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gyorgylukacs

“L’intero segreto della concezione critica”

Sul lavoro in Lukács e Marx

di Matteo Gargani

factory workersI. Nel gennaio 1868, armato della consueta mordacità, Marx confessa al sodale di sempre Friedrich Engels come il «Kerl» di turno, Privatdozent di filosofia ed economia politica a Berlino Eugen Dühring, abbia mancato il senso del I libro de Il Capitale. L’«intero segreto della concezione critica» – scrive Marx riferendosi proprio alla sua «Critica dell’economia politica» – sta nel fatto che «se la merce ha il doppio carattere di valore d’uso e valore di scambio, allora anche il lavoro rappresentato nella merce deve avere carattere doppio». Centrale è quindi la distinzione tra «lavoro astratto» e «lavoro concreto», sfuggita non solo a Dühring, ma secondo Marx anche agli stessi fondatori dell’economia politica: «la semplice analisi fondata sul lavoro sans phrase come in Smith, Ricardo ecc. deve sempre andare a sbattere in questioni inesplicabili»1. Ricorrendo alla nota immagine della rivoluzione copernicana, possiamo dire che Marx individua quella da lui operata nel campo dell’economia politica nella fondamentale distinzione tra «lavoro astratto» e «lavoro concreto», pendant soggettivo della doppia natura del valore già incorporata nella merce. È proprio sul «concetto di lavoro» nell’intera opera di uno tra i più celebri filosofi del xx secolo che si concentra Individuo, lavoro, storia. Il concetto di lavoro in Lukács di Antonino Infranca.

Il testo in questione, tuttavia, si colloca su un terreno diverso rispetto al piano «critico» evocato da Marx nella lettera a Engels. Infranca, infatti, amplia molto la portata teorica del concetto di lavoro in Lukács: «Non c’è dubbio che il concetto di lavoro in Lukács ha un uso metafisico. Il lavoro è il principio dello sviluppo dell’umanità e, allo stesso tempo, è il fondamento di tale sviluppo, proprio perché la storia è ‘storia dei mezzi di produzione’ e dei rapporti di produzione, come vuole la concezione materialistica della storia»2. Metafisica, principio e fondamento sono probabilmente i tre concetti più eminenti nell’intera storia della filosofia occidentale. Con piena ragionevolezza possiamo tuttavia affermare che, anche in questo caso verisimilmente munito della nota causticità, Marx li avrebbe imperiosamente scacciati da quella riserva «critica» che con tanta tenacia difende dai molteplici attacchi, che plurimi riceve negli ultimi decenni della propria (travagliata) esistenza.

Croce e delizia per generazioni d’interpreti a cavallo di almeno un secolo, e a quanto pare anche di due, il rapporto tra Marx e la filosofia rimane sullo sfondo anche dello studio di Infranca.

 

II. In una vita costantemente turbata dall’assillo dei creditori, da drammatiche vicende familiari e da noti tormenti politici, nelle letture condotte nel refugium che dal 1857 in poi rappresenta per Marx la reading room del “British Museum” non trova spazio la filosofia.

Materia su cui, invece, negli anni universitari trascorsi tra Bonn e Berlino aveva deciso di dirigersi, rompendo con la consueta nettezza gli iniziali studi giuridici, intrapresi sulle orme del padre avvocato. Ricorrendo ad una nota immagine psicoanalitica potremmo quindi affermare che, proprio abbandonando la giurisprudenza, Marx compie il suo primo e più vero parricidio.

Le migliaia di pagine di quaderni di estratti minuziosamente compilati da Marx lungo l’intero trentennio londinese testimoniano severi studi rivolti, oltre naturalmente al costante approfondimento dell’economia politica, tra le molte altre cose, alla storia dell’antropologia, della geologia, della mineralogia; nonché alla storia della diplomazia, della fisica e della trigonometria. A tutti gli effetti, quindi, i filosofi e la filosofia parrebbero negli ultimi decenni della vita di Marx – che faticosamente la quarta sezione di Exzerpte dell’edizione critica delle opere marx-engelsiane promossa dalla «Berlin-Brandeburgische Akademie der Wissenschaften» sta portando alla luce ancora in questi anni – elementi assenti.

Seguendo la rappresentazione che Marx stesso retrospettivamente offre della propria evoluzione intellettuale, la rottura con la filosofia intesa come disciplina dotata di autonomo statuto veritativo si consuma nell’opera redatta con Engels tra il 1845 e il 1846 Die deutsche Ideologie. Pagine che, tuttavia, il ventottenne Marx e il ventiseienne amico e compagno di una vita Engels non pubblicheranno mai e deliberatamente esporranno alla «critica» sì, ma «roditrice dei topi»3. Nota è la tesi centrale della prima parte Ad Feuerbach dell’ampio manoscritto marx-engelsiano: morale, teologia e metafisica «non hanno storia», non hanno cioè alcuna consistenza veritativa autonoma4. Le radici degli assunti veritativi fatti propri da tali discipline sono dislocate altrove, ossia sul piano della «produzione materiale» che ne è fondamento e principio.

