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Lo specchio dell'imbarbarimento sociale
Lavoro autonomo e crisi economica, indagine su una realtà diffusa ma misconosciuta.
di Sergio Bologna e Andrea Fumagalli
Verso il lavoro autonomo di terza generazione
Che il mercato del lavoro sia in continua ebollizione è oramai cosa nota. Non siamo più nei tempi in cui la stabilità del rapporto di lavoro rappresentava una delle poche certezze della vita quotidiana. Tuttavia, l'implosione della fabbrica fordista, con il suo carico di gerarchia, comando, subordinazione e alienazione, non ha liberato potenzialità e opportunità di vita migliori. Anzi. Venendo meno la differenza tra tempo di vita e tempo di lavoro, più che liberare la vita dal lavoro, ha fatto sì che la vita fosse sempre più sottomessa al ricatto del lavoro. Tutto è cominciato alla fine degli anni Settanta, quando le prime strategie di delocalizzazione (outsourcing) e di snellimento della grande fabbrica (downsizing) hanno scomposto e frammentato l'organizzazione rigida dei siti industriali, prevalentemente situati nel Nord-ovest del paese. Nuove filiere produttive si sono evolute in direzione est e sud-est. L'asse pedemontano che da Milano arriva a Trieste, passando per Bergamo, Brescia, Verona, Treviso, Udine, è diventato uno dei centri della produzione manifatturiera italiana, soprattutto specializzato nei settori della minuteria metallica, dell'abbigliamento, delle calzature, ecc.
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Salari e produttività, il legame funesto
Alfredo Recanatesi
L'idea che si va diffondendo di collegare questi due fattori non è solo ingiusta, ma soprattutto è dannosa per l'economia: premia le imprese inefficienti permettendo loro di sopravvivere, riducendo la competitività del sistema nel suo insieme
Una idiozia: il termine può sembrare un po’ pesante, ma è il più appropriato per definire l’orientamento che si va diffondendo di legare in qualche modo la dinamica salariale a quella della produttività. Si potrebbe tagliar corto banalizzando la questione chiedendoci perché mai un camionista che deve perdere una intera mattinata per percorrere la statale della Val Seriana, e dunque è poco produttivo, deve essere retribuito meno di un suo collega che, viaggiando su strade più adeguate alla mole di traffico, è assai più produttivo potendo compiere nella stessa mattinata il doppio o il triplo del chilometraggio. Ma il tema è assai serio e non si esaurisce nella pur pertinente obiezione che sarebbe insensato collegare la retribuzione ad un parametro sul quale i lavoratori hanno scarsa o nulla possibilità di intervenire.
La stagnazione, o addirittura la regressione, della produttività nel sistema economico italiano è la causa per la quale il prodotto lordo non cresce da circa quindici anni. La produttività è la “resa” dei fattori della produzione in termini di valore aggiunto, sicché la sua stagnazione determina quella della ricchezza del paese e, dunque, il suo declino nei confronti dei paesi nei quali la produttività, al contrario, cresce. È facile comprendere, del resto, che se una ora di lavoro rende poco, poco potrà essere remunerato chi ha prestato quell’ora di lavoro. Il futuro del rango dell’economia italiana nel mondo e, conseguentemente, del livello di benessere nostro e dei nostri figli è quindi legato alla evoluzione della produttività. Da ciò dovrebbe discendere che obiettivo primario della politica economica dovrebbe essere un aumento della produttività di tutti i fattori della produzione a cominciare dal lavoro.
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Legare i salari alla produttività è pericoloso e poco economico
di Felice Roberto Pizzuti
L'indagine della Banca d'Italia sui redditi delle famiglie conferma la necessità di aumentare i salari, che non è solo sociale, ma anche economica; stupisce invece che sulla stampa se ne parli come fosse una novità. E' dall'inizio degli anni '90 che i salari sono pressoché esclusi dagli incrementi di produttività e a malapena hanno recuperato sull'aumento dei prezzi; nel frattempo i profitti hanno aumentato la loro quota sul reddito di oltre dieci punti.
