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Dalla fabbrica al container
Intervista a Sergio Bologna
[Versione originale uscita in francese sulla rivista marxista online “Période”, a cura di Davide Gallo Lassere e Frédéric Monferrand]
Co-fondatore di riviste come Classe operaia e Primo Maggio e del gruppo Potere Operaio, Sergio Bologna esamina in quest’intervista la sua traiettoria intellettuale et politica. Dalle lotte in fabbrica negli anni ’60 ai movimenti contemporanei dei precari e dei lavoratori della logistica, passando per il movimento del ’77, Bologna intreccia storia dell’operaismo e storia delle lotte di classe in Occidente.
* * * *
Potresti ritornare sulle differenti tappe che hanno scandito la storia dell’operaismo, dalla fondazione dei Quaderni rossi fino a Classe operaia?
Non vi è accordo tra di noi circa la periodizzazione della storia operaista. Secondo Mario Tronti questa storia termina nel 1966 con la fine di Classe operaia; secondo me si prolunga fino alla fine degli anni ’70. Il periodo 1961-1966 è senza dubbio quello durante il quale furono tracciate le linee fondamentali della teoria operaista da Romano Alquati, Mario Tronti e Antonio Negri. Raniero Panzieri fu anche lui un fondatore, ma non si è mai definito “operaista”. La questione della storia dell’operaismo è dunque controversa. Il mio punto di vista personale è il seguente: tra il 1961 e il 1966 sono state poste le basi della teoria; tra il 1967 e il 1973 si è cercato di verificare la capacità di queste teorie nel mobilizzare i movimenti sociali e la risposta - almeno per gli anni 1968-69 - non può essere altro che affermativa.
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Partito e organizzazione: una base di discussione per i comunisti in Italia
Rete dei Comunisti
Misurarsi su un piano politico e teorico su come i comunisti si debbano organizzare in un contesto storico come l’attuale e in uno dei poli imperialisti di questo nuovo secolo come quello dell’Unione Europea è sicuramente un compito di estrema difficoltà. D’altra parte le opzioni oggi esistenti nel nostro paese non ci sembrano soddisfacenti e, soprattutto, crediamo che vadano riviste alla luce di una elaborazione e confronto approfondito che non possano dare per scontati presupposti che a noi ora non sembrano più tali.
In questi anni ci siamo trovati di fronte a due tipi di possibilità. La prima è stata quella della riproposizione tout court del partito comunista di massa nato nel dopoguerra, in un contesto storico e internazionale del tutto diverso nel quale svolse certamente una funzione fondamentale fino a modificare in quei decenni i rapporti di forza tra le classi nel nostro paese.
Oggi una ipotesi del genere che non tenga conto nel dovuto modo delle radicali modifiche avute sul piano della produzione, della composizione di classe, della identità delle classi subalterne non ci sembra adeguata perché prescinde da una dinamica, perfino violenta nei confronti dei comunisti, come è stata quella che si è manifestata dai primi anni ’90. Questa impostazione da “partito di massa” non riguarda però solo i partiti che hanno una dimensione prevalentemente elettorale ma anche quelle organizzazioni che comunque si concepiscono come struttura di massa in cui il dato centrale è quello della semplice adesione sui principi.
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Sono così necessari i vaccini?
Intervista esclusiva alla Dottoressa Loretta Bolgan
Laureata in chimica e tecnologia farmaceutiche, con un dottorato di ricerca in scienze farmaceutiche e una collaborazione come consulente scientifico con Rinascimento Italia sulle problematiche del Covid-19, ci ha colpito per la sua onestà intellettuale e la sua competenza tecnica
Parliamo di vaccini. Lei ha già detto che ne esistono moltissimi e di tutti i tipi. Quelli che interessano il nostro Paese sono, mi corregga se sbaglio, AstraZeneca, Pfizer e Moderna.
Che differenze ci sono tra questi vaccini? Potrebbero essere pericolosi? Come mai vengono spacciati per essere sicuri quando basterebbe andare sul sito di AstraZeneca e di Pfizer per capire che la “fase 3” della sperimentazione siamo noi?
Considerando che ci sono delle domande multiple, cominciamo dalla tipologia di vaccini che abbiamo in corso di sperimentazione e da quelli che sono già approvati.
Noi, adesso, abbiamo in commercio questi tre: due vaccini a mRNA (che sono quelli della Pfizer e della Moderna) e poi quello dell’AstraZeneca.
Teniamo conto che sono in corso di autorizzazione anche il Johnson&Johnson e lo Sputnik V, che sono due vaccini a vettore adenovirale.
Inoltre, a tutt’oggi abbiamo circa duecentosessanta vaccini in corso di sperimentazione clinica e ottanta sono in corso di registrazione.
La maggioranza di questi vaccini sono a proteine con adiuvanti. Più o meno quelli che utilizziamo anche per i bambini.
Una piccola parte sono vaccini di nuova generazione, che contengono come antigene vaccinale il gene della proteina che, in questo caso, è la spike — ovvero la proteina di superficie del virus che gli permette di legarsi al recettore ACE2 presente sulla membrana delle cellule per entrare e infettarle.
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Europa, alla ricerca del sesto scenario
Claudio Gnesutta
Il documento di Jean-Claude Juncker propone 5 scenari alternativi per l’Unione Europea. Ma ora più che mai è necessario mettere in campo un altro scenario, radicalmente diverso, in cui l’autoriforma delle istituzioni europee sia volta a sostenere lo sviluppo e la stabilità sociale all’interno e tra i paesi membri
Il primo marzo di quest’anno, il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker ha presentato il “Libro bianco sul futuro dell’Europa: le strade per l’unità nell’UE a 27”. Di fronte a un passaggio incerto dell’istituzione europea dopo la Brexit, ma soprattutto in presenza della crescente ostilità popolare nei confronti delle politiche europee, il documento veniva presentato come la base di discussione delle linee di sviluppo dell’Unione e fissava le possibili alternative cui sarebbero soggetti i paesi nello scegliere il loro percorso verso la futura Europa. È lo sfondo sul quale si regge anche il suo recente discorso sullo Stato dell’Unione 2017.
