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Nella fossa dei leoni. Si può leggere Il capitale di Marx a partire dalle Tesi su Feuerbach?1

di Wolfgang Fritz Haug*

Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582, n° 1-2/2016, dal titolo "Questioni e metodo del Materialismo Storico" a cura di S.G. Azzarà, pp. 75-91Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/602

Se non diversamente indicato, questi contenuti sono pubblicati sotto licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale.

a4f31296777f5ac938a3eeecf966b1afCercheremo qui di abbattere i muri che agli occhi di molti impediscono alla filosofia della prassi di introdursi nel regno del Marx più maturo. Il primo di questi muri è stato eretto tra le Tesi su Feuerbach e la critica dell’economia politica; un secondo tra il giovane Marx e il Marx maturo, con la conseguenza della nascita di una specie di dualismo marxologico; un terzo muro, infine, è stato costruito tra la società e la natura.

Se riusciremo a sospendere la quarantena nella quale gli strutturalisti hanno rinchiuso le Tesi su Feuerbach, il sarcasmo di Althusser dovrà cessare e la filosofia della prassi non sarà più «la bella conversazione notturna dei nostri leoni intellettuali da salotto»2. Non si potrà più dire allora, con il filosofo francese, che «il primato della prassi è la prima parola di ogni idealismo». E vacillerà anche l’ultima separazione, quella tra la società, o la cultura, e la natura.

 

Nella bocca del lupo economico: l’asse metodologico

Althusser arriva alla conclusione per cui le Tesi non possono essere utilizzate come punto di partenza della filosofia marxista. Questa, dice, «dovrà cercare il suo punto di partenza in un altro luogo, […] per poter partecipare da lontano alla trasformazione del mondo. Se si assume ciò, le Tesi su Feuerbach tornano al loro glorioso passato e finalmente si può parlare di un’altra cosa: di Per la critica dell’economia politica, dei Grundrisse, del Capitale».

Ebbene, facciamolo! Parliamo pure del Capitale! E facciamolo a partire dalla seguente domanda: come si pongono in relazione le Tesi su Feuerbach con la critica dell’economia politica?

Mi posi per la prima volta questa domanda quasi quaranta anni or sono. Me l’ero proposta come compito in una situazione cruciale per la Nuova Sinistra, non solamente in Germania: nel momento, cioè, in cui la rivoluzione culturale del ’68, che aveva avuto una portata pressoché mondiale, iniziava a riflettere sulle condizioni dei propri possibili e non effimeri effetti. A quell’epoca ero un giovane docente laureato alla Freie Universität di Berlino, che aveva già pubblicato due libri avidamente letti e messi in pratica dal movimento del ’68: una critica del carattere poco più che retorico dell’antifascismo borghese e la Critica dell’estetica delle merci, che metodologicamente poggiava sul Capitale di Marx3. Per questa ragione ero stato invitato da studenti e docenti dell’Università di Marburgo a impartire un seminario sull’industria culturale. Per poter studiare la teoria di Max Horkeimer e Theodor W. Adorno e il suo oggetto reale, infatti, era necessaria un’introduzione alla lettura de Il capitale.

Fu quella la mia prima esperienza come professore ospite e fu un’esperienza duratura. Quando tornai a Berlino offrii anche nella Freie Universität un’introduzione a Il capitale. A questo corso si iscrissero circa 700 studenti e non pochi giovani docenti. Riuscii a liberarmi della metà degli aspiranti assicurando che nel semestre successivo avrei ripetuto il corso apposta per loro e mi ritrovai così dentro una congiuntura che cambiò il corso della mia vita.

Adolfo Sánchez Vásquez ha detto che gli scritti di Togliatti sono figli delle circostanze4. Ebbene, tale fu anche la sorte del mio libro Lezioni di introduzione alla lettura de “Il capitale”, che nacque da quell’impegno nel 1974 (nel 1978 uscì in spagnolo a Barcellona, tradotto dal gruppo “Materiales”, raccolto attorno a Manuel Sacristán Luzón). Quel libro, nato dall’incontro di un movimento di massa con la teoria del Capitale di Marx, fu poi riscritto tre volte nei primi anni. E l’ho riscritto per una quarta volta nel 2005, dopo la grande delusione del movimento, rinforzata dal crollo del socialismo di Stato in Europa e già ben dentro l’epoca del capitalismo transnazionale higtech5. Adesso costituisce il primo volume della mia trilogia sul Capitale, fondata sull’idea di una filosofia della prassi.