La produzione è quindi il «vero presupposto» che Marx ed Engels individuano al fine di congedarsi dalla filosofia e approdare così alla «scienza positiva»: «Cessano le frasi della coscienza e al loro posto deve subentrare il vero sapere»5. È indicativo che, a tredici anni dalla redazione, il fondamentale merito ascritto da Marx al ponderoso manoscritto giovanile risieda sostanzialmente nell’aver permesso a lui e a Engels di fare i conti con la loro «precedente coscienza filosofica»6. Coscienza che, fino al 1845-1846, ambisce sì a porsi criticamente, ma rimane comunque interna a un perimetro di dibattito tipicamente junghegelianisch. Problema fondamentale per i «Giovani Hegeliani» – questione che per molti versi continuerà ad echeggiare sino alla fine nella testa di Marx – è in che modo rapportarsi all’eredità filosofica di Hegel.

L’irrompere del 1848 interviene a spazzare il campo anche da dibattiti culturali solo fino a poco prima centrali. La misura della novità può essere icasticamente colta nel repentino declino di popolarità di Ludwig Feuerbach che invece, nel pugno di anni tra la pubblicazione de L’Essenza del Cristianesimo del 1841 e il 1848, fu l’astro indiscusso della filosofia tedesca. Se vista alla luce del rinnovamento seguito al 1848, che alla prova dei fatti si dimostrerà molto più foriero di conseguenze a livello culturale che politico, diviene meno difficile cogliere la ragione per cui Marx ed Engels giudicano in poco tempo la pubblicazione dell’Ideologia tedesca come d’emblée superata dalla storia.

Se si esclude la verbosa polemica raccolta nel volume Herr Vogt del 1860, negli ultimi trent’anni di vita, Marx congeda per la stampa solamente due testi: Per la critica dell’economia politica nel 1859 e il I libro de Il Capitale nel 1867. Anche qui, però, la filosofia e i filosofi non compaiono e, laddove accade, sempre in nota.

 

III. Negli anni ’60 del xx secolo, un Lukács anziano si impegna nella redazione di un testo di quasi duemila pagine, che verrà pubblicato solo tra il 1984 e il 1986 per i tipi dell’editore tedesco-occidentale Luchterhand Zur Ontologie des gesellschaftlichen Seins. Oltre al netto calo d’interesse verso autori e temi connessi al marxismo che vive la cultura occidentale nel decennio della prima (e unica) edizione del testo, Infranca legittimamente evidenzia: «La mole dell’opera, il linguaggio utilizzato dallo stesso autore, ridondante e ripetitivo, e le critiche degli stessi allievi, che provocarono a loro volta una pessima ricezione dell’opera presso gli ambienti filosofici, finirono per limitarne la conoscenza e, quindi, vanificarono quel lavoro di “rifondazione” del marxismo che si proponeva Lukács»7. La «“rifondazione”» di cui parla Infranca ci riporta concettualmente al problema del fondamento, e indirettamente quindi del principio, da noi già testé menzionati come due tra le questioni somme della metafisica occidentale. Suffragato anche dal giudizio di uno dei massimi interpreti lukacsiani e che maggiormente e nell’arco di decenni si sono continuativamente impegnati con il pensiero del filosofo ungherese, Infranca aggiunge:

In realtà l’opera è andata oltre le intenzioni dell’autore e ha assunto un livello tale che il giudizio di Nicolas Tertulian riesce a renderne perfettamente il valore: “Lukács intendeva mettere in valore sia la tradizione della Metafisica di Aristotele sia quella della Logica di Hegel per erigere la propria ontologia. La sua opera, perciò, voleva essere simultaneamente una ‘metafisica’ e una ‘critica della ragione storica’”. Il giudizio di Tertulian ha colto e riunito in un unicum metafisica e critica della ragione storica. L’Ontologia pertanto ambisce non solo a continuare le tradizioni classiche della filosofia, ma mantenere il discorso filosofico ad un livello di alta speculazione8.

Secondo il giudizio dell’autore ci troviamo quindi innanzi ad un Lukács impegnato in un ambizioso progetto di «rifondazione della metafisica», rifondazione che però parrebbe problematicamente attuata senza congedarsi dai presupposti filosofici della metafisica stessa, ossia dai concetti di principio e fondamento. È il lavoro certamente per Infranca l’elemento che riveste tale ruolo fondativo: «Per Lukács il “cominciamento” dell’uomo è la categoria in cui esso si forma e si esprime la propria essenza umana, il lavoro; quindi, quest’ultimo va considerato come il modello di ogni forma di prassi umana»9. A fronte di ciò, tuttavia, l’autore si mostra pienamente consapevole delle insidie teoriche che l’argomento del lavoro come principio racchiude:

La funzione di principio che il lavoro ha nei confronti dell’uomo, nei termini che Lukács usa, cioè utilizzando l’impianto teoretico del “cominciamento” hegeliano della Scienza della Logica, potrebbe essere compreso come un ennesimo tentativo metafisico, ma Lukács riesce a sfuggire a questo pericolo. Lukács, infatti, ha ben chiaro il limite di tutti i discorsi sul fondamento o sul principio, apparsi nella storia della filosofia, sempre come parziali e riduttivi a causa del fatto che non possiamo ricostruire il momento della genesi dell’essere sociale, come abbiamo visto sopra e le varie fasi di trapasso da una forma d’essere all’altra10.