Il documento prospetta cinque scenari alternativi con i quali i paesi dell’Unione dovranno confrontarsi prossimamente, superate le ormai prossime elezioni tedesche. Appare quindi tempestivo e di grande interesse il contributo di Alessandro Somma – Europa a due velocità. Postpolitica dell’Unione Europea, Imprimatur 2017 – che offre una ampia e ragionata esposizione del significato e delle implicazioni dei cinque scenari che – secondo la Commissione – delineano «quello che potrebbe essere lo stato dell’Unione da qui al 2025 ». Merito di Somma è interpretare una tale proposta istituzionale in connessione con le altre deliberazioni della Commissione in merito alla difesa, alle finanze, all’inclusione sociale e qualificare così il senso delle diverse alternative in maniera più precisa di quanto non indicasse la rapida presentazione di marzo.
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La crisi di Keynes
di Antonio Pagliarone
Un amico mi ha segnalato l’articolo di Vladimiro Giacchè LO SPETTRO DELLA BOLLA CHE SI AGGIRA PER LA REALTÀ. La crisi di Karl apparso sul Manifesto del 2 Ottobre dandomene copia e pregandomi di fare delle annotazioni.
Innanzitutto ha ragione Giacchè nel sottolineare che l’attuale crash economico su scala globale pur apparendo come una crisi finanziaria va spiegato andando a riprendere le categorie marxiane, senza alcun vincolo ideologico. Occorre precisare però che lo stesso Giacchè cade in errore quando considera che l’origine della crisi stia nella “sovrapproduzione” a causa dell’eccesso di credito che avrebbe spinto il capitale produttivo ad andare al di là dei suoi limiti proprio perché ha a disposizione eccessi di capitale per investimenti produttivi da una parte ed eccessi di disponibilità monetaria per incentivare il consumo, tesi che si trova abbastanza diffusamente anche presso osservatori ed economisti che hanno resuscitato il keynesismo. Secondo Giacchè quindi, citando un breve passaggio di Marx, vi sarebbe una correlazione diretta tra andamento del credito e sovrapproduzione ma non ce lo dimostra empiricamente. Il problema invece sta nel fatto che il modo di produzione capitalistico ha subito delle radicali modificazioni nel corso degli ultimi quartant’anni (dopo la famosa crisi della metà degli anni 70) e la crisi attuale non è altro che il prodotto di una dinamica di lungo periodo del saggio del profitto poiché sta proprio nella possibilità di conseguire profitti l’aspetto fondamentale del modo di produzione capitalistico.
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Vaccino Covid, "Si rischia una reazione avversa fatale"
Monica Camozzi intervista Loretta Bolgan
Su Affaritaliani.it il parere di Loretta Bolgan, Harvard Medical School di Boston. "Alterazioni epigenetiche e infertilità"
Mentre si ascolta Loretta Bolgan parlare del vaccino, la sensazione è quella di una roulette russa. Laurea in chimica e tecnologia farmaceutiche, dottorato in scienze farmaceutiche e research fellow alla Harvard Medical School di Boston, quindi ricercatrice industriale per aziende che producono kit diagnostici e si è occupata di registrazione di farmaci, Bolgan teme, nell’ordine, “un rischio gravissimo di reazione avversa fatale; il pericolo di reazioni autoimmuni, di malattie gravi a carico del sistema nervoso; la possibilità che si verifichino alterazioni epigenetiche, ovvero capaci di modificare l’espressione dei geni. Infine, l’ipotesi che possa essere attaccato il sistema riproduttivo con lo spettro dell’infertilità”.
“Sono sempre stata per la libertà vaccinale e terapeutica, ma questa volta sono assolutamente contro l’autorizzazione del vaccino. Non è stato rispettato alcun principio di precauzione. La popolazione farà da cavia”.
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Note sul debito pubblico italiano
di Dario Di Nepi
In questi mesi il dibattito sui debiti sovrani è stato orientato prevalentemente alle discussioni in merito al rischio di default della Grecia, ai problemi relativi agli aiuti da dare al Portogallo e alla situazione irlandese. In Europa si parla dei Pigs e del loro ruolo destabilizzatore, dei rischi per l’economia europea e per il futuro dell’Euro.
L’Italia, pur non essendo inserita all’interno dei Pigs, e pur non avendo subito l’attacco speculativo a cui è stata sottoposta la Grecia, non può essere considerata esente da problemi riguardanti sia il debito pubblico, sia il deficit di bilancio. Come sappiamo questi due elementi sono strettamente legati e connessi tra di loro, anche se non bisognerebbe fare l’errore tipico degli analisti liberisti di vedere una relazione diretta causa-effetto tra spesa sociale – deficit di bilancio – debito pubblico.
Sin dagli albori dello Stato moderno il debito pubblico infatti era legato principalmente al finanziamento di attività militari o coloniali, determinanti per l’espansione commerciale, necessaria alla nascente economia mercantilista. Da questo punto di vista gli esempi possono essere molteplici, basti pensare che sino alla Rivoluzione Industriale la Banca d’Inghilterra compie la maggior parte delle operazioni di credito con il governo reale.[1] Gli Stati (e dunque, in forma indiretta, l’intera collettività tramite imposte o tagli alla spesa sociale) sono stati quindi tra i principali finanziatori dello sviluppo di tutto il mercato finanziario internazionale, attraverso i loro debiti infatti hanno garantito delle rendite pressoché costanti ai propri debitori (inizialmente le banche nazionali, in seguito le banche private, le compagnie di assicurazioni, i fondi di investimento, etc).
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Spesa per pensioni, così è se vi pare
Maurizio Benetti
Le varie istituzioni applicano criteri diversi nel computo della spesa previdenziale, tanto che il suo rapporto sul Pil cambia fino a oltre 3 punti, una differenza enorme. Una giungla in cui si perde di vista il vero problema: che ormai non è la sostenibilità finanziaria, ma gli importi troppo bassi
Mentre il ministro Tremonti afferma che finché ci sarà lui al governo le pensioni non saranno toccate, ci sono economisti ed esponenti di entrambi gli schieramenti che continuano a sostenere la necessità di intervenire per tagliare la spesa pensionistica, sorvolando sul fatto che le previsioni ci indicano più un problema di sostenibilità sociale che non uno di sostenibilità finanziaria.
Cominciamo per prima cosa a chiarire quale sia l’ammontare della spesa pensionistica in Italia dato che i dati che vengono citati sono spesso molto diversi tra loro con differenze superiori anche a 2-3 punti di Pil.