Per aumentare i salari, oramai tra i più bassi in Europa, il governo Prodi e le parti sociali stavano ragionando sulla possibilità di utilizzare la leva fiscale; è uno strumento che certamente può concorrere all'obiettivo, ma evitando due rischi. Il primo è che l'ipotizzata riduzione delle imposte sui salari possa essere compensata da tagli alle prestazioni sociali (già proposti da più parti) cosicché la loro sostituzione con acquisti sul mercato vanificherebbe l'aumento della busta paga.
Il secondo rischio è che anche le imprese (come già hanno chiesto) partecipino agli sgravi fiscali, sia direttamente (riducendo i loro contributi) sia indirettamente (contando sugli aumenti in busta paga derivanti dalla decontribuzione dei salari per contenere gli aumenti contrattuali a loro carico).
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La Grecia sul baratro, ostaggio tedesco
di Joseph Halevi
A Berlino e Francoforte (sede della Banca centrale europea, Bce), via Bruxelles, si sta preparando per la Grecia una tragedia economica da preoccupare perfino il Financial Times al punto da chiedere una discussione pubblica su come affrontare la situazione.
Molto giustamente Martin Wolf - sulle pagine del 20 gennaio - osservava che la Grecia è il canarino nella gabbietta portata dal minatore in galleria. A mio avviso la crisi greca mostra l'insostenibilità di tutta l'architettura comunitaria elaborata a Maastricht, formalizzata nel patto di stabilità firmato a Dublino nel dicembre del 1996 e istituzionalizzata nella formazione della «zona dell'euro». In realtà il sistema non ha mai funzionato. Si è trasformato in un meccanismo vincolante per alcuni - la maggioranza dei paesi - e non per altri.
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Il bilancio in rosso della democrazia
interv. di Cosima Orsi a Duccio Cavalieri
La minaccia ai diritti politici, sociali e civili non viene solo da una attività finanziaria senza regole, ma dalla natura stessa del capitalismo, dove il potere è esercitato da chi ha più denaro Per uscire dalla crisi serve un aumento del potere d'acquisto dei salariati e lo sviluppo di settori produttivi che favoriscano la crescita dell'occupazione. In tutto il mondo sono state invece aiutate le banche, le società finanziarie e le grandi agenzie di mutui immobiliari, che hanno utilizzato a proprio esclusivo vantaggio gli aiuti ricevuti dallo Stato
La crisi è sia finanziara che «reale», ma non prospetta una fuoriuscita dal capitalismo. È piuttosto la crisi di una forma specifica di capitalismo, quello selvaggio e predatorio basato sulle rendite parassitarie e speculative.
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Quel nuovo ordine mondiale pronto a far fuori gli Usa
Mauro Bottarelli
Alla fine, le maestrine di Bruxelles hanno portato a compimento il loro compitino. Sono partite, infatti, le procedure per deficit eccessivo nei confronti dell'Italia e di altri otto Paesi Ue che sforeranno il 3% nel rapporto deficit-Pil. «In questi nove Paesi gli squilibri non sono né prossimi al valore di riferimento del 3% né temporanei», dice la Commissione Ue. In Italia si attende una ripresa «molto debole nella seconda metà del 2009 che proseguirà probabilmente in maniera lenta».
Accidenti, meno male che ce lo hanno detto! E ancora. «Il pacchetto di misure anticrisi rappresenta un'adeguata risposta alla recessione. Ma l'Italia nel 2009 avrà deficit e debito pubblico troppo elevati, a un livello che non soddisfa i criteri del Trattato Ue», si legge nella nota. Bruxelles rileva, in sintesi, che questa situazione deriva in parte dagli effetti della crisi e in parte da altri fattori strutturali, tra cui una spesa pubblica che resta elevata.
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Note introduttive per il convegno
Associazione "Politica e classe"
Il capitale percepisce ogni limite come ostacolo e lo supera idealmente se non l’ha superato nella realtà:
dato che ognuno di questi limiti è in opposizione alla dismisura inerente al capitale, la sua produzione si muove attraverso
contraddizioni costantemente superate, ma altrettanto costantemente ricreate.