Per descrivere il ruolo ricoperto dal lavoro nell’Ontologia dell’essere sociale, testo a cui Infranca ascrive il merito di aver esposto più diffusamente e approfonditamente il progetto di «rifondazione della metafisica» intrapreso dall’ultimo Lukács, l’autore si serve della nota immagine tratta dalla Logica hegeliana di un principio immanente al processo medesimo che esso origina: «Il lavoro è principio sempre immanente al processo di sviluppo: “Il principio ha da essere anche il cominciamento, è quello che è il Prius per il pensiero, ha da essere anche il Primo nell’andamento del pensiero”. Per Lukács il “cominciamento” dell’uomo è la categoria in cui esso si forma e si esprime la propria essenza umana, il lavoro; quindi quest’ultimo va considerato come il modello di ogni forma di prassi umana»11.

Quello disegnato da Infranca si presenta però come un quadro per molti versi spinoso: da una parte, c’è un Lukács che intende rifondare la metafisica dal concetto di lavoro inteso come principio e fondamento, dall’altra, la piena consapevolezza dell’autore circa le difficoltà connesse all’utilizzo di quest’ultimi due concetti. Come uscire da questa problematica impasse? La soluzione è secondo Infranca da cercare dentro il quadro teorico dell’Ontologia dell’essere sociale, ossia nel lavoro inteso come «“fenomeno originario [Urphänomen]” della prassi umana»12. Il lavoro inteso come Urphänomen rappresenta difatti per lui un essenziale strumento per pensare un diverso modello fondativo rispetto all’oggettività.

Richiamando la celeberrima immagine del «rovesciamento», che proprio Marx afferma nel Poscritto del 1873 alla seconda edizione de Il Capitale di aver attuato rispetto alla dialettica hegeliana, Infranca indica come il «rovesciamento» perpetrato da Lukács investa invece la «teleologia» hegeliana. Quest’ultima, non più intesa come nella Logica di Hegel quale luogo di passaggio dall’oggettività all’idea, ma «rovesciata» per l’appunto, ossia mezzo di transizione dall’idea all’oggettività:

La teleologia per Hegel è il punto di passaggio dall’oggettività all’idea. Nella concezione lukacsiana del lavoro troviamo giustamente il contrario: essa è il passaggio dall’idea all’oggettività. (…) Quindi la teleologia sarebbe hegelianamente il vero e proprio concetto di lavoro nell’Ontologia di Lukács. Il concetto di lavoro prende il posto dello svolgimento dell’idea, è esattamente il passaggio all’oggettività. È il soggetto che trapassa nell’oggetto. Questo movimento di passaggio non è un transducere, che lascia immutati i due elementi attraverso cui il movimento passa, nel nostro caso il soggetto e l’oggetto, ma di un educere, di un portare fuori da entrambi: il soggetto estrinseca la propria idea nella realtà, l’oggetto reale riceve una forma in base alle proprie leggi naturali13.

Sfidando Aristotele, Hegel e Marx, parrebbe enorme l’audacia filosofica dimostrata da Lukács. Senza l’incoraggiamento di alcun Virgilio e ben oltre il «mezzo del cammin di nostra vita», il vecchio professore di Budapest sembra reagire con meno pusillanimità di Dante di fronte alla celebre lupa del I Canto dell’Inferno innanzi a un compito che a molti altri invece «fa tremar le vene e i polsi».

 

IV. Nel 1970, Lukács rilascia a Georg Klos, Kalman Petkovic e Janos Brener un’importante intervista, pubblicata poi nel marzo del medesimo anno sulla rivista austriaca «Neues Forum». Gli interlocutori sollecitano Lukács, tra le altre cose, a pronunciare un giudizio sulla filosofia contemporanea: «Quale dovrebbe essere il rapporto della filosofia marxista rispetto a questa grande varietà di filosofia contemporanea? Che cosa può essere assunto come valido dalla filosofia borghese o costituire lo stimolo per un ulteriore sviluppo?»14 La lunga risposta di Lukács è spiazzante:

Concedetemi in una certa misura di non rispondere in modo diretto alla vostra domanda. Non attribuisco grande valore all’odierna filosofia borghese. Nel nostro paese la gente si è ovviamente rivolta alla filosofia occidentale in seguito alla delusione per il marxismo deformato che a loro era stato imposto da Stalin, allo stesso modo di una donna che, delusa dal proprio marito, si trova un bel giorno tra le braccia del primo uomo che incontra. L’odierna filosofia borghese per me non vale molto, devo persino aggiungere ad esempio che per me Hegel è stato l’ultimo grande pensatore, anche se oggi giornali americani, tedeschi o francesi annoverano qualsiasi sconosciuto tra i grandi pensatori. A mio parere è soltanto un’illusione, se, come ho già detto, persone che sono state deluse dallo stalinismo pensano che con l’aiuto dello Strutturalismo possano correggere la situazione nel marxismo; spero di non apparire cattivo se dico questo apertamente. Costituì un errore il fatto che il marxismo ufficiale negli anni dello stalinismo fu completamente isolato dai risultati dello sviluppo al di fuori dell’Unione Sovietica. Fu un errore che non ha nulla a che vedere con il marxismo, dal momento che sia Marx sia gli stessi Engels e Lenin seguirono lo sviluppo della filosofia e della scienza dell’epoca con estrema attenzione. In proposito è tuttavia da ricordare il fatto che essi lo fecero con un’attitudine estremamente critica. Marx cita le cosiddette grandi figure del suo tempo – Kant, Herbart, Spencer – solo con rifiuto ironico. Dal punto di vista psicologico io posso comprendere che l’odierno marxismo cerchi dappertutto sostegni in Occidente. Dal punto di vista oggettivo questo costituisce per me un errore. Per quel che mi riguarda ritengo assolutamente essenziale comprendere correttamente i metodi del marxismo, ritornare a questi metodi e in questo modo provare a spiegare la storia successiva alla morte di Marx. Uno dei più gravi peccati del marxismo è che dalla pubblicazione del testo di Lenin sull’Imperialismo del 1914 non è stata condotta alcuna analisi autenticamente economica del capitalismo. Oggi manca anche una vera analisi storica ed economica dello sviluppo nel Socialismo. Dove possiamo imparare qualcosa nella letteratura occidentale? Indubbiamente sono ad esempio stati apportati enormi contributi in molti ambiti delle scienze naturali; riguardo a questo c’è veramente molto da imparare. D’altro lato, la letteratura che è sorta negli ambiti della filosofia e delle scienze sociali dovrebbe essere studiata da noi criticamente. È illusorio credere, come fanno molti delusi dal marxismo staliniano, che noi dovremmo imparare qualcosa persino da Nietzsche. La mia posizione sulla domanda che cosa possiamo apprendere dall’Occidente, è estremamente critica. Io mi augurerei che i marxisti su questo punto siano molto più critici. Solo attraverso un autentico rinnovamento del metodo marxista giungiamo ad una giusta valutazione degli sviluppi in Occidente15.

Un giudizio indubbiamente sferzante rispetto all’intera filosofia post-hegeliana è quindi quello formulato dal vecchio Lukács. L’invito a volgere piuttosto lo sguardo alle novità sopraggiunte sul terreno scientifico e al nuovo assetto del capitalismo mondiale parrebbe restituirci de facto un Lukács in profonda sintonia proprio con il Marx dell’ultimo trentennio londinese. Quel Marx che abbiamo descritto come integralmente assorbito, non senza profonde ricadute a livello psicologico e fisico, in una titanica operazione di aggiornamento delle proprie conoscenze empiriche sia sul terreno della scienza naturale che su quello economico-sociale. Condiviso tra i due parrebbe, quindi, l’invito a non perdere troppo tempo con i filosofi e la filosofia contemporanea. Molto probabilmente analoga a quella di Lukács sarebbe stata anche la risposta del «Mohr» a chi lo avesse interrogato su cosa sfogliare tra i testi dell’amata disciplina di gioventù: guardate altrove! E se proprio insistete, al massimo, «Old Hegel».

Tuttavia, a ben vedere, nella propria risposta Lukács formula – un po’ tra le righe – anche delle considerazioni che forse una qualche relazione con la filosofia la intrattengono. Difatti, la fondamentale esortazione da lui rivolta alle future generazioni di «marxisti» non è un generico appello ad aggiornarsi, cioè sic et simpliciter a studiare di più la scienza contemporanea o le novità sopravvenute sul campo dell’economia globale. Anzi, Lukács ammonisce in proposito che ogni impresa di questo tipo si rivelerebbe sterile, se non coadiuvata da una corretta comprensione del metodo marxiano. È in tal senso che, subito dopo aver evidenziato il significato essenziale che il metodo riveste per il marxismo, Lukács indica l’esito ultimo cui dovrebbe mirare tale operazione di aggiornamento empirico: «spiegare la storia successiva alla morte di Marx».