Un’utile opera di chiarimento in merito è quella fatta dalla Ragioneria generale dello Stato (Rgs) nella pubblicazione “Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario”, Rapporto n.10, riportata anche nel Rapporto 2008 del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale (NVSP). La Rgs confronta i dati di spesa pensionistica in rapporto al Pil secondo le diverse definizioni dell’aggregato. Riporto per il 2006 i dati Rgs e per il 2007/8 il loro aggiornamento.
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L'impossibile keynesismo
di Joseph Halevi
Su la Repubblica e su la Stampa di ieri sono apparsi articoli molto scettici nei confronti degli attuali annunci di ripresa economica. È pertanto legittimo chiedersi se si profilano soluzioni e scenari di un'uscita dalla crisi e su quale base sociale possa l'eventuale nuova fase poggiare. Guardando alla storia del capitalismo moderno si nota che non fu il New Deal a sollevare gli Usa dalla depressione bensì l'entrata di Washington nel grande solco della spesa pubblica militare apertosi con la Seconda Guerra Mondiale. Ciò costituì la vera uscita capitalistica dalla Grande Depressione su una base sociale allargata.
Allora il keynesismo militare Usa divenne il pilastro economico della rinascita ed espansione dei capitalismi europei e di quello nipponico, nonché del consenso sociale che raccolsero. Mai profitti, accumulazione reale, salari, occupazione e previdenza sociale, ebbero dinamiche così sostenute e mutualmente assai compatibili come nel quarto di secolo che va dalla fine del secondo conflitto mondiale all'annullamento di Bretton Woods di fatto proclamato dal presidente Richard Nixon il 15 agosto del 1971. Quella data segna l'inizio della fine, assai rapida in verità, delle compatibilità keynesiane (più spesa pubblica, più occupazione, salari più alti, più domanda, più profitti, più investimenti grazie alla maggiore domanda). Non per questo però cessò di esistere il militarismo keynesiano che ricevette infatti una nuovo grande impulso durante la presidenza Reagan. Tuttavia fu proprio negli anni ottanta che le espansioni classicamente militar keynesiane si mostrarono invece ampiamente compatibili con la caduta dei salari dando luogo all'esplosione del fenomeno dei working poor, cioè di lavoratori poveri.
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Debito pubblico. Perché e come si può non pagarlo
Contropiano intervista Luciano Vasapollo
Il non pagamento del debito pubblico e la fuoriuscita dall’Eurozona non sono più proposte velleitarie, ma possono diventare soluzioni da percorrere. In un libro di prossimo uscita – “Il Risveglio dei maiali”, edizioni Jaca Book – tre economisti marxisti, Arriola, Martufi, Vasapollo, analizzano la crisi in corso, le micidiali conseguenze sui paesi Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna) dell’Unione Europea e le possibile proposte per non essere annientati dalla macelleria sociale imposta dalla Banca Centrale Europea e dal governo unico delle banche che sta determinando le sorti dei lavoratori, giovani, disoccupati, pensionati nel nostro e negli altri paesi europei
Abbiamo rivolto alcune domande a Luciano Vasapollo, uno degli autori del libro.
Tra i movimenti sociali e i sindacati di base del nostro paese, sta emergendo la parola d’ordine del “non pagamento del debito”. A tuo avviso è una campagna un po’ velleitaria o una soluzione che può diventare realista? Chi verrebbe danneggiato e chi avvantaggiato da un congelamento o una moratoria del pagamento del debito pubblico italiano?
Non chiediamo certo il non pagamento del debito pubblico in mano alle famiglie, che ad esempio rappresenta in Italia solo il 14% del totale. La moratoria richiesta è nel pagamento del debito pubblico interno ed estero in mano alle banche, finanziarie, assicurazioni, grandi fondi pensione ed investimento. Cerchiamo di capire perché e come.
Il passaggio dall’Europa finanziaria ed economica alla costruzione politica dello Stato sovranazionale europeo, crea un terrorismo massmediatico attraverso un vero e proprio attacco politico e speculativo dei mercati finanziari internazionali per screditare il ruolo degli Stati-Nazione. E’ così che il debito pubblico si trasforma in debito sovrano.
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Lavorare senza saperlo: il capolavoro del capitale
Carlo Formenti
Nel 1961 nasce «Quaderni Rossi», una rivista destinata ad agitare le acque stagnanti del marxismo italiano, impelagato in una stucchevole ortodossia teorica (cui faceva da paradossale controcanto il pragmatismo «revisionista» del Pci). Vi scrivono autori come Mario Tronti, Raniero Panzieri, Vittorio Rieser e Antonio Negri, i quali propongono un'inedita reinterpretazione delle pagine più «visionarie» di Marx: il ciclo capitalistico non è governato dalle leggi «oggettive» dell'economia ma rispecchia il continuo sforzo di «adattamento» del capitale ai comportamenti soggettivi del lavoro. Il contributo fondamentale di questa eresia «operaista» (come verrà battezzata) consiste nell'avere recuperato il punto di vista della «critica dell'economia politica», vale a dire dell'unica prospettiva in grado di smascherare la natura ideologica della «scienza» economica, mettendo in luce i rapporti di forza fra le classi sociali che si celano dietro le sue presunte verità oggettive.
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La morte definitiva (e la prossima vita) di Keynes
James K. Galbraith
Trascrizione, con il gentile permesso dell’autore, del discorso di apertura di James K. Galbraith al quindicesimo congresso annuale “Dijon” sull’economia post-keynesiana, alla Roskilde University presso Copenhagen, Danimarca, il 13 maggio 2011.
È per me ovviamente un grande privilegio essere qui in questo ruolo e specialmente in occasione del settantacinquesimo anniversario della pubblicazione della Teoria Generale.
Due anni fa, come forse ricorderete, la nostra professione godette di un momento di fermento. Economisti che si erano costruiti la carriera sull’attenzione all’inflazione, le aspettative razionali, gli agenti rappresentativi, le ipotesi di efficienza dei mercati, i modelli dinamico-stocastici di equilibrio generale, le virtù della deregolamentazione e delle privatizzazioni e della Grande Moderazione, furono costretti dagli eventi a tacere temporaneamente. Il fatto di aver avuto torto in modo assurdo, cospicuo e in alcuni casi addirittura riconosciuto, impose persino un po’ di umiltà ad alcuni. Un intellettuale statunitense di vertice in politica legale, compagno di viaggio della Scuola di Chicago, annunciò la sua conversione al keynesismo come se fosse una notizia.