Karl Marx “Grundrisse”
Una premessa
Come appare ormai a tutti evidente la questione ambientale, complessivamente intesa dai problemi del clima fino al vivere quotidiano delle popolazioni, ha assunto da alcuni decenni un carattere strategico rispetto alle possibilità di sviluppo dell’umanità, mentre i sempre più accentuati ed accelerati processi di valorizzazione del capitale amplificano una situazione che sfugge di mano alle classi dirigenti che dovrebbero guidare l’attuale sistema sociale e le relazioni economiche e produttive internazionali.
E’, infatti, palese che la contraddizione che si manifesta tra crescita economica ed ambiente naturale riveste un ruolo centrale, ma un’ analisi strutturale di questa dinamica non può avere esclusivamente una lettura che si astrae da un sistema di relazioni sociali determinato storicamente e concretamente agente cercando la motivazione dell’attuale situazione in cause antropologiche per cui una generica natura umana tende ad essere “nemica” dell’ambiente ed ad esso estranea. Il rischio che corrono queste interpretazioni è quello di dare una visione parziale e, pensando di contrastare il degrado ambientale, di occultare le cause sociali del problema assolvendo dalle responsabilità chi invece ne è la causa.
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Gaia e Ctonia
di Giorgio Agamben
I.
Nel greco classico, la terra ha due nomi, che corrispondono a due realtà distinte se non opposte: ge (o gaia) e chthon. Contrariamente a una teoria oggi diffusa, gli uomini non abitano soltanto gaia, ma hanno innanzitutto a che fare con chthon, che in alcune narrazioni mitiche assume la forma di una dea, il cui nome è Chthonìe, Ctonia. Così la teologia di Ferecide di Siro elenca all’inizio tre divinità: Zeus, Chronos e Chtonìe e aggiunge che «a Chtonìe toccò il nome di Ge, dopo che Zeus le diede in dono la terra (gen)». Anche se l’identità della dea resta indefinita, Ge è qui rispetto ad essa una figura accessoria, quasi un nome ulteriore di Chtonìe. Non meno significativo è che in Omero gli uomini siano definiti con l’aggettivo epichtonioi (ctonii, che stanno su chthon), mentre l’aggettivo epigaios o epigeios si riferisce solo alle piante e agli animali.
Il fatto è che chton e ge nominano due aspetti della terra per così dire geologicamente antitetici: chton è la faccia esterna del mondo infero, la terra dalla superficie in giù, ge è la terra dalla superficie in su, la faccia che la terra volge verso il cielo. A questa diversità stratigrafica corrisponde la difformità delle prassi e delle funzioni: chthon non è coltivabile né se ne può trarre nutrimento, sfugge all’opposizione città/campagna e non è un bene che possa essere posseduto; ge, per converso, come l’eponimo inno omerico ricorda con enfasi, «nutre tutto ciò che su è chthon» (epi chthoni) e produce i raccolti e i beni che arricchiscono gli uomini: per coloro che ge onora con la sua benevolenza, «i solchi della gleba che danno vita sono carichi di frutti, nei campi prospera il bestiame e la casa si riempie di ricchezze e essi governano con giuste leggi le città dalle belle donne» (v.9-11).
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La trasformazione dei valori in prezzi di produzione
Il capitolo IX del Terzo libro del Capitale
di Giorgio Bellucci
Materialismo Storico. Rivista semestrale di filosofia, storia e scienze umane è una pubblicazione dell'Università di Urbino con il patrocinio della Internationale Gesellschaft Hegel-Marx, n. 1 2019
I.
Sono passati più di 120 anni dall’uscita del III libro del Capitale di Marx a cura di F. Engels. Fin da subito, quel testo fu oggetto e bersaglio delle più forti critiche, da destra e da sinistra, da parte di tutte le più varie specie di economisti e filosofi, da parte di antimarxisti come da parte di marxisti eterodossi, ortodossi, rinnovatori o riformisti. Per onestà intellettuale bisogna riconoscere che una tale sequela, lunga più di un secolo, non ha eguali in letteratura né in economia.