Il progetto di una rilettura del Capitale a partire dalle Tesi su Feuerbach mi ha condotto a una reinterpretazione di queste opere così differenti: la minore, come aveva osservato Georges Labica, commentata da un’ampia letteratura critica al pari di certi frammenti dei presocratici, nonostante la sua ridotta mole6; e la maggiore, un colosso teorico di migliaia di pagine. E fu proprio nel corso della rilettura dell’opera maggiore dal punto di vista della minore che diverse pareti divisorie furono abbattute. A parte quelle già menzionate – tra le Tesi e Il capitale, o tra il Marx giovane e quello maturo -si trattava in primo luogo della relazione tra la libertà umana e la necessità economica da una parte e della separazione tra l’elemento umanoculturale e quello naturale dall’altra. Come nella costruzione delle gallerie, in cui si perfora la montagna da entrambi i versanti fino a quando i due scavi si incontrano e il passaggio è aperto, infatti, mi sembrava e mi sembra tuttora necessario intraprendere questo compito da entrambi i lati.

Dal lato del Capitale il compito prefissato impone di discutere del metodo. In primo luogo, “metodo” significa qui filo conduttore che collega le singole tesi, il percorso che conduce da ciascuna alla seguente, più complessa, e che assegna a quest’ultima il suo valore epistemico.

Marx chiama il suo modus operandi «il mio metodo dialettico». Cosa significa? Con Althusser possiamo dire che nonostante il fatto che Marx avesse ereditato «da Hegel la parola e l’idea della dialettica, non poteva avere accolto questa dialettica doppiamente mistificata»7, ma aveva dovuto affrontarne una rifondazione sul terreno storico-materialistico. Concordo con Althusser anche sul fatto che questa impresa non è stata da Marx sufficientemente teorizzata. A proposito del modo in cui la si debba teorizzare, i nostri cammini però divergono.

La necessità di rifondare la dialettica su un terreno storicomaterialistico conduce a un’altra questione: questo terreno esisterebbe anche senza la dialettica marxiana? In altre parole: non è possibile che la rifondazione materialistica della dialettica non sia altro che la fondazione del materialismo storico? Vedremo che la risposta a questa domanda non può che articolarsi con il concetto di prassi.

Che cosa dice Marx parlando della sua dialettica? Beninteso, questa domanda deve ora essere indirizzata al Marx “maturo”. Una prima risposta la si trova nel Poscritto alla seconda edizione de Il capitale. Qui, come è noto, Marx afferma che è necessario concepire «ogni forma divenuta nel fluire del movimento»8. Questo è il nucleo della sua definizione di dialettica e come tale esso è di una chiarezza quasi cristallina. Qui nasce però la domanda successiva: come si concepisce un fenomeno sviluppato «nel fluire del movimento»?

Nella ricerca di una formula che ci spieghi questa definizione, ci imbattiamo d’un tratto in una nota a pie’ di pagina nel capitolo su Macchine e grande industria. Qui Marx auspica una storia critica della tecnologia e sorprendentemente stabilisce un parallelo tra il problema metodologico di questa storia e il problema analogo della storia della religione: «Di fatto è molto più facile trovare mediante l’analisi il nocciolo terreno delle nebulose religiose che, viceversa, dedurre dai rapporti reali di vita, che di volta in volta si presentano, le loro forme incielate. Quest’ultimo è l’unico metodo materialistico e quindi scientifico»9.

Ecco una seconda sorpresa: in questa nota Marx ripete la regola metodologica delle Tesi su Feuerbach, mettendola anche in questo caso in relazione alla religione. Lì, nella Quarta Tesi, Marx riconosceva che il «lavoro» di Feuerbach è consistito nel «risolvere [analiticamente, W.F.H.] il mondo religioso nel suo fondamento mondano». Tuttavia, a questo punto la cosa principale rimane ancora da fare. E infatti Marx proseguiva: «Il fatto che il fondamento mondano si distacchi da se stessa e si costruisca nelle nuvole come un regno fisso ed indipendente, è da spiegarsi soltanto con l’auto-dissociazione e con l’autocontraddittorietà di questo fondamento mondano »10 .