Ma cosa significa esattamente «spiegare la storia»? Tale espressione, presa di per sé, è innegabilmente problematica. Di primo acchitto si potrebbe formulare l’ipotesi che Lukács alluda qui alla possibilità di offrire una previsione di decorso storico, uno «spiegare la storia» che si mostri quindi un dominarne gli esiti necessari. Possiamo anticipare che non è così. Ciò non toglie, tuttavia, che la situazione presenta degli aspetti innegabilmente curiosi. A cinquantanni di distanza dalla celebre silloge Geschichte und Klassenbewusstsein. Studien über marxistische Dialektik (1923), Lukács parrebbe riproporre quella che ne è la tesi portante: «Per ciò che concerne il marxismo, l’ortodossia si riferisce esclusivamente al metodo»16. Enunciazione che si compendia perfettamente con l’altra che ne è per molti versi l’integrazione, ossia quella programmaticamente formulata nell’Introduzione: «Lo scopo che ci siamo proposti è determinato invece dall’idea che nella teoria e nel metodo di Marx sia stato infine scoperto il giusto metodo per la conoscenza [Erkenntnis] della società e della storia»17.

Il testo di Infranca ci soccorre, a nostro parere correttamente, nel chiarire il senso della «spiegazione della storia» cui allude Lukács nell’intervista del 1970: «l’Ontologia, con tutte le altre opere che cronologicamente le sono state vicine, è in fondo una teoria della storia, piuttosto che una filosofia della storia. Lukács ha inteso descrivere i nessi fondamentali dello svolgimento storico, mostrando che il socialismo non è un’ineluttabile conclusione della storia, ma una sua possibilità concreta»18. Ma cosa sono esattamente «i nessi fondamentali dello svolgimento storico» cui allude Infranca? Rispondere a tale quesito è gesto che non si risolve in poche battute. Difatti, «i nessi fondamentali» di cui si parla qui sono quelle strutture permanenti attraverso cui è configurata la società, ossia in termini generali economia, arte, scienza e vita quotidiana.

In un colloquio con Franco Ferrarotti del 1970, Lukács avanza la tesi secondo cui il marxismo è nella sua essenza di fondo «una teoria generale della società»19. Su questo punto Lukács si pone in piena continuità con un modello interpretativo classico del «marxismo» inteso come «universelle Weltanschauung»20. Tale criterio accomuna la Seconda e la Terza Internazionale, ossia è il presupposto della maggiormente diffusa qualificazione del «marxismo» nei termini della «concezione materialistica della storia». La più nitida e storicamente influente diffusione di tale canone interpretativo è offerta da Friedrich Engels nella Prefazione del 1885 alla seconda edizione dell’Anti-Dühring. Qui egli qualifica infatti la propria opera come una «più o meno unitaria presentazione del metodo dialettico e della Weltanschauung comunista sostenuta da me e Marx»21.

Tra «teoria generale della società» capace di «spiegare la storia» per Lukács e descrizione dei «nessi fondamentali dello svolgimento storico» per Infranca, parremmo per molti versi trovarci innanzi alla paradossale situazione di un marxismo che scaccia la filosofia dalla porta, per poi vedersela rientrare dalla finestra.

 

V. Il Lukács incontrato da Franco Ferrarotti a Budapest nel 1970 appare per molti versi una persona agli antipodi rispetto a quello dell’intervista pubblicata sul «Neues Forum». Ferrarotti, infatti, attacca Lukács proprio apostrofandolo di «metafisica», di essere restio innanzi alla realtà e alle novità sopraggiunte sul terreno empirico, di rifiutare l’aggiornamento. Di fronte all’incalzare delle accuse, Lukács risponde così:

Il marxismo come esigenza e impostazione dello studio globale della società, come interpretazione della società nella sua globalità, nella sua totalità in vista della sua trasformazione strutturale e culturale, cioè storica, è veramente completo. Ma è completo in quanto metodo, cioè in quanto metodo d’analisi e criterio per stabilire la gerarchia teorica dei fattori costitutivi della società. La completezza del metodo non implica necessariamente che in Marx si possa trovare tutto, cioè tutti i contenuti specifici che invece solo una lunga, paziente ricerca, condotta in base al metodo marxista, tale da investire il senso globale, storico dell’evoluzione sociale, potrebbe mettere in luce22.

Ma ancora più sorprendente è quanto Lukács enuncia poco oltre: «L’elemento scientifico nel marxismo è dato dall’uso di concetti dialettici e non dogmatici, o metafisici, e dalla sua caratteristica capacità di assumere, in base alla propria teoria generale, il punto di vista della totalità contro le impostazioni settoriali e parziali della scienza borghese, che è, beninteso, una pseudo-scienza. La sola vera scienza è la scienza fondata sulla totalità»23. Degno di nota è che proprio il richiamo metodologico alla totalità quale autentica nota distintiva del marxismo costituisce un terzo elemento di impressionante continuità teorica tra il Lukács di Storia e coscienza di classe e quello del 1970: «Non il predomino dei fattori economici nella spiegazione storica è ciò che contraddistingue in guisa decisiva il marxismo dalla scienza borghese, ma il punto di vista della totalità. La categoria di totalità, l’onnilaterale, determinante dominio dell’intero sulle parti è l’essenza del metodo che Marx ha tratto da Hegel e originalmente ha trasformato in fondamento di una scienza completamente nuova»24.