Delle molte soluzioni che si sono tentate di dare al famoso problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione, si può discettare quale sia, o possa essere, la più vicina all’originale; nessuna però, in ogni caso, si presenta basata sui calcoli del Capitolo nono o sui ragionamenti impliciti ed espliciti dello stesso capitolo. La materia è dunque ancora incandescente e da parte degli studiosi, accademici o meno, il rischio di scottarsi è sempre alto.
Sono convinto da tempo che se anche si trovasse una soluzione logicamente coerente al problema della trasformazione, essa non sarebbe comunque considerata valida e validante ai fini dell’interpretazione della società capitalistica. Sono anzi convinto che essa scatenerebbe ulteriore livore verso l’opera di Marx. D’altronde, le continue accuse di falso che percorrono le pagine di Bortkievicz o di Steedman stanno lì a dimostrarlo. Come già avvenuto in passato, quando alcuni pezzi dell’intellettualità marxista e di quella keynesiana attribuirono addirittura a Marx e al suo esercito industriale di riserva le radici analitiche alla base delle teorie dell’inflazione legate alla curva di Philips, anche oggi la storia potrebbe ripetersi.
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Un passaggio essenziale nella teoria di Marx
di Gianfranco La Grassa
Si tratta di un brano, un semplice e solo brano delle migliaia di pagine scritte da Marx e spesso pubblicate dai suo successori, magari con aggiunte non sempre messe in evidenza nella loro non stesura (o almeno non completa e letterale) fatta proprio da lui. Ma non m’interessa nulla di tutto questo. L’importante è fissare le parti salienti di una teoria scientifica e mostrarne la rilevanza ancora attuale e, ancor più, laddove essa va rielaborata alla luce dell’esperienza storica di un secolo e mezzo! Riporto quindi un brano tratto dal III Libro de “Il Capitale”, cap. XVII.
«Trasformazione del capitalista realmente operante in semplice dirigente, amministratore di capitale altrui, e dei proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari. Anche quando i dividendi che essi ricevono comprendono l’interesse e il guadagno d’imprenditore, ossia il profitto totale (poiché lo stipendio del dirigente è o dovrebbe essere semplice salario di un certo tipo di lavoro qualificato, il cui prezzo sul mercato è regolato come quello di qualsiasi altro lavoro), questo profitto totale è intascato unicamente a titolo d’interesse, ossia un semplice indennizzo della proprietà del capitale, proprietà che ora è, nel reale processo di riproduzione, così separata dalla funzione del capitale come, nella persona del dirigente, questa funzione è separata dalla proprietà del capitale. In queste condizioni il profitto (e non più soltanto quella parte del profitto, l’interesse, che trae la sua giustificazione dal profitto di chi prende a prestito) si presenta come semplice appropriazione di plusvalore altrui, risultante dalla trasformazione dei mezzi di produzione in capitale, ossia dalla loro estraniazione rispetto ai produttori effettivi, dal loro contrapporsi come proprietà altrui a tutti gli individui REALMENTE ATTIVI NELLA PRODUZIONE, DAL DIRIGENTE ALL’ULTIMO GIORNALIERO [maiuscolo mio].
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L'affermazione della sovranità nazionale popolare di fronte all'offensiva del capitale
R. Morgantini intervista Samir Amin
Le analisi che riguardano la crisi che scuote - in modo strutturale – il sistema capitalista attuale, risultano essere di una pietosa sterilità. Menzogne mediatiche, politiche economiche anti-popolari, ondate di privatizzazioni, guerre economiche e "umanitarie", flussi migratori. Il cocktail è esplosivo, la disinformazione è totale. Le classi dominanti si fregano le mani di fronte a una situazione che permette loro di conservare e affermare la loro superiorità. Proviamo a comprendere qualcosa. Perché la crisi? Quale è la sua natura? Quali sono attualmente e quali dovrebbero essere le risposte dei popoli, delle organizzazioni e dei movimenti interessati a un mondo di pace e di giustizia sociale? Intervista con Samir Amin, economista egiziano e studioso delle relazioni di dominio (neo)coloniale, presidente del Forum mondiale delle alternative.