Quest’ultimo punto, che tocca la questione principale, vent’anni dopo, nel Capitale, Marx lo applica alla tecnologia: «La tecnologia svela il comportamento attivo dell’uomo verso la natura», dice. Svela cioè «l’immediato processo di produzione della sua vita, e con esso anche l’immediato processo di produzione dei suoi rapporti sociali vitali e delle idee dell’intelletto che ne scaturiscono»11. Notiamo, di passaggio, che qui, ove si tratta del processo di produzione e riproduzione immediato della nostra esistenza, entra in gioco la natura. Tornerò su questo punto tra breve, chiedendomi come la natura entri nella filosofia della prassi e che cosa questa entrata significhi per l’umanesimo di questa filosofia. Per il momento, notiamo però che la chiave che per il Marx de Il capitale dà accesso ai fenomeni «nel fluire del movimento», secondo la formula che collega Il capitale alle Tesi su Feuerbach, è esattamente il «comportamento attivo dell’uomo». Solo questa prassi conduce ai «rapporti sociali vitali e [alle] idee dell’intelletto che ne scaturiscono [entquellen, da Quelle, fonte]». Possiamo perciò riassumere con parole nostre: il metodo dialettico, seguendo il commento che Marx fa di sé stesso, si propone di ricostruire l’emergere del fenomeno e adatta l’indagine al processo di sviluppo medesimo. Tuttavia, il filo conduttore di questa ricostruzione genetica è nient’altro che il comportamento degli esseri umani nelle loro relazioni socionaturali, nella loro prassi.

Resta da vedere se Marx nel suo lavoro teorico si muova effettivamente in questa direzione. Ciò che ora dobbiamo considerare è dunque il Marx operativo e non la sua auto-interpretazione. Si tratterà perciò di verificare se il procedimento di Marx nel Capitale possa essere spiegato dal punto di vista della prassi. È a quest’altezza che a un certo punto ci accorgeremo che per poter perseguire questa prospettiva dovremo andare con Marx oltre Marx. Per indicare in quale direzione ci muoveremo scelgo alcuni problemi cruciali:

1. Qual è la relazione tra dialettica e pratica nel Marx operativo?

2. Come intendere il determinismo materialistico dal punto di vista della prassi?

3. Come si può concepire la legge del valore, che regge il mondo capitalistico, in relazione all’azione umana?

4. In che relazione entra la natura con l’umanesimo della filosofia della prassi?

Per segnalare la relazione tra dialettica e pratica nel Marx operativo possiamo limitarci a indicare il paragrafo nel quale questa domanda viene formulata12 . Si tratta di un testo che per Althusser è ancora hegeliano13 e che per la tendenza post-althusseriana (che non è meno oggettivista di Althusser) è la prova del fatto che Marx segue un metodo logico. In effetti, questo testo, in cui Marx realizza la sua famosa analisi della forma di valore, può essere considerato la porta d’accesso metodologica alla sua critica dell’economia politica. Qui la dialettica ci conduce a «compiere un’impresa che non è stata neppure tentata dall’economia politica borghese», dice Marx, e cioè «dimostrare la genesi di questa forma di denaro, dunque [...] perseguire lo svolgimento dell’espressione di valore contenuta nel rapporto di valore delle merci, dalla sua figura più semplice e inappariscente, fino all’abbagliante forma di denaro»14 .

Marx ci invita a realizzare un piccolo esperimento: come si può esprimere il valore di una merce, se si prescinde dal denaro? Possiamo sperimentare il fatto che «potremo voltare e rivoltare una singola merce quanto vorremo, ma come cosa di valore rimarrà inafferrabile»15 . La forma più semplice è quella del baratto, in cui una certa quantità di un’altra merce serve per esprimere il valore della prima. Dai “difetti” di questa forma Marx deduce poi il passaggio a una forma più complessa, in cui la nostra prima merce può esprimere il suo valore in quantità sempre crescenti di altre merci, secondo un procedimento che sfocia in un «mosaico variopinto di espressioni di valore divergenti e di altro genere»16. Questa confusione trova la sua soluzione nel passaggio a una forma valore generale, in cui, in sintesi, il valore di molte merci si esprime e che infine si trasforma nella merce denaro. In questo modo Marx ricostruisce in una serie genetica la forma di merce. Ciò che Marx dice della forma elementare, che «trapassa da sola in una forma più completa»17, vale per tutti questi passaggi di forma. Ma può una tale forma, o può una merce, essere il soggetto di un processo reale?

