure potrebbe indurle a dire che non c'è niente da fare. Le persone che conosco e che pensano che ci sarà sicuramente una catastrofe fanno parte dell'ala destra dei "survivalisti" americani, che costruiscono i propri rifugi sotterranei, rifornendoli con un sacco di cibo, armi, ecc.. Questa può essere ridicola come risposta, ma è una risposta immediata. Non è propriamente quello di cui sta discutendo Dupuy. Ma mi sembra che ci troviamo di fronte ad una catastrofe e che essa può essere ostacolata solo se le persone comprendono che si tratta di una vera e propria catastrofe, e non penso che si dovrebbe abbracciare una catastrofe.

 

Hamza & Ruda: Prima hai detto che gli ebrei divennero l'oggetto di un dominio astratto. Potremmo forse fare un paragone con la crisi dei rifugiati?

Moishe Postone: Non lo penso. Ma questo non significa che razzismo e xenofobia nei confronti degli emigranti non sia reale e reazionario e che non sia un problema reale. Ma penso che l'antisemitismosia veramente qualcos'altro e che la sinistra sia insensibile rispetto a questo. L'antisemitismo attiene a chi controlla il mondo. Nessuno pensa che i rifugiati siriani, afgani o i africani controllino il mondo. Vengono considerati una minaccia per il proprio modo di vita. Questa è una cosa diversa. Assomiglia più a come i bianchi del sud negli Stati Uniti considerano i neri in quanto minaccia al loro modo di vita se ottengono pieni diritti civili. C'è una differenza. Nessuno nel sud ha mai pensato che i neri governino il mondo. Nessuno pensa che i rifugiati governano il mondo, che si trovino dietro le banche, per esempio. Se nella cornice di questo modo populista di pensare qualcuno domina il mondo è l'America ed Israele e questo ha molto a che fare con l'antisemitismo. Fare questa distinzione non significa dire che l'antisemitismo è male ed essere contro i rifugiati non è poi così male. È molto male, e le persone lo usano come un modo per dare senso alla miseria delle loro vite. La miseria ha molto a che fare con le politiche di austerità europee quanto con la crisi strisciante del lavoro proletario, di cui ora i rifugiati stanno diventando le vittime involontarie.

 

Hamza & Ruda: Un'ultima domanda sulla Brexit, appena avvenuta. Proviene da un movimento nazionalista, che è peculiare in quanto sembra che quello che vuole riguadagnare è la sua autonomia. Ma tuttavia saranno del tutto dipendenti dalle politiche dell'Unione Europea. Così sembra che la Gran Bretagna sia uscita dalla possibilità di essere ancora in grado di influenzare il quadro politico che continuerà a condizionarla. Che ne pensi di questa situazione?

Moishe Postone: Direi che mi ha colpito, ed io non sono un esperto di queste cose, guardando alle varie opinioni, sondaggi e grafici, non solo a causa delle differenze demografiche (Londra, la Scozia sono per l'Europa ed il resto dell'Inghilterra ed il Galles, sorprendentemente, sono per uscirne, e l'Irlanda del Nord per l'Europa - potrebbe significare la fine del Regno Unito), ma per il fatto che per le persone che volevano rimanere, per loro i problemi principali erano quelli economici. Per quelli che volevano uscire, sotto sotto, il problema principale era l'immigrazione. In un certo senso, l'immigrazione dev'essere intesa come una metafora. Perché, dopo tutto, quanti migranti arrivano in Inghilterra? Non molti. Sentono anche quello che i tedeschi chiamano “überfremdet” (sovrinfiltrati dallo straniero), ma non a causa dell'arrivo dei siriani, ma in quanto i polacchi e i rumeni sono già arrivati. Durante i periodi di difficoltà economica, è sempre un errore aprire le porte. E una delle ragioni per cui lo dico è che, data le decisione della UE sulla libera circolazione delle persone, il governo britannico ha deciso di non eliminare tale politica, ma di aprire le loro frontiere a tutti i cittadini europei. Se sei un operaio polacco, hai diritto a lavorare in Germania e in Gran Bretagna. Tuttavia, potresti andare immediatamente in Gran Bretagna, mentre ci vorrebbe un po' per andare in Germania, in quanto la Germania ha scelto di regolare il movimento delle persone. Ma questo è solo un livello. Lo scenario reale è che l'economia manifatturiera è in caduta da lungo tempo. Nessuno discute e spiega questo massiccio cambiamento strutturale a coloro che ne vengono colpiti e non si trovano in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti, le persone lavorano nell'economia del carbone, e i lavoratori del carbone credono che la loro economia sia in declino a causa dell'ambientalismo e delle regolamentazioni del governo. Nessuno dice loro che oggi viene prodotto molto più carbone che in passato, usando molto meno lavoro. Le imprese nascondono questa cosa accusando il governo. In America, la reazione popolare contro la crisi del lavoro prende la forma del populismo di destra: siamo contro il governo e gli immigranti. In Europa prende la forma di essere contro i migranti ed essere contro l'Europa. Ho avuto solo un piccolo assaggio di stampa britannica. È incredibilmente cattiva. Non stupisce che The Guardian, che non è un giornale così grande, ma è un giornale decente, brilli come un gioiello splendente, un faro contro le bugie razziste xenofobe. Boris Johnson a quanto pare, e sono venuto a conoscenza di questo solo la scorsa settimana, si è fatto un nome lavorando come reporter per il Telegraph negli anni 90, quando si trovava a Bruxelles. E lui è uno di quelli che è venuto fuori con le storie di burocrati senza volto che determinano quanto devono essere grandi i cetrioli o i preservativi. La maggior parte di quello che ha scritto era empiricamente falso, erano sciocchezze, eppure per la stampa britannica la cosa non ha fatto differenza; sono tutti saltati a bordo. Penso che quel che è accaduto è che molte persone si sentono impotenti di fronte a queste trasformazioni strutturali. Allo stesso tempo, l'Unione Europea ha un forte deficit democratico. Ci sono solo due strade da poter prendere. Una è quella di democratizzare l'Europa e l'altra è quella di tornare agli Stati nazionali. A quanto pare c'è poco movimento verso la democratizzazione europea. Così, l'unica altra reazione, che è di frustrazione, è quella di lasciare tutto quanto. Non so se quando i sei ministri si incontreranno, proprio ora a Berlino, questo sia o meno nella loro agenda. O se si limiteranno solamente a punire la Gran Bretagna per essersene andata.

 

Hamza & Ruda: E allora il pericolo sarebbe quello per cui l'Europa potrebbe andare avanti come se niente fosse successo.

Moishe Postone: Esatto. Proprio come per l'EUro, l'Europa dev'essere fondamentalmente riformata. Ora, non so se ci sia qualche possibilità perché questo avvenga, visto che ci sono 26 paesi ed ogni cosa dece apparire in 26 lingue, e la cultura politica della maggior parte di questi paesi è discutibile.


- Intervista del giugno 2016, pubblicata su "Crisis and Critique Critique of Political Economy" Volume 3, issue 3, del 16-11-2016 -
fonte: Crisis and Critique
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