* * * *
Da molti decenni i tuoi scritti e le tue analisi ci consegnano elementi di analisi per decifrare il sistema capitalista, le relazioni della sovranità nord-sud e le risposte dei movimenti di resistenza dei paesi del Sud. Oggi, siamo entrati in una nuova fase della crisi sistemica capitalista. Quale è la natura di questa nuova crisi?
La crisi attuale non è una crisi finanziaria del capitalismo ma una crisi di sistema.
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Il romanzo dello sciame
di Damiano Palano
Nota su: Franco Berardi e Massimiliano Geraci, Morte ai vecchi, Baldini e Castoldi, Milano 2016
«Morte ai vecchi», il libro scritto a quatto mani con Massimiliano Geraci, non può essere considerato forse il «primo romanzo» di Franco Berardi Bifo. Ma senza dubbio questa singolare distopia, che immagina un futuro non poi così lontano dal nostro presente,condensa molte delle riflessioni dedicate da Bifo alla «mutazione» contemporanea. E proprio per questo il vero protagonista del romanzo diventa uno sciame omicida di ragazzini, perennemente intrappolati in un onnipresente alveare digitale.
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Fantasmi erotici
Al fortunato amante di piccole curiosità letterarie che si trovi a frugare tra i polverosi scaffali di qualche rigattiere, potrebbe forse capitare di imbattersi nel nome di Loris Aletti, misterioso autore di alcuni romanzetti erotici pubblicati al principio degli anni Settanta, che ben pochi oggi ricordano. Ospitate nella collana «I libri della notte» dall’editrice milanese Kermesse, le opere di Aletti sono infatti le sbiadite testimonianze di un genere dimenticato della letteratura di consumo, che fiorì improvvisamente sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso e che tramontò altrettanto rapidamente solo pochi anni dopo – quando la diffusione della pornografia di fatto chiuse ogni spazio di mercato a una produzione che allora si definiva «erotica» – senza lasciare traccia nelle biblioteche, nei repertori bibliografici e forse anche nella memoria collettiva.
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L'Europa delle banche, Saccomanni e le Supply Side Policies UE
di Quarantotto
Dunque riassumiamo. Imposta in Europa, di sicuro in Italia, la dottrina delle banche centrali indipendenti, un "gruppo di banchieri" si chiude in una stanza e tira fuori Maastricht.
Cioè (a tacere del resto, che conta però molto meno se conservi la sovranità monetaria e quindi quella fiscale), un'area valutaria (non)ottimale in cui il potere di mettere moneta, per gli Stati aderenti, apparteniene ad una banca centrale indipendente, non correlata ad alcun governo fiscale dell'area stessa. E quindi una moneta unica affidata esclusivamente alle determinazioni di tale banca indipendente circa i tassi e le operazioni sulla liquidità: il tutto, con certezza, nell'ambito di una politica monetaria "credibile" nel senso predicato dai Lucas e dai Sargent, che cioè fosse esclusivamente (nel tempo ciò ha superato per default ogni altro dato normativo dei trattati), volta a garantire la stabilità dei prezzi, cioè a combattere l'inflazione. Convinti che ciò portasse al costante riequilibrio dei mercati in base alla legge della domanda e dell'offerta, garantendo il livello "naturale" di piena occupazione.
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Progresso, fede e censura nell’analisi politica della sinistra italiana
di Giulio Gisondi
Due tratti che caratterizzano l’analisi e la retorica dell’odierno militante di sinistra e del campo della sinistra italiana sono racchiusi in una forma di fede, spesso inconscia e profonda, nell’ideologia liberal-liberista di individuo, di società, di politica ed economia, accompagnata a una forma di censura di ogni critica che mini la struttura teorica e materiale di quel modello. Come se esistesse uno spazio di legittimità dell’analisi e del discorso politico, come se vi fosse un limite a ciò che può essere sottoposto a riflessione e discusso al suo interno.