Qui i “logicisti” rispondono che la «genesi» che Marx pretende di ricostruire non ha alcun significato reale. Secondo costoro, si tratta solamente di un’operazione logica da parte di Marx. Ciò che per i logicisti è una mera apparenza svanisce però se analizziamo il valore come una forma di prassi. Da questo punto di vista, la merce non “esprime” affatto il proprio valore. «Di fatto», dice Marx, «quando un uomo scambia la sua tela con molte altre merci, e quindi ne esprime il valore in una serie di altre merci, anche gli altri possessori di merci debbono necessariamente scambiare le loro merci con la tela, e quindi debbono esprimere i valori delle loro differenti merci nella stessa terza merce, in tela»18. Pertanto, essi possono infine utilizzare l’espressione di valore dei valori delle loro merci in quantità di tela per mediare i loro scambi. Contro ciò che Marx materialmente scrive, ma in accordo con il senso del suo discorso, possiamo perciò dire che nessuna forma «trapassa da sola in una forma più completa» ma che è solo la prassi presente nelle forme ciò che fa passare ciascuna di esse al livello superiore19 .

In sintesi, Marx scrive a tale proposito:

«L’estensione e l’approfondimento storico dello scambio dispiega l’opposizione latente nella natura della merce fra valore d’uso e valore. Il bisogno di dare, per gli scopi del commercio, una presentazione esterna a tale opposizione, [...] non s’acquieta e non posa fino a che tale forma non è definitivamente raggiunta mediante il raddoppiamento della merce in merce e denaro»20 .

Torniamo ora al secondo ostacolo che impedisce l’entrata della filosofia della prassi nell’area del Capitale: il problema del determinismo. Vedremo che l’analisi del determinismo aprirà la via al problema dell’oggettivismo della legge del valore.

Nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica si legge questa tesi, citata innumerevoli volte: «Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza»21. Essa è stata trattata dai marxisti quasi sempre come un articolo di fede. Raramente ci si è chiesti come si realizzasse questa determinazione. Volgiamo allora questa domanda alla famosa legge del valore, la quale, in condizioni capitalistiche, è allo stesso tempo anche la legge del plusvalore.

Marx eredita il discorso su questa legge da Smith e soprattutto da Ricardo. La legge del valore sembra a prima vista un’essenza metafisica, qualcosa di pre-esistente, che non si può concepire «nel fluire del suo movimento». Qualcosa che pertanto esclude la dialettica e che, per di più, non viene toccato dalla pratica. Ma se leggiamo attentamente Marx scopriamo, pur tra certe ambiguità del testo, la traccia che ci conduce alla pratica: la legge operativa è pensata da Marx come la risultante delle attività economiche, risultante la quale, a posteriori, regola attività ulteriori. Questa struttura specifica del capitalismo caratterizza quest’ultimo, secondo Marx, come un «modo di produzione nel quale la regolarità può imporsi solamente come legge della media che, nel mezzo dell’irregolarità, si realizza ciecamente»22. La «legge del valore», perciò – afferma Marx più avanti –, «opera soltanto a posteriori [...] come necessità interiore, muta, percepibile negli sbalzi barometrici dei prezzi di mercato, che sopraffà l’arbitrio sregolato dei produttori di merci»23 .

«Arbitrio sregolato» significa qui che ciascun produttore individuale decide la propria azione; il mercato reagisce come una media di tutte queste pratiche individuali in relazione alla domanda aggregata che si forma, eo ipso, a partire da atti arbitrari privi di una regola generale che operi a priori. La legge risulta pertanto a posteriori ed entra in forma di anticipazione sperimentata a priori nella successiva produzione di atti individuali. Tuttavia, nel momento in cui i produttori tentano di adattarsi a questo a priori, lo hanno già mutato mediante le loro azioni.

Il serpente si morde la coda e non è già lo stesso serpente, dunque. Il punto di partenza è il risultato. Già Hegel aveva considerato questa figura della dialettica: qui si tratta di un effetto retroattivo che sortisce il risultato peculiare per cui tutto l’insieme oscilla da un determinato squilibrio allo squilibrio opposto. È esattamente ciò a cui pensava l’ex ministro greco delle finanze, Yanis Varoufakis, quando diceva che il calcolo capitalistico non trova mai una soluzione a livello sistemico. In definitiva, possiamo parlare di una «legge risultante» o di un «risultato regolante»24 .