L’apogeo di tale momento fu la pubblicazione sull’edizione domenicale del New York Times del saggio di Paul Krugman ‘Come gli economisti si sono sbagliati’. E in esso, ho notato, Krugman ha ammesso, cito, che:
“… alcuni economisti hanno contestato l’assunto del comportamento razionale, messo in discussione il credo che ci si possa fidare dei mercati finanziari e additato la lunga storia di crisi finanziarie che hanno avuto conseguenze economiche devastanti. Ma nuotavano controcorrente, incapaci di fare molti passi in avanti contro una pervasiva e, in retrospettiva, stupida compiacenza.”
E devo dire, guardando a questo uditorio, che sarebbe corretto essi sono stati più che soltanto alcuni ed è un piacere essere con voi.
Attenendosi alla prassi convenzionale, Krugman non ha fatto il nome di quasi nessuno. Perciò, in un saggio di risposta intitolato ‘Chi erano, comunque, quegli economisti?’ ho descritto il lavoro dimenticato, ignorato e negato della seconda e terza generazione largamente nella tradizione, anche se non interamente, di Keynes che l’ha detta giusta.
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Forum su Maurizio Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato.
Saggio sulla condizione neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013 (216 p.)
Federico Chicchi, Stefano Lucarelli, Sandro Mezzadra
Domanda: Ne Il governo dell’uomo indebitato (2013) – ma ancor più, in effetti, nel precedente La fabbrica dell’uomo indebitato (2012) – Maurizio Lazzarato lega l’emergere e il consolidarsi delle politiche di austerità al progressivo introiettamento di un senso di colpa legato al debito in quanto dispositivo autoritario di controllo. Prova dell’esistenza pervasiva del debito-colpa sarebbe, secondo il filosofo italiano, l’attuale onnipresenza di richiami all’auto-limitazione, alla cautela, alla circospezione dopo anni di “vita vissuta al di là delle proprie possibilità”. Ritiene che questa chiave di lettura possa risultare utile alla comprensione critica del presente – e alla sua trasformazione?
Federico Chicchi: Quello che mi convince del lavoro di Lazzarato è la descrizione che l’autore svolge, seguendo le analisi di Deleuze e Guattari, di due modalità, diciamo convergenti e complementari, di cattura e messa a valore della vita da parte del capitalismo neoliberale. Da un lato l’assoggettamento, che fabbrica ideologicamente un soggetto “adeguato” a livello morale e legale (il debitore, appunto), e dall’altro lato l’asservimento, che invece non funziona a livello individuale ma preindividuale e opera attraverso dispositivi tecnici macchinici e automatici, che poco hanno a che fare con la coscienza e la dimensione rappresentazionale e giuridica del soggetto.
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Sulla coscienza di classe nell'attuale fase del capitalismo
di Vittorio Rieser
1. Il problema e alcune risposte ideologiche
Che in questo momento la coscienza di classe del proletariato non sia particolarmente brillante ed antagonistica, è un dato del senso comune. Il problema è: per quali ragioni? Dalla risposta a questo interrogativo derivano anche previsioni e possibili indicazioni di azione.
Partiamo, estremizzandoli, da due possibili (e “classici”, perchè si sono periodicamente riproposti) “poli di risposta”:
- l’offuscamento della coscienza di classe è dovuto al fatto che le organizzazioni del movimento operaio hanno abbandonato una prospettiva di classe (è la classica ipotesi del complotto-tradimento);
- l’offuscamento della coscienza di classe è la conseguenza inevitabile dei mutamenti strutturali (e non solo strutturali) del capitalismo: che fan sì (a seconda delle interpretazioni) che “la classe non c’è più” o “si è integrata nel sistema” o “si è atomizzata” (e via sproloquiando).
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Keynesiani tradizionali e keynesiani avventizi
Giancarlo de Vivo*
Paul Samuelson alla morte di Keynes scrisse: “la Teoria Generale … è un libro scritto male, e male organizzato; qualunque non addetto ai lavori che l’abbia comperato ha sprecato i cinque scellini che ha speso … è arrogante, … abbonda in confusioni”, ma “quando alla fine uno lo capisce a fondo, la sua analisi risulta ovvia ed allo stesso tempo nuova. In breve, è un’opera di genio”. Come tale, possiamo aggiungere, rimane largamente misteriosa a molti economisti.
La pesante crisi in cui siamo immersi ha riportato alla ribalta il pensiero di Keynes, che fino all’altro ieri era trattato come un cane morto dagli economisti benpensanti. Perfino un membro del board della Banca Centrale Europea, organismo anti-keynesiano per costituzione, ha scritto che in certi casi non aver ascoltato Keynes ha dato “risultati disastrosi” (L. Bini-Smaghi, Il Sole-24 Ore, 25 febbraio). Qualche giorno dopo R. Perotti ha sostenuto (Il Sole-24 Ore, 28 febbraio) che Keynes era “uno dei grandi geni del XX secolo”. Secondo lui il grande contributo di Keynes sarebbe stato quello di “evidenziare il ruolo della spesa pubblica come strumento anticiclico”. Ma se questo fosse vero il contributo non sarebbe molto sostanzioso, e comunque nient’affatto originale: quasi 25 anni prima di Keynes, Pigou (oggetto degli strali di Keynes nella Teoria Generale) in un libro sulla disoccupazione aveva sostenuto che la spesa pubblica poteva essere efficacemente usata in funzione anti-ciclica.
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Pensioni. Perché è giusto indignarsi
di Felice Roberto Pizzuti
Il sistema previdenziale è strutturalmente in equilibrio. Il saldo tra le entrate e le prestazioni pensionistiche al netto delle ritenute fiscali è attivo per un ammontare di 27,6 miliardi
Siamo nel bel mezzo di quella che si avvia a diventare la più grave crisi economica del capitalismo e c'è chi mette al primo posto delle cose da fare una nuova riforma pensionistica in Italia. Sembrerebbe che se non si fa quest'intervento, l'Italia non reggerebbe alla «critica» dei mercati, il suo bilancio pubblico andrebbe in default e, per effetto domino, crollerebbe l'euro, l'Unione europea e l'economia mondiale. Boom! In effetti, la situazione è drammatica, ma come avrebbe detto Flaiano, non è seria. E non lo è anche per i risolini del duo Merkel-Sarkozy che certo non depongono a favore della loro levatura di statisti ma mostrano come si possa sfruttare la reputazione di barzellettiere del nostro presidente del consiglio per distogliere l'attenzione dai problemi dei sistemi bancari francese e tedesco (particolarmente esposti al ben più probabile default greco) e dai vincoli che le prossime scadenze elettorali nei loro paesi stanno esercitando nel fronteggiare la crisi.