1. Progresso
Ma di quale sinistra parliamo? Se ci riferissimo al solo posizionamento parlamentare, potremmo definire sinistra quello spazio politico compreso tra Liberi e Uguali nelle sue varie declinazioni, Articolo Uno, Sinistra Italiana e Possibile, e le diverse correnti del Partito Democratico. Né più né meno di quello che dal 1996, sotto diverse forme e con l’aggiunta di Rifondazione Comunista, ha composto la variegata coalizione dell’Ulivo, poi rinnovatasi nel 2005 con l’Unione. A queste, molte altre realtà si affiancano, tra partiti e associazioni extraparlamentari o della cosiddetta sinistra radicale. A questa definizione possiamo aggiungerne una seconda, che, nonostante le differenze di posizionamento, si esprime in una stessa distorta idea di progresso, marcatamente liberal-liberista. Una religione del progresso che riconosce una forma di modernità nel superamento e nello svuotamento della sovranità popolare e costituzionale, nel nomadismo obbligato e indotto degli individui e di interi popoli, in una libertà civile slegata da ogni aggancio ai diritti sociali. In altre parole, l’idea che il mondo globalizzato incarni una realtà in cui tutto va necessariamente meglio di ieri: «una certezza così profondamente radicata nell’inconscio dell’uomo di sinistra che», come ha osservato Jean-Claude Michéa, «costituisce una vera e propria forma a priori del suo modo di pensare e alla quale egli non potrà rinunciare senza rinunciare a sé stesso»[i].
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Dovremo diventare grillisti?
Cesare Allara
Prendo spunto dalla domanda che mi rivolge Gigi Viglino in merito al bel comunicato di Beppe Grillo sugli scontri di Roma (Soldato blu …) nel giorno dello sciopero europeo, “Quasi mi spiace, ma devo prendere atto. Onore al merito. Com'è? Dovremo diventare grillisti?”, per chiarire il mio pensiero sulla fase politica che stiamo attraversando. Viviamo una fase del capitalismo in cui tre pilastri della “tavola dei valori” che hanno caratterizzato buona parte della seconda metà del Novecento, la democrazia, il lavoro, il welfare, sono in uno stadio avanzato di demolizione.
Come la propaganda del regime di centrodestra/centrosinistra racconta quotidianamente a mass-media unificati, questi tre elementi non sono più sopportabili nelle forme in cui li abbiamo sin qui conosciuti perché per troppi anni abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità economiche e democratiche: per ricominciare a crescere per uscire dalla crisi occorre tagliare la spesa pubblica, non quella destinata alle grandi opere inutili, ma cancellando a poco a poco lo stato sociale. Se vogliamo diventare attraenti per gli investitori internazionali e “tornare a crescere” occorre modificare in senso liberista i capisaldi della Costituzione. Se poi vogliamo un lavoro di merda con relativo salario della stessa materia non dobbiamo essere schizzinosi e dobbiamo rinunciare ai diritti acquisiti. Compresi i diritti previsti dalla Costituzione, peraltro già da tempo largamente superati con il consenso dei governi di centrodestra/centrosinistra e col vivo e vibrante sostegno di questo presidente della repubblica.
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Uscire dall'euro, una scorciatoia*
Marco Bertorello e Danilo Corradi
La crisi dell'Euro trascina con sé una molteplicità di problemi e potenziali soluzioni. L'economia politica condotta a livello continentale svela tutte le sue contraddizioni, facendo precipitare il contesto e rendendo urgenti scelte di cambiamento radicale. Alla crisi ha corrisposto il riemergere di un'opzione nazionale, che viene interpretata come una prospettiva adeguata ai problemi che abbiamo di fronte. Il rischio è che l'opposizione al rigore e all'austerità slitti verso un progetto di ripiegamento statual-nazionale che non fa i conti con i problemi di ordine globale, rinviando un approccio sistemico e fondamentalmente alternativo. In ogni caso il punto di partenza è rappresentato dal caso greco.
La Grecia esce oppure è fuori?