Ciò che in questo momento ci interessa è però, in primo luogo, il fatto che la spiegazione dell’intero processo ha la sua pietra angolare nel dispositivo delle pratiche sociali individuali prese nel loro insieme; e, in secondo luogo, il fatto che effettivamente Marx concepisca la forma sviluppata della legge del valore nel fluire del suo movimento, un fluire che è spinto in avanti dalla prassi nella sua forma specificamente capitalistica. Nel fondo di questo modo di pensare di Marx c’è la fisica avanzata del suo tempo, della quale egli era un lettore avido25 . Non dovremmo perciò meravigliarci se un giorno i fisici estendessero le leggi della natura in una forma corrispondente, solo che in tal caso le leggi che regolano retroattivamente le entità agenti risulterebbero dall’insieme delle relazioni tra queste entità.

Abbiamo qui anche il paradigma che offre risposta all’altra nostra domanda, e cioè come l’essere sociale possa determinare la coscienza degli individui. Questo “essere” non parla mai direttamente, immediatamente: esso non agisce se non mediante la prassi. “Essere” è perciò solamente un’altra parola per il modo di socializzazione degli atti particolari in relazioni sociali. Ogni agire individuale entra in interazione con tutti gli altri atti nel campo rispettivo della prassi sociale. Possiamo constatare pertanto che «da azioni divergenti conseguono risultati convergenti»26 assieme ad un fluire permanente dell’equilibrio. Alla base di ciò non sta altro che la forza costituente delle pratiche e il modello della loro interazione, mediato a sua volta dalla prassi sociale: una forza propria costituente che verrà poi fronteggiata dalla sua forma costituita come una forza aliena o alienata.

A questo punto sono necessarie alcune rapide riflessioni sul modo in cui la natura entra nell’umanesimo della filosofia della prassi. Il dualismo tradizionale tra cultura e natura, che si manifesta nella definizione secondo la quale «cultura è tutto ciò che non è natura», si produce dal punto di vista della filosofia della coscienza. La prassi parte invece dalle forze dell’«organismo fisico»27 dei suoi soggetti portatori umani e nell’uso dei suoi “supporti” materiali opera perciò fondamentalmente «come la natura stessa»28 . Per il soggetto umano concreto ciò significa che «lo stesso elemento naturale diventa organo della sua attività, [...] che [...] aggiunge agli organi del proprio corpo, prolungando la propria statura naturale»29 . La cosiddetta “cultura materiale” non separa allora l’uomo dalla natura ma lo collega semmai a essa, costituendolo come attore della propria pratica. Gli organi esterni della sua pratica sono attivi, ma la pratica che li include e che si basa su di essi è esclusivamente sua propria.

Per questa ragione dobbiamo ripensare il fiammeggiante discorso del giovane Marx, al quale dobbiamo l’«imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti [Verhältnisse] in cui l’uomo è un essere umiliato, assoggettato, abbandonato, spregevole», e nel quale viene proclamato che «la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso»30. Questo stesso uomo ha infatti molteplici radici naturali nel passato e nel presente. Anche se la filosofia storico-materialistica della prassi parte dal punto di vista dell’essere umano – e come potrebbe essere altrimenti? –, essa è perciò consapevole di trovarsi in un mondo fatto di un permanente intra-agire e divenire. Essa si sa perciò come qualcosa che non è del tutto differente da questo mondo ma che è esistente in un altro modo ed è al contempo rottura e ponte.

 

Da ultimo

Negli anni Novanta internet ha compiuto un salto caratterizzato dall’emergere di una potenza priva di precedenti su scala planetaria31 . Ci troviamo ora alle soglie di un’epoca in cui il robot, che fino a questo momento superava l’uomo in efficienza fisica, inizia a superarlo anche nell’efficienza che siamo soliti chiamare mentale, per lo meno nei parametri che sono traducibili in algoritmi32 . Gli ideologi del capitalismo hightech, per esempio Bruno Latour, negano già lo statuto privilegiato dell’uomo. Questi ideologi trasferiscono alle cose i concetti e lo statuto ontologico del soggetto e della prassi umana, svuotandoli del loro contenuto umano e invitandoci a reificare noi stessi33. Sembra che il quadro di ciò che essi chiamano «ontologia piatta» (flat ontology) ci prepari per essere considerati cose tra le cose dentro l’internet delle cose. O meglio: “soggetti” nel vecchio senso assolutistico degli assoggettati, entità non-umane, subordinate al sistema di macchine del capitalismo globale, dotato a sua volta di intelligenza artificiale.