Centralità del metodo e del punto di vista della totalità quali chiavi del marxismo come scienza votata alla comprensione della storia, quest’ultima intesa come società nella sua permanente evoluzione. A tutti gli effetti parremmo trovarci innanzi a un paradossale revival che il vecchio e «stalinista» Lukács compie verso il suo capolavoro di gioventù. Che sia stato anche lui colpito dall’onda lunga del ’68 che cerca proprio nell’opera del ’23 una fonte d’ispirazione? Ovviamente non è così. Nonostante i molti elementi di profonda distanza teorica che separano Lukács dal testo degli anni venti, parrebbe però a tutti gli effetti che quando si tratta di lanciare squarci generalissimi su che cosa è il marxismo, qual è il suo obiettivo e il suo metodo, le posizioni del filosofo ungherese sino alla fine seguano nelle loro linee essenziali le direttive fissate un cinquantennio prima.

A fronte di ciò, tuttavia, Infranca ritiene non la totalità o il metodo, bensì il lavoro l’asse portante dell’intera evoluzione intellettuale lukacsiana: «lavoro come concetto dominante nella produzione teoretica di Lukács, uno dei pochi concetti che hanno dominato interamente il suo pensiero. Altri concetti come totalità o estraniazione, sono in fondo dipendenti dal lavoro, a conferma del carattere di dominio che il lavoro svolge nella riflessione di Lukács»25. Lo studio di Infranca è costruito sulla base di tale tesi interpretativa, che egli documenta con perizia.

Il lavoro quindi, sopra ogni altra cosa, è per Infranca l’autentico asse portante della lunga – e innegabilmente laboriosa – vita di Lukács.

 

VI. In seguito alle drammatiche vicende legate al coinvolgimento di Lukács in qualità di ministro nel governo di Imre Nagy nell’autunno 1956 e alla successiva detenzione in Romania, si crea tra il filosofo e la dirigenza del Partito socialista operaio ungherese (PSOU) una situazione molto tesa. Lukács invia la propria richiesta di rinnovo di iscrizione al partito per l’anno 1957, ma la sua domanda riceverà una risposta positiva solo 10 anni più tardi, ossia nell’estate del 196726. Evento importante in questo processo di riavvicinamento reciproco, che sancirà simbolicamente la – per molti versi parziale – riabilitazione di Lukács nel proprio paese, è l’intervista rilasciata nel luglio 1966 a Budapest a Bruno Schacherl e pubblicata in una versione approvata dallo stesso intervistato su L’Unità del 28 agosto dello stesso anno. Il piano di riforma economica recentemente approvato dal PSOU è lo spunto da cui prende piede l’intervista significativamente intitolata «La riforma economica in Ungheria e i problemi della democrazia socialista»27.

Schacherl sollecita Lukács ad esprimersi sulla recente «riforma del meccanismo economico». La risposta di Lukács è positiva, ma molto cauta, egli parla di «un primo passo», di un lungo cammino ancora da compiere per giungere a «una vera economia socialista». Quali sono gli altri passi da compiere? Lukács rileva come per creare «un’economia pianificata su basi teoretiche solide» sia necessario «far rinascere a nuova vita la teoria marxiana della riproduzione allargata», entrambe operazioni impossibili senza «la rinascita della teoria e del metodo di Marx». Ecco che il metodo ricompare, più che Leitmotiv, vera e propria ossessione in ogni discorso di Lukács, soprattutto negli ultimi anni della propria vita, quando chiare gli appaiono le enormi difficoltà sia teoriche sia politiche vissute dal socialismo a livello mondiale.

Schacherl legittimamente mette in guardia Lukács circa il fatto che il rinnovamento del metodo della dottrina di Marx della «riproduzione allargata» esposta nel II libro de Il Capitale possa risolversi in fin dei conti in un’operazione puramente libresca e quindi domanda: «Non può nascere un nuovo dogmatismo, una nuova sottospecie della “citatologia”?» La risposta di Lukács è netta: «Mi pare di no». Senza oscillazioni Lukács passa quindi ad esporre quelli che ritiene non i tre «problemi», ma – il diavolo si nasconde sempre nel dettaglio – i tre «complessi di problemi» necessariamente da sciogliere per «la rinascita della teoria marxiana della riproduzione allargata», precondizione per un’autentica riforma economica e democratica in Ungheria.