In un recente interventoEmiliano Brancaccio dava come chiave di lettura della sconfitta di Syriza la sua posizione «palesemente contraddittoria» nel chiedere una rinegoziazione del famoso memorandum, senza affrontare in maniera esplicita le possibili conseguenze derivanti da un eventuale fallimento di tale richiesta. É possibile che Syriza sia stata reticente nel ragionare in dettaglio sulle conseguenze derivanti da una risposta negativa della Troika, ma era piuttosto chiaro che le conseguenze di una chiusura della trattativa avrebbero condotto alla ristrutturazione unilaterale del debito da parte della Grecia. L'atteggiamento di Syriza, dunque, è stato tattico, dato che erano gli avversari a denunciare pesantemente il suo presunto profilo anti-europeista, ma non si può dire che non agitasse l'unico potere di contrattazione di cui disponeva la Grecia: il suo debito e persino la libertà di circolazione di capitali e merci sul proprio territorio. La pesantezza con cui è stata affrontata la campagna elettorale in Grecia, anche con bordate dal resto del continente, è stata all'insegna dell'isteria euro-si euro-no, come se vi fosse stato un referendum sulla moneta unica, piuttosto che su come uscire dalla crisi europea in generale e nello specifico dei suoi debiti sovrani.
La critica di Brancaccio, seppur fondata, appare un po' ingenerosa. Indubbiamente la ristrutturazione unilaterale del debito pubblico greco avrebbe potuto implicare l'abbandono della moneta unica.
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Attacco al sistema!
Dream Theater
L’Euro è sotto assedio. Ed i motivi della speculazione sono sotto gli occhi di tutti. Come possiamo negare l’evidenza ed accettare ancora una volta l’ennesima truffa montata dal sistema parassita che sta speculando alle nostre spalle?
Hedge fund, credit default swap e rating: lo scandalo continua
Ormai credo sia noto a tutti il fatto che contro l’Euro ci sia una presa di posizione violenta da parte della speculazione. Ma quanto sta uscendo fuori in questi giorni è la drammatica conferma di tutto quanto noi temavamo da tempo.
Ma andiamo con ordine, e riportiamo i fatti, indiscutibili e testimoni di quanto è accaduto.
Giorno 15 febbraio. Su IntermarketAndMore pubblico un post. Ma non un articolo come molti altri.
L’articolo era questo: si intitolava “Mercato incerto ma l’Euro ha la strada segnata”.
Un titolo come tanti altri, forse un po’ troppo retorico? Non proprio, perché poi, nell’articolo giustifico questa mia definizione. E la giustifico con questa frase: “La pressione è fortemente speculativa contro l’Euro".
Ma non solo. Riporto anche un grafico dove vengono rappresentati gli short speculativi.
Nell’aria c’era puzza di bruciato. Qualcosa evidentemente non funzionava. Mai si erano visti certi attacchi contro la moneta unica.
Oggi, dopo tanti mesi si viene a scoprire la verità.
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La verità messa in scena
di Vladimiro Giacché
Giornali e televisioni ci offrono quotidianamente un'ampia fenomenologia della menzogna. La verità viene attaccata, negata e contraddetta nei modi più diversi. Può venire mutilata (come quando si parla delle foibe tacendo i precedenti crimini di guerra commessi dall'esercito italiano in Jugoslavia) o semplicemente rimossa, può venire capovolta o essere semplicemente imbellettata facendo uso di definizioni che distorcono il significato degli eventi (come quando si definisce la guerra "operazione di polizia internazionale"). Tutte queste modalità di negazione della verità sono importanti. Ma forse è la verità messa in scena quella che meglio esprime il nostro tempo.
Un tempo le verità inconfessabili del potere potevano agevolmente essere coperte dal segreto (gli arcana imperii). Oggi, nell'epoca dei mezzi di comunicazione di massa e della politica mediatizzata, il silenzio e il segreto sono armi spuntate.
Perciò, quando serve (e serve sempre più spesso), la verità deve essere occultata o neutralizzata in altro modo. In particolare sostituendo una realtà virtuale a quella reale: offrendo versioni di comodo dei fatti, dando il massimo rilievo a questioni di scarsa importanza (così da distrarre l'attenzione dai problemi reali), inventando pericoli e nemici inesistenti per eludere quelli veri.