Rimane da spiegare l'attenzione spasmodica verso il nostro sistema pensionistico che non più tardi di qualche mese fa veniva presentato come il nostro fiore all'occhiello rispetto ai ritardi e alle difficoltà di riforma incontrati da altri paesi, a cominciare dalla Francia.
La situazione del nostro sistema previdenziale, per ammissione comune, è strutturalmente in equilibrio attuariale. Tuttavia, alcuni sostengono che la fase di transizione al suo funzionamento a regime sarebbe molto lunga, il ché – si lascia intendere – determinerebbe un vulnus finanziario nel sistema e, conseguentemente, per il complessivo bilancio pubblico.
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L'economia keynestana oggi (1977)
di Lorenzo Rampa
ISEDI - Istituto Editoriale Internazionale
Su gentile segnalazione di Lino Rossi
Il successo di una teoria si misura sulla sua capacità di spiegare alcuni fatti e risolvere alcuni problemi che le teorie precedenti avevano lasciato inspiegati ed irrisolti. Da questo punto di vista quella keynesiana è stata una teoria di grande successo, in quanto ha messo a disposizione strumenti di analisi capaci di spiegare e strumenti di intervento capaci di risolvere le crisi e la disoccupazione.
Per tutti i trent'anni successivi alla pubblicazione della Teoria Generale i Governi dei paesi capitalistici riuscirono a mantenere una situazione di (quasi) piena occupazione mediante politiche keynesiane (spesa pubblica in deficit, stimolo e sostegno degli investimenti, ecc.).
Per gli economisti divenne inevitabile essere "keynesiani": anche per coloro che continuarono ad ispirarsi alla teoria neoclassicache Keynes aveva così puntigliosamente attaccato.
Probabilmente ciò è stato reso possibile, oltre che dal successo pratico delle sue raccomandazioni, anche dalla sua fiducia che, una volta ristabilita la piena occupazione, la teoria neoclassica si sarebbe di nuovo affermata "da quel punto in avanti".
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Nel lungo periodo vince ancora Keynes
di Anna Carabelli e Mario Cedrini
Le ragioni inascoltate del Keynes internazionalista, dietro l'attuale fallimento del sistema di "Bretton Woods 2". La chance dell'Europa: un federalismo per condividere
Se anche fossimo schiavi di qualche economista defunto, per usare una nota espressione della General Theory, non si tratterebbe certamente di Keynes. Ma contrariamente a quello che si potrebbe pensare, ai tempi della crisi europea e delle politiche nazionali di austerity, è soprattutto del Keynes economista e diplomatico internazionale che non siamo schiavi. Per accorgersene, è sufficiente guardare all’attuale, martoriato, sistema di Bretton Woods 2 come se fosse ciò che in realtà è, e cioè il punto d’arrivo di una storia, quella del non-sistema internazionale nato sulle ceneri dell’originario regime di Bretton Woods. Si è finito col dare per scontata la “normalità” del non-sistema (caratterizzato, come scrisse Williamson nel 1983i, dall’assenza di regole condivise sulla gestione di politiche degli stati membri che comportino ripercussioni significative all’esterno dei confini nazionali), e col fingere che quello nato nella prima metà degli anni Settanta non sia un vero e proprio sistema, sia pur innaturale e perverso. Come se la storia del paradigma del Washington Consensus non sia in realtà quella di un disastroso tentativo di ordine – imposto in particolare e inizialmente ai paesi in via di sviluppo ed emergenti – interamente impostato sulla disciplina (di mercato e degli interessi dei creditori occidentali) e sulla repressione del policy space, un ordine forte e strumentale, funzionale alla realizzazione dell’integrationist agenda portata avanti dalle istituzioni finanziarie di cooperazione sovranazionaleii.
Un ordine che a Keynes non sarebbe piaciuto, per usare un eufemismo. Perché l’intera carriera del Keynes internazionalistico, da Indian Currency and Finance (1913) ai piani per Bretton Woods, è da leggersi come la ricerca di un compromesso sostenibile tra le esigenze disciplinari del sistema e quelle autonomistiche degli stati membri (un vero e proprio “dilemma”, come Keynes lo definì nel Treatise on Money del 1930)iii.
Se fino al Treatise on Money Keynes si era principalmente dedicato al punto di vista del sistema, dai primi anni Trenta in poi sarà l’autonomia di policy nazionale (la “twice-blessed policy” della General Theoryiv, ovvero l’autonomia nazionale nella definizione del tasso d’interesse e del foreign lending) a ispirare i suoi piani di riforma.
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2012: attacco al Welfare
di Vladimiro Giacchè
È almeno dal maggio del 2010 – allorché la crisi greca, pessimamente gestita dall’establishment europeo, esplose con virulenza – che lo Stato, e in particolare i suoi servizi sociali e le sue prestazioni assistenziali e previdenziali, hanno preso il posto di banche e speculatori sul banco degli accusati per l’attuale crisi. Grazie ad un vero e proprio coro dei principali mezzi d’informazione.
Il Washington Post espresse già allora con ammirevole chiarezza il concetto fondamentale: “Quanto stiamo vedendo in Grecia è la spirale della morte del welfare state. … Ogni nazione avanzata, inclusi gli Stati Uniti, deve affrontare la stessa prospettiva… I problemi sorgono da tutte le prestazioni assistenziali (indennità di disoccupazione, assistenza agli anziani, assicurazioni sanitarie) oggi garantite dagli Stati”. Ma il necrologio dello stato sociale letterariamente più ispirato uscì il 15 maggio sul Sole 24 Ore, a firma di Alberto Orioli. La sua premessa: “il welfare state del Vecchio continente si scopre vecchio come la sua patria. E insostenibile”. La sua conclusione: va messo in gioco “il costoso sistema di protezione sociale pubblica (che ormai aveva incluso anche la gestione dei posti di lavoro statali) che ha incarnato per quasi due secoli l’anima stessa del modello economico continentale. Pubblici dipendenti, pensionati e pensionandi da antichi referenti di un’Europa politica costruita tra un perenne compromesso tra stato e mercato e tra individuo e società si sfarinano di fronte ai colpi della crisi finanziaria che rischia di diventare crisi di moneta e poi crisi di nazioni”. Ovviamente i “pubblici dipendenti, pensionati e pensionandi” che “si sfarinano” sono una licenza poetica e grammaticale, ma l’espressione rende comunque abbastanza bene l’idea di quanto sta accadendo un po’ ovunque a causa dei “pacchetti anti-crisi” varati da praticamente da tutti i governi europei.