In sintesi, non ci troviamo più stretti tra l’oggettivismo strutturalistico e l’oggettivismo delle leggi dell’ortodossia sovietica, che da punti di vista diversi accusavano la filosofia marxista della prassi di essere soggettivista. Ora dobbiamo invece difenderci dal rischio che consiste nell’uso capitalistico transnazionale delle enormi forze scatenate dalla cibernetica, accompagnate dalle ideologie della disumanizzazione. Umanesimo e morale sono perciò al giorno d’oggi delle specie a rischio di estinzione. E non solo esse.

Quando, qualche anno fa, ho appreso che i leader di due grandi sindacati spagnoli avevano chiesto all’UNESCO di includere il lavoro umano all’interno del patrimonio culturale dell’umanità, debbo confessare che ho creduto che si trattasse di uno scherzo. Ma sullo sfondo del mondo di oggi il sorriso mi muore sulle labbra. Ricordiamoci di come Marx tematizza il lavoro nel Capitale:

«Qui non abbiamo da trattare delle prime forme di lavoro, di tipo animalesco e istintive. Lo stadio nel quale il lavoro umano non s’era ancora spogliato della sua prima forma di tipo istintivo si ritira sullo sfondo lontano delle età primeve, per chi vive nello stadio nel quale il lavoratore si presenta sul mercato come venditore della propria forza-lavoro. Noi supponiamo il lavoro in una forma nel quale esso appartenga esclusivamente all’uomo»34 .

Il lavoro, questa forma esclusivamente umana, non è solamente la pietra angolare, genetica, della prassi, sebbene non la esaurisca in tutte le sue dimensioni; di questa prassi esso è anche – in misura maggiore o minore – il portatore di tutte le caratteristiche. Anche l’arte è in questo senso un caso particolare di lavoro, sebbene con una diversa composizione organica.

La sociologia del lavoro, citando un Marx mal compreso, ha già descritto in numerosi casi il lavoro alienato come totalmente privo di elementi sociali e culturali, comunicativi e intellettuali. Questo è però un fantasma oggettivistico. Ricordiamoci di ciò che Gramsci dice a proposito dell’illusione capitalistica di poter utilizzare gli operai come dei gorilla ammaestrati, illusione alimentata dai venditori della tecnologia “fordista” di quei tempi. Un’illusione analoga si è ripetuta una generazione dopo, quando i venditori delle macchine hightech ci hanno promesso l’officina industriale priva di operai. Non ha funzionato. Certo, la popolazione operaia si è ridotta e le attività dei lavoratori che sono rimasti sono cambiate. Ma le ricerche sulla prassi dei lavoratori, realizzate in Germania – tra gli altri – da Frigga Haug con i suoi collaboratori durante la prima fase dell’automatizzazione, hanno scoperto tutto un mondo di attività informali – e persino di autogoverno nel bel mezzo della soggezione – senza le quali il processo non funzionerebbe molto a lungo.

È chiaro che la prassi che troviamo all’interno di relazioni di sfruttamento e di alienazione porta con sé tutta una serie di mutilazioni e di distorsioni. Ciò nonostante, continueremo a insistere contro Habermas – come già ha fatto Adolfo Sánchez Vázquez – sul fatto che il lavoro non può essere escluso dalla prassi. Inoltre, la prassi che troviamo in una qualche maniera tra coloro che sono stati “liberati” dal lavoro porta con sé – certo, in una forma diversa – non minori mutilazioni e distorsioni. Questo è precisamente ciò che il corso delle cose sta prefigurando per noi.