Il primo «complesso di problemi» indicato da Lukács a Schacherl è «la genuina analisi teoretica della riproduzione allargata contenuta nel secondo volume del Capitale». Ma come compiere questo studio? È lo stesso Engels – e Lukács legittimamente menziona il punto – a ricordare nella Prefazione stesa nel 1885 per la prima edizione del II libro de Il Capitale come proprio la terza sezione su «La riproduzione e circolazione del capitale sociale», già a giudizio dello stesso Marx, andasse «profondamente rimaneggiata». Anche per questa ragione, Lukács afferma: «Lo studio del testo di Marx deve essere quindi uno studio critico. In linea di principio non è affatto escluso che su questioni specifiche si rendano necessarie correzioni o “integrazioni”».

Il secondo «complesso di problemi» è legato a ciò che Lukács considera come il più importante mutamento strutturale del capitalismo sopravvenuto negli ultimi cento anni:

È un fatto che la capitalizzazione dell’industria che produce i beni di consumo e della maggior parte dei cosiddetti servizi è avvenuta in questi ultimi cento anni. Ciò però è molto più di una semplice estensione quantitativa della sfera di influenza del capitalismo, ma provoca piuttosto in esso un cambiamento qualitativo: il capitale nel suo complesso è ormai interessato direttamente dal punto di vista economico ai consumi della classe operaia. Pur senza entrare nei dettagli, mi sia permesso constatare che in conseguenza di ciò il plusvalore relativo, come forma di sfruttamento, finisce per avere il sopravvento sul plusvalore assoluto, perché solo questa nuova forma può garantire l’intensificazione dello sfruttamento nel caso dell’aumento contemporaneo dei consumi (e del tempo libero) degli operai. Con ciò però, il capitalismo non cessa affatto di essere capitalismo. Marx scrive in un punto che solo attraverso il dominio del plusvalore relativo, può avvenire nel capitalismo la «sussunzione reale» dell’economia.

Se il «terzo complesso di problemi» cui Lukács allude nell’intervista a Schacherl, ossia l’analisi delle «leggi della riproduzione della forma sociale della produzione» anche rispetto all’economia socialista, è stato oggettivamente superato dalla storia, i primi due conservano una piena attualità. L’essenziale mutamento qualitativo sopravvenuto nel processo complessivo della riproduzione con il presentarsi del «plusvalore relativo» quale forma egemone di produzione di plusvalore rispetto a quello «assoluto» ha enormi conseguenze sia sulla sfera della produzione sia su quella della circolazione. Benché cosa nota, è ancora una volta forse bene ricordare come per Marx «il capitale», da intendere fondamentalmente come nesso tra persone mediato da merci, sia una totalità complessiva e interamente interconnessa. Di qui discende logicamente che il cambiamento anche di un singolo elemento nell’insieme implica sostanziali modificazioni riflettentesi sul ritmo e sulla forma di riproduzione dell’intero.

La questione dell’avvenuta egemonia del «plusvalore relativo» su quello «assoluto» nella riproduzione e le profonde conseguenze che di qui discendono non costituisce un hapax nella produzione del Lukács maturo, ma un punto su cui egli ritorna in più luoghi, uno su tutti, nell’Ontologia dell’essere sociale.

 

VII. Di «sussunzione reale» Marx parla in più luoghi de Il Capitale. Il problema, e tale punto è immediatamente percepibile da chiunque abbia mai avuto a che fare con le rocciose pagine de testo del 1867 e dei suoi manoscritti preparatori, è che ogni elemento gioca in esso un ruolo essenziale nella configurazione dell’intero. In altre parole, non è possibile constatare un decisivo mutamento qualitativo entro il processo riproduttivo, come fa il tardo Lukács sottolineando il divenir egemonico del «plusvalore relativo» rispetto al «plusvalore assoluto», trascurando i profondi mutamenti strutturali che ciò esercita sulla forma e il ritmo riproduttivo della società. Tali mutamenti coinvolgono tanto la sfera della circolazione quanto quella della produzione. Alla luce di ciò bisogna chiedersi: è metodologicamente coerente con i presupposti del Marx «Critico dell’economia politica» parlare di un «concetto di lavoro»?

E ci ritroviamo così infine nuovamente vis-à-vis con il Marx londinese che abbiamo richiamato nella lettera d’apertura a Engels, quello che riconosce il segreto della propria «concezione critica» dell’economia politica proprio nell’inscindibilità della forma doppia del valore e del suo pendant soggettivo nella forma doppia del lavoro. «Lavoro astratto» e «lavoro concreto», quindi, connotati propri esclusivamente di una determinata fase storica della produzione, come Marx mette in luce in forma nitida nelle celebri pagine su «Processo lavorativo e processo di valorizzazione» del Capitolo V, Sezione III del I libro de Il Capitale. La questione è veramente delicata, ma sappiamo anche che molte volte rischiamo di tenerci un pericoloso difetto nel manico che, se non affrontato, rischia di inficiare tutto.