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In morte della capacità critica
Il coronavirus, lo stato d’eccezione e la recessione economica (che già bussava nel 2019)
di Ludovico Lamar
Parte prima: Covid-19, statistiche e Sanità. Parte seconda: Media, scienza e stato d’eccezione. Parte terza: Complottismo, economia e prossimo futuro. Conclusioni (provvisorie)
Qua Giordano nomina liberamente, dona il proprio nome
a chi la natura dona il proprio essere; non dice vergognoso
quel che fa degno la natura; non cuopre quel ch’ella mostra
aperto; chiama il pane, pane; il vino, vino; il capo, capo; il piede, piede.
(Giordano Bruno, Spaccio de la Bestia trionfante)
Premessa
L’articolo che segue tratta principalmente dell’epidemia di coronavirus, dei suoi risvolti politici e della situazione economica mondiale dal 2019 ad oggi. Data la situazione eccezionale che stiamo vivendo fra pandemia, misure politiche da stato d’eccezione e un crollo economico di grande portata ci è sembrato necessario analizzare in modo diffuso vari aspetti di tutto ciò, cercando di spiegare come mai in alcuni Stati, fra cui l’Italia, si siano prese certe misure pur nella consapevolezza che la crisi economica che vedremo provocherà probabilmente più morti della stessa pandemia. In modo inedito nella storia è stata fermata l’economia in alcuni Paesi come l’Italia, provocando crolli borsistici peggiori nel primo mese a quello addirittura del primo mese del grande crack del 1929. Fra gli economisti circolano varie teorie: un crollo peggiore del 1929, un crollo similare a quello dell’Unione Sovietica, una recessione a cui poi seguirà un grande rimbalzo, ecc.
Il presente lavoro è diviso in tre parti, più una conclusione: ognuna delle tre parti è leggibile isolatamente e arriva comunque a delle conclusioni inerenti all’argomento trattato.
La prima parte tratta specificatamente della questione del coronavirus, in particolare dai seguenti punti di vista: le posizioni in merito dei vari virologi; l’analisi delle statistiche date dai media; il confronto fra l’attuale diffusione del coronavirus con altre pandemie del passato; i morti in Italia per altre patologie (come l’influenza, le infezioni da batteri non curabili con antibiotici, l’inquinamento, ecc.); la pessima situazione in cui si trova il sistema sanitario nazionale in Italia.
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Marx e Keynes, per non banalizzare le forme dei conflitti di classe
Giovanni Mazzetti
Può chi si schiera a favore della classe lavoratrice determinare un corto circuito tale da ostacolare lo stesso processo di emancipazione per cui si batte? Purtroppo sì. Come ripete insistentemente Marx, prendendosela con le lotte fallimentari dei suoi contemporanei, una cosa è essere depositari della volontà di cambiare le cose, un’altra è aver sviluppato la capacità di farlo
Nel corso del ristagno quarantennale che stiamo attraversando il movimento ha ignorato questa differenza essenziale, commettendo un errore del tutto analogo a quello dei precedenti rivolgimenti storici. Marx definisce questo errore come un processo di “naturalizzazione” della propria condizione e dei propri bisogni. E’ evidente, infatti, che se nei bisogni che si cerca di soddisfare non c’è alcun problema, e cioè se le condizioni e il significato della loro soddisfazione sono immediatamente intelligibili, la volontà così com’è appare senz’altro un forza adeguata al perseguimento dello scopo. Uno sa quello che vuole e come può ottenerlo, cosicché tutto si riduce ad un “fare” corrispondente, e se le cose non vengono fatte ciò accade per la mancanza di “una volontà politica” di agire. Se invece lo stesso prender corpo del bisogno e le implicazioni della sua eventuale soddisfazione non sono immediatamente trasparenti, perché conseguenza di svolgimenti contraddittori dello sviluppo, che hanno fatto emergere condizioni nuove, che bisogna ancora imparare a metabolizzare, tutto cambia. Come sottolinea Marx nella III tesi su Feuerbach, la modificazione delle circostanze, che si vuole realizzare per soddisfare il bisogno, “coincide”, in questo caso, con un processo di autotrasformazione dell’individualità sociale che solo se interviene può renderla realizzabile.
Il senso comune contro la storia
A partire dalla metà degli anni Settanta è iniziato un processo di logoramento di un potere dei lavoratori che, nei due decenni precedenti, era scaturito dalle lotte di classe (che si concretizzava nel pieno impiego, in salari elevati e in condizioni di lavoro ragionevoli).
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Vaccini Covid e il paradosso del calabrone
di Leopoldo Salmaso*
Secondo alcuni ingegneri aeronautici il bombo non può volare, però il bombo non legge le loro pubblicazioni e vola lo stesso.
Secondo Pfizer & C. il ‘vaccino’ a RNA messaggero non può modificare il genoma, però il ‘vaccino’ non legge i comunicati di Pfizer e…
Anzitutto alcune precisazioni:
P1. Il proverbiale calabrone non è un calabrone ma un bombo (Bombus terrestris) su cui un secolo fa Antoine Magnan e altri (1) scrissero che non poteva volare in base ai loro studi di aerodinamica.
P2. Il paradosso non è un paradosso, tanto che Magnan dovette correggere i propri studi invece che ‘correggere’ i bombi.
P3. il cosiddetto ‘paradosso del calabrone’ è diventato proverbiale per indicare la presunzione di tanti ‘apprendisti stregoni’ che pretendono piegare la Natura alla loro visione ultra semplificata della realtà.
Con tali premesse, mi propongo di illustrare perché e come un vaccino a mRNA si può comportare come i bombi, ignorando i comunicati Pfizer.