Se tutto ciò che Hegel ha detto fosse sbagliato – e non dico affatto che lo sia! – ci resterebbe comunque la dialettica del servo e del padrone, della quale si sta già preparando una nuova replica sotto il segno della robotica e dell’intelligenza artificiale. Mentre il capitalismo hightech si appresta a trasferire a delle macchine antropoidi il lavoro, ivi incluso quello “intellettuale”, tutto un gruppo di pretesi nuovi materialismi -la cosiddetta teoria dell’attore-rete (Actor-Network Theory) o, più di recente, l’ontologia dell’attante-rizoma -si sforzano di descriverlo annullando in esso la forma nel quale appartiene esclusivamente all’uomo: quella forma, cioè, che eccede il lavoro stesso e che è forma della stessa pratica umana, fondamentale per la filosofia della prassi marxista. Beninteso, in tutte queste teorie post-o antiumanistiche non si parla mai di capitalismo. Per esse si tratta di un dramma che si svolge tra gli uomini e le cose, oppure tra gli umani e quella loro “condizione tecnologica” che di solito viene mistificata sul piano filosofico grazie al ricorso a Heidegger. Come Adolfo Sánchez Vázquez dinnanzi ai due oggettivismi dei suoi tempi, rispetto a queste tendenze dovremo dunque articolare una polemica che ci consenta di recuperare il terreno perduto. La nostra dialettica attraversa infatti tutte le separazioni, ma non le annulla.

Quando dico questo, sembra che io stia parlando di qualche qualità metafisica dell’entità chiamata dialettica. Ma non è affatto così. Una simile entità non esiste. Ciò che esiste è un mondo «nel fluire del suo movimento». In questo mondo, le parti costituenti interagiscono incessantemente. La sua conoscenza rende necessario ripercorrere sul piano intellettuale quei movimenti e quelle interazioni contraddittorie nelle fasi di emergenza dei fenomeni. «Non ci è possibile retrocedere al di qua di questa azione reciproca», dice Engels nelle sue ingiustamente sottovalutate note sulla dialettica della natura, «appunto perché dietro di essa non vi è nulla che si possa conoscere»35. Questo ripercorrere il processo materiale, questo dialégesthai, è un’attività nostra, che chiamiamo metodo dialettico. Ed è per questa ragione che secondo Marx ed Engels la dialettica, come essi la intendono, è radicalmente opposta alla metafisica. Nessuna essenza assoluta le resiste.

A maggior ragione, bisogna allora richiamare l’attenzione sull’uso pratico-concreto di questa attività che chiamiamo dialettica. E proprio per questo propongo di completare il concetto di dialettica teorica con quello di dialettica pratica36 , un’arte della vita quotidiana che è al contempo un’arte politica, nel senso del farsi del mondo sociale.

In effetti, la dialettica pratica è indispensabile per poter prevalere nelle lotte per l’umanizzazione del nostro mondo. Tra le sfide alle quali questa dialettica cerca delle risposte, spiccano le contraddizioni e «i cambiamenti imposti da trasformazioni radicali» di cui parlava Sánchez Vázquez37. Inoltre, essa ci consente di evitare la dialettica passiva della prassi, quelle situazioni cioè in cui il perseguimento pratico di un obiettivo determinato giunge al risultato opposto di quello che si era prefisso e l’onda prende il surfista alle spalle38 .

Lungo questa strada, la filosofia della prassi scopre nell’universo una matrice generale che nel mondo umano prende una forma specifica e peculiare. E se con queste descrizioni formali dei modi di essere finiamo per inoltrarci sul terreno dell’ontologia, vuol dire che è giunto il momento di ripensare l’anatema che un certo marxismo, e in particolare la Teoria critica di Adorno, ha scagliato contro l’ontologia.

Già l’ultimo Lukács, con la sua Ontologia dell’essere sociale, e il Bloch dell’Ontologia del non-ancora39 o di Experimentum mundi, hanno non a caso aperto questa porta. E io stesso ho cercato di varcare quella soglia quando, contro la scuola logico-positivistica interna al marxismo, ho difeso l’essere delle determinazioni nel senso di possibilità oggettive e cioè di destinazioni, intese come determinazioni delle quali Marx dice che hanno bisogno di essere realizzate (come il valore d’uso quando diciamo che una cosa che è destinata al consumo o come il valore di scambio di una merce). Poiché la distanza o lo iato tra questi “realisanda” non ancora realizzati e la loro realizzazione effettiva è di natura ontologico-formale, essa è al contempo anche temporale. In consonanza con l’interagire e il fluire universale, la teoria di Marx e con essa anche la filosofia della prassi sono perciò esse stesse teorie temporali, contraddistinte dall’essere e dal tempo della dialettica. Lo «spazio piano fittizio, in cui tutti movimenti sono [...] soppressi», che il giovane Balibar ascrisse alla teoria marxiana in Leggere Il capitale40, non rende invece possibile una ricostruzione coerente e ancor meno può essere applicato all’analisi del capitalismo attuale. Non posso pertanto che concludere questo mio contributo lasciando aperte le porte di futuri laboratori teorici.