In proposito è utile riflettere sul significato di una celeberrima citazione marxiana, che non a caso nasce proprio in margine a delle considerazioni incentrate sulla natura della produzione, ossia quella contenuta nell’Introduzione metodologica del 1857 a Per la critica dell’economia politica: «L’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia»28. Che intende dirci Marx qui? Egli afferma che mai il «lavoro sans phrase» rappresenta quell’elemento che può essere diacronicamente rinvenuto lungo l’intero arco storico come una sorta di costante. Al contrario, Marx afferma che l’illuminazione dei momenti del passato che alludono a qualcosa di vivo nel presente è possibile solamente post festum. Ciò implica quindi che parlare di un «concetto di lavoro» è qualcosa che contrasta con i fondamenti ultimi del metodo «critico» di Marx.

Lo studio di Infranca è inequivocabilmente fondato sulla centralità del «concetto di lavoro» in tutto Lukács. Rispetto a tale tesi, tuttavia, per tutte le ragioni che abbiamo cercato sin qui di mostrare, ci sentiamo di esprimere una decisa riserva. Sospendendo il giudizio per quanto concerne la produzione degli anni ’10, riteniamo non il lavoro, bensì la centralità di un metodo fondato sul concetto di totalità il vero architrave dell’intera produzione filosofica di Lukács a partire da Storia e coscienza di classe sino alla morte.

La nostra tesi interpretatitiva ci conduce così ad andare contro lo stesso Lukács. In più luoghi, infatti, egli retrospettivamente colloca nel 1929-1930, anni di decisive letture marxiane e di profondi cambiamenti congiunturali a livello politico mondiale, la fondamentale rottura di paradigma intellettuale occorsa nella sua vita: «Nella lettura di Marx crollarono tutti i pregiudizi idealistici di Storia e coscienza di classe»29. Della «grande svolta» del ’30 parla invece Infranca, in piena sintonia con quanto Lukács stesso dice di sé, come di una «“folgorazione sulla via di Damasco”» che «ha rivoluzionato il modo in cui Lukács, fino a quel momento, aveva interpretato il rapporto Hegel-Marx»30. Ciononostante, noi riteniamo non il ’30, bensì Storia e coscienza di classe il vero punto di svolta nell’evoluzione intellettuale di Lukács. Luogo in cui Lukács si congeda definitivamente dal «saggismo» giovanile e fa del riferimento imprescindibile, benché da ripensare criticamente, alla centralità metodologica della categoria di totalità la stella polare di un modo di fare filosofia da cui egli non si congederà più.


«Links. Rivista di letteratura e cultura tedesca – Zeitschrift für deutsche Literatur- und Kulturwissenschaft»,  Anno XVI, 2016.
In margine a Antonino Infranca, Individuo, lavoro, storia. Il concetto di lavoro in Lukács, Milano, Mimesis, 2011.

Note

1 K. Marx a F. Engels (8.1.1868), in Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, vol. XLIII, Roma, Editori Riuniti, 1975, sgg., pp. 13-14.

2 Antonino Infranca, Individuo, lavoro, storia. Il concetto di lavoro in Lukács, Milano, Mimesis, 2011 p. 14.

3 Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 6.

4 Karl Marx, Friedrich Engels, L’Ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1975, p. 13.

5 Ivi, p. 14.

6 Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, cit., p. 6.

7 Antonino Infranca, op. cit., pp. 23-24.

8 Ivi, p. 24.

9 Ivi, p. 36.

10 Ivi, pp. 36-37.

11 Ivi, p. 36.

12 Ivi, p. 252.

13 Ivi, pp. 11-12.

14 György Lukács, Nach Hegel nichts Neues, in Werke, XVIII, Bielefeld, Aisthesis, 2005, p. 432.

15 Ivi, p. 433.

16 György Lukács, Storia e coscienza di classe, Milano, 1967, p. 2.

17 Ivi, p. IX.

18 Antonino Infranca, op. cit., p. 144.

19 Franco Ferrarotti, Colloquio con Lukács. La ricerca sociologica e il marxismo, Milano, Franco Angeli, 1975, p. 15.

20 György Lukács, Pensiero vissuto. Autobiografia informa di dialogo, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 111.

21 Friedrich Engels, Anti-Dühring, in Karl Marx, Friedrich Engels, Opere Complete, XXV, cit., p. 6

22 Franco Ferrarotti, op. cit, p. 13.

23 Ivi, p. 20.

24 Gyorgy Lukács, Storia e coscienza di classe, cit., p. 35.

25 Antonino Infranca, op. cit., p. 9.

26 Cfr. Istvàn Eorsi, Un ultimo messaggio, in György Lukács, Pensiero vissuto, cit., pp. 3-5.

27 L’intervista può essere anche letta in György Lukács, Marxismo e politica culturale, Torino, Einaudi, 1977, pp. 211-218.

28 Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-1858), I, Firenze, La Nuova Italia, 1974, p. 33.

29 György Lukács, Prefazione (1967), in Idem, Storia e coscienza di classe, cit., p. XL.

30 Antonino Infranca, op. cit., p. 208.

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