Per sviluppare il contraddittorio, propongo al lettore di proseguire con una fiction processuale:
A (Avvocato accusatore): Chiamo a deporre il dottor Leopoldo Salmaso… Dottore, dica brevemente le sue qualifiche, in particolare per farci capire la sua posizione riguardo ai vaccini.
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Manuel Castells
di Benedetto Vecchi
Intervista con il teorico spagnolo che ha studiato l'«Età dell'informazione». I tentativi di mettere sotto controllo Internet e i mezzi di informazione derivano dal fatto che i conflitti politici volti a definire i rapporti di forza nella società sono diventati sempre più conflitti mediatici
Manuel Castells è uno studioso tanto rigoroso, quanto riottoso a concedere interviste. Preferisce che le sue analisi e riflessioni possono essere ponderate da chi le legge e che vengano misurate sulla «lunga durata» dei fenomeni che studia. La sua trilogia sull'Era dell'informazione (Università Bocconi editore) ha avuto una lunga gestazione - dieci anni - e Castells si è sempre sottratto a chi gli chiedeva se fosse una analisi sul capitalismo digitale, perché ritiene che il «cambio di paradigma» che ha cercato di delineare non riguardava un tipo particolare di società, bensì la concezione stessa di società. Al punto che il terzo volume era interamente dedicato a quelle realtà - la Russia post-sovietica e la Cina post-maoista - che lo studioso catalano ha sempre considerato né socialiste, né capitaliste.
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Contro il "politicamente corretto"
di Costanzo Preve
Riteniamo utile pubblicare un denso testo del compianto Costanzo Preve pubblicato nel 2010 dall'editrice Petite Plaisance. Il saggio comparve con questo titolo: «Elementi di Politicamente Corretto. Studio preliminare su di un fenomeno ideologico destinato a diventare in futuro sempre più invasivo e importante».
Preve aveva visto giusto.
Il "politicamente corretto", nato in certa sinistra liberal nordamericana, è diventato la neolingua ufficiale, quindi prescrittiva, degli oratores (clero) e degli apologeti della modernizzazione capitalistica. Si prescrive infatti non solo come dire e nominare le cose, ma quali cose non si debbono né nominare né dire, pena la scomunica, l'interdizione dal dibattito pubblico.
Lasciamo alla lettura i nostri lettori.
* * *
1. La teoria marxiana dei modi produzione, e del modo di produzione capitalistico in particolare, è generalmente intesa in forma spaziale-topologica, e cioè con un sopra e con un sotto.
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Dove va il welfare italiano
Francesco Ciafaloni
Il sistema pensionistico è quello che determina la vita e la morte delle persone. Si tratta insomma del più rilevante tra i temi politici. Andrebbe affrontato con rispetto e cautela e non con il disprezzo e la superficialità delle discussioni attuali
Si discute di bilanci e di sviluppo, di tagli ai servizi e all'assistenza, di sostenibilità del sistema pensionistico, di linee sindacali. Ci sono però aspetti demografici, pensionistici, assicurativi che saranno certo notissimi ai potenti che decideranno realmente chi colpire e chi difendere, e come, e in che prospettiva agire, ma che mi sembrano assenti dalla discussione pubblica.
Tendenze demografiche e loro conseguenze
Tutti parlano dell’allungamento dell’attesa di vita e della necessità di ritardare l’età della pensione per rendere il sistema sostenibile. In genere si replica, giustamente, che bisogna guardare alla lunghezza della vita in buona salute e che, soprattutto per i lavori manuali, dopo i 50 nessuno ti assume più e che alzare l’età di pensione non vuol dire far lavorare più a lungo ma solo pagare più tardi. Ma le cose non stanno proprio così.
È facile scoprire dai siti Istat e Inps che l’attesa di vita delle donne da cinque anni è sostanzialmente ferma: è diminuita per qualche anno, poi è aumentata di nuovo, oltre i livelli precedenti, ma, tendenzialmente, non cresce più. Certo, l’attesa di vita dei vecchi e dei grandi vecchi, oltre i 65 e oltre i 75, è alta. Ma, quelli, in pensione ci sono già, e ci sarebbero anche nell’ipotesi di allungamento.
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Pensioni: una bomba sociale pronta a esplodere
di Felice Roberto Pizzuti
- Introduzione: la "bomba sociale"
Oramai da molti anni, nel nostro sistema previdenziale sta maturando una vera e propria “bomba sociale” che va affrontata con urgenza[1]. Le sue origini affondano nella combinazione dei cambiamenti intervenuti nel mercato del lavoro e nel sistema previdenziale a partire dagli anni ’90 e, in particolare, con il passaggio dal metodo retributivo a quello contributivo per il calcolo delle pensioni.
Il metodo contributivo, in primo luogo, ha irrigidito il funzionamento del sistema pensionistico: lo ha ancorato alla logica dell’equilibrio attuariale, ma a discapito dell’equità previdenziale; ha uguagliato i tassi di rendimento interni, ma riducendo fortemente le possibilità redistributive. In secondo luogo, da un lato, ha stabilizzato la spesa e, anzi, tende a ridurne l’incidenza sul PIL; d’altro lato, a ciascuna generazione ripropone con più forza per la vecchiaia la stessa distribuzione dei redditi della vita attiva. Non da ultimo, ostacola la possibilità di adattamenti micro e macro delle prestazioni pensionistiche alle condizioni economico-sociali correnti.
A quest’ultimo riguardo, va ricordato che i sistemi pensionistici – pubblici o privati, a capitalizzazione o a ripartizione – pur con diversa trasparenza, svolgono la funzione di redistribuire parte del reddito correntemente prodotto dalle generazioni attive a quelle anziane contemporanee.[2]
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La nuova generazione
di Andrea Fumagalli
Terziario avanzato e lavoro autonomo
Che il mercato del lavoro sia in ebollizione è cosa nota. Non siamo più nei tempi in cui la stabilità del lavoro rappresentava una delle poche certezze della vita. Tuttavia, l’implosione della fabbrica fordista, con il suo carico di gerarchia, comando, subordinazione e alienazione, non ha liberato potenzialità e opportunità di vita migliori. Anzi. Venendo meno la differenza tra tempo di vita e tempo di lavoro, più che liberare la vita, ha fatto sì che essa sia stata sempre più sottomessa al ricatto del lavoro.