* Institut für kritische Theorie

Trad. it. dallo spagnolo di Fabio Frosini.

Note
Si tratta di una parte della lectio magistralis per l’inaugurazione del Coloquio internacional Adolfo Sánchez Vásquez. A 100 Años de su nacimiento, letta presso la Universidad Nacional Autónoma de México, 1-3 settembre 2015. 
2 Cfr. ALTHUSSER 1995.
3 HAUG 1971.
4 SÁNCHEZ VÁZQUEZ 1985, p. 71.
5 In questa forma radicalmente rielaborata le Lecciones sono ora apparse di nuovo in spagnolo: HAUG 2016a.
6 LABICA 1987.
7 ALTHUSSER 1981, p. 142.
8 MARX 1974, p. 45 = MEW 23, p. 28.
Ivi, pp. 414-415n. = MEW 23, 392-393n.
10 Marx 1972, p. 52 = MEW 3, p. 6.
11 MARX 1974, p. 414n. = MEW 23, p. 392.
12 Ho dedicato il primo volume della mia trilogia su Il capitale a questa questione e la mia risposta prasseologica ha scatenato non poche polemiche. Non sarei corretto se pretendessi di aver già vinto questa battaglia. Parlo dell’analisi della forma di valore nella terza parte del primo capitolo.
13 Cfr. ALTHUSSER 1969.
14 MARX 1974, p. 80 = MEW 23, 62.
15 Ivi, p. 79 = MEW 23, 62.
16 Ivi, p. 96 = MEW, 23, 78.
17 Ivi, p. 94 = MEW, 23, 76.
18 Ivi, p. 97 = MEW, 23, 79.
19 Cfr. HAUG 2016a, IX Lección.
20 MARX 1974, p. 119 = MEW, 23, 102.
21 MARX 1984, p. 5 = MEW 13, 9.
22 MEW, 23, 117. [Nell’originale: «modo de producción en el cual lo regular sólo puede imponerse como ley promedial que, en medio de la irregularidad, actúa ciegamente». Il testo tedesco ha: «einer Produktionsweise, worin sich die Regel nur als blindwirkendes Durchschnittsgesetz der Regellosigkeit durchsetzen kann», tradotto da Cantimori (MARX 1974, p. 135) con «un modo di produzione nel quale la regola si può far valere soltanto come legge della sregolatezza, operante alla cieca». N.d.T.]
23 MARX 1974, p. 399 = MEW 23, 377.
24 HAUG 1972; HAUG 2006, p. 114 sgg.; HAUG 2013, pp. 204, 221, 290.
25 Cfr. SOLDANI 2002.
26 «[...] dass aus divergenten Handlungen konvergente Erfahrungen folgen» (HAUG 2013, p. 221).
27 MARX 1974, p. 76 = MEW, 23, 59 («in seinem leiblichen Organismus»).
28 Ivi, p. 75 = MEW, 23, 57.
29 Ivi, p. 213 = MEW, 23, 194 («seine natürliche Gestalt verlängernd»).
30 MARX 1950, p. 404 = MEW 1, 385.
31 Al giorno d’oggi circa tre miliardi di esseri umani si muovono in internet.
32 Questa è l’opinione di Gill A. Prat, direttore del programma di robotica del
centro di ricerche militari statunitense di Dara.
33 Le teorie “post-moderne” che umanizzano la natura e disumanizzano noi esseri umani varcano la soglia di un nuovo misticismo. Si veda la mia critica in HAUG 2015 e HAUG 2016b.
34 MARX 1974, p. 212 = MEW, 23, 192-193.
35 MEW, 20, 499.
36 Cfr. HAUG 2008.
37 SÁNCHEZ VÁZQUEZ 1985, p. 73.
38 A differenza della «dialettica delle azioni intenzionali (individuali e collettive) e delle azioni in intenzionali», tematizzata da SÁNCHEZ VÁZQUEZ 2006, p. 93, si tratta qui della sfida consistente nel dominio del processo contradditorio delle azioni intenzionali.
39 BLOCH 1961.
40 BALIBAR 1965, p. 267 (trad. it. p. 334).

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