Tutto è cominciato alla fine degli anni Settanta, quando le prime strategie di delocalizzazione (outsourcing) e di snellimento della grande fabbrica (downsizing) hanno scomposto l’organizzazione rigida dei siti industriali, prevalentemente situati nel nord-ovest del paese. Nuove filiere produttive si sono evolute in direzione est e sud-est. L’asse pedemontano che da Milano arriva a Trieste, passando per Bergamo Brescia, Verona, Treviso, Udine è diventato uno dei centri della produzione manifatturiera italiana. Parimenti, lungo la via Emilia, verso Bologna e lungo la dorsale adriatica, si è espanso un modello di industrializzazione diffusa, eminentemente metalmeccanico, specializzato nei rapporti di subfornitura con le grandi imprese internazionali.
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La crisi, Keynes, la decrescita
Giorgio Lunghini
Proibire la guerra e ogni strumento bellico, cambiare radicalmente stile di vita, evitare sprechi energetici, rinunciare a mode e prodotti inutili. Siamo pronti a diventare keynesiani?
Sul manifesto sono frequenti scritti che a fronte della crisi evocano la questione dell'ambiente e dei beni comuni, che come via di uscita invocano la teoria della decrescita, e per i quali Keynes non basta più. Hanno ragione tutti, salvo che su un punto: Keynes non è mai servito, se non come alibi abusivo per forme di keynesismo bastardo o criminale, forse perché il capitalismo non vuole essere migliorato, e per ragioni che aveva ben chiare Kalecki: «Ogni allargamento dell'ambito dell'attività economica dello Stato è visto con sospetto dai capitalisti; ma l'accrescimento dell'occupazione tramite le spese statali ha un aspetto particolare che rende la loro opposizione particolarmente intensa. Nel sistema del laissez faire il livello dell'occupazione dipende in larga misura dalla così detta atmosfera di fiducia. Quando questa si deteriora, gli investimenti si riducono, cosa che porta a un declino della produzione e dell'occupazione (direttamente, o indirettamente, tramite l'effetto di una riduzione dei redditi sul consumo e sugli investimenti). Questo assicura ai capitalisti un controllo automatico sulla politica governativa. Il governo deve evitare tutto quello che può turbare l' "atmosfera di fiducia", in quanto ciò può produrre una crisi economica. Ma una volta che il governo abbia imparato ad accrescere artificialmente l'occupazione tramite le proprie spese, allora tale "apparato di controllo" perde la sua efficacia. Anche per questo il deficit del bilancio, necessario per condurre l'intervento statale, deve venir considerato come pericoloso. La funzione sociale della dottrina della "finanza sana" si fonda sulla dipendenza del livello dell'occupazione dalla "atmosfera di fiducia"».
Infatti Luigi Einaudi, oggi molto di moda, pensava che Keynes fosse un bolscevico. Tuttavia la questione dell'ambiente - ma sarebbe meglio dire: della natura - era ben presente allo stesso Keynes e a un altro autore meno noto ma qui particolarmente autorevole: Georgescu-Rögen; tutti e due autori consapevoli delle premesse tecniche e politiche di un rapporto non disastroso tra capitalismo e natura. Di Keynes ricordo soltanto un passo: «Il secolo XIX aveva esagerato sino alla stravaganza quel criterio che si può chiamare brevemente del tornaconto finanziario quale segno della opportunità di una azione qualsiasi, di iniziativa privata o collettiva.
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Assalto all’universalismo
Nerina Dirindin e Gavino Maciocco
Quello che sta accadendo in Gran Bretagna può insegnare qualcosa al resto dell’Europa? E all’Italia? Dove Il quadro è estremamente preoccupante. La crisi economico-finanziaria sta imponendo al nostro welfare revisioni e ridimensionamenti che rischiano di andare oltre il pur necessario contenimento delle inefficienze e il doveroso contributo al risanamento della finanza pubblica.
È possibile che la Gran Bretagna, la culla del welfare state, sia teatro di un assalto senza precedenti all’universalismo?
Per rispondere a questa domanda – si legge in un recente articolo del BMJ [1] - è necessario tornare indietro agli anni 40, quando in Gran Bretagna fa istituito un robusto sistema di welfare universalistico, quello che partorì il Servizio Sanitario Nazionale. Il suo ideatore, Sir William Beveridge, era un parlamentare liberale, ma il progetto fu attuato dal Partito Laburista e continuato dal Partito Conservatore. Le ragioni di un così ampio consenso sono numerose ma la più importante è quella di aver fornito alla gente comune la sicurezza nel caso che il mondo intorno gli dovesse crollare.
C’erano buone ragioni per ricercare la sicurezza. Il popolo britannico era uscito da una guerra che aveva mostrato che chiunque, indipendentemente da quanto fosse in alto nella scala sociale, poteva in un istante trovarsi a terra. La morte e la distruzione della guerra non erano le uniche minacce; una malattia seria poteva mandare in rovina una famiglia. La guerra insegnò alla popolazione la virtù del razionamento del cibo e del combustibile, cosicché in un momento di grave carenza tutti potessero avere accesso ai beni essenziali. Tutto ciò preparò l’opinione pubblica a sostenere con convinzione un sistema di welfare che, finanziato attraverso la fiscalità generale, garantiva a tutti la sicurezza sociale.
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Dalla crisi dei mutui subprime alla grande crisi finanziaria
Francesco Macheda*
I. INTRODUZIONE
La crisi finanziaria iniziata nell’agosto 2007 scaturisce dall’interazione di tre forze: la liberalizzazione dei movimenti di capitale, la trasformazione bancaria seguita dall’innovazione finanziaria e le politiche monetarie perseguite nell’ultimo trentennio negli Stati Uniti ma non solo. L’abbondante liquidità convogliata nei mercati statunitensi in seguito alla liberalizzazione finanziaria all’indomani del crollo di Bretton Woods, da luogo a un lungo processo di deregolamentazione bancaria che sfocia nel 1999 nell’abrogazione dello Glass Steagall Act – la legislazione varata all’indomani della Grande Crisi del 1929. Il modello di banking che emerge – denominato ‘originate-to-distribuite’ – getta le basi per lo sviluppo di nuovi prodotti finanziari che, assieme alle politiche monetarie espansive adottate dalla Federal Reserve in seguito allo scoppio della bolla dei titoli tecnologici del 2000, accrescono ulteriormente la liquidità in circolazione.
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