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La finanziaria incolore di un governo incolore
di Andrea Fumagalli
Note sul Def 2019 provando a dire “qualcosa di sinistra”
Il 30 settembre scorso il governo giallo-rosa Conte 2 ha presentato la Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanzia 2020 (NaDef). Dopo mesi di dibattiti, di illazioni e di disinformazioni, abbiamo ora alcuni elementi di analisi, anche se ancora molto incompleti e generici.
La nuova compagine di governo non intende mettere in discussione la necessità di mantenere un certo rigore nei conti pubblici, in linea con i mandati europei, nonostante l’invito di Mattarella a rimodulare in senso più espansivo i parametri di stabilità. L’accoglimento più che positivo del nuovo governo da parte dell’oligarchia finanziaria e della tecnocrazia europea lo conferma. Spread in ribasso e borse in discesa nel periodo della sua formazione evidenziano questa nuova stagione, che, in realtà, tanto nuova non è. Occorre infatti ricordare che il governo precedente di matrice salviniana si pose in attrito con “i diktat europei” solo a parole.
Il faticoso parto della legge di stabilità dello scorso anno non ha portato alcuna inversione di rotta nelle politiche di austerity. L’innalzamento del rapporto deficit/Pil dall’1,7% (promesso da Renzi) al 2% è costato l’inasprimento della clausola di salvaguardia per evitare l’automatico aumento dell’Iva, che è quasi raddoppiata sino a 23,1 miliardi. A ciò si è poi aggiunta la manovrina di aggiustamento pre-estiva per evitare la procedura di infrazione di circa 5 miliardi di euro. Altro che cambio di rotta! Siamo nei fatti sulla stessa lunghezza d’onda dei governi precedenti Monti-Letta-Renzi-Gentiloni.
La stesura della nuova legge di stabilità parte quindi con una spada di Damocle di notevoli proporzioni, non ineludibile.
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I limiti interni del capitale
R. Hutter intervista Ernst Lohoff e Norbert Trenkle
Nel loro ultimo libro, La Grande Devalorizzazione. Perchè la speculazione ed il debito statale non sono la causa della crisi, Ernst Lohoff eNorbert Trenkle rivolgono una particolare attenzione all'evoluzione dell'economia reale nella loro analisi della crisi, distinguendosi in cio' dal novero delle altre pubblicazioni che trattano lo stesso tema. Ralf Hutter, giornalista del quotidiano Neues Deutschland, ha incontrato Ernst Lohoff (intervista apparsa sul citato quotidiano il 13.12.2012)
Ralf HUTTER: Voi affermate che il vostro libro La Grande Devalorizzazione va piu' in profondità di tutti gli altri lavori che trattano la crisi economica. Perchè questo?
Ernst LOHOFF: Innanzitutto perché noi abbiamo studiato la correlazione che vi é tra questa crisi e la progressiva scomparsa del lavoro. La maggior parte delle analisi si limitano a dire che vi sono state delle derive a livello dei mercati finanziari ma che l'economia “reale” (le virgolette sono del traduttore, ndr), quanto ad essa, è rimasta fondamentalmente sana. Noi invece consideriamo anche nel dettaglio l'evoluzione dell'economia “reale”. Ragioniamo essenzialmente sul piano delle categorie, avendo quale sistema di riferimento teorico la critica marxiana all'economia politica.
RH: E' esatto affermare che l'attuale crisi s'era in fondo già manifestata nel 1857, come voi lasciavate intendere nel corso di una conferenza tenuta non molto tempo fa?
EL: No. Fino a oggi non s'era mai visto, nemmeno lontanamente, l'accumulazione del capitale scatenarsi sino a questo punto di effettivo sfruttamento del lavoro. Quello che non e' cambiato, di contro, è il fatto che gli episodi di crisi aperta partono, oggi come ieri, dai mercati finanziari. E oggi come ieri gli osservatori ne hanno dedotto che la causa del male risiedesse nella finanza.
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Illusioni e realtà della manovra (dopo il vertice europeo)
Sergio Cesaratto e Lanfranco Turci
Abbiamo aggiornato questo articolo per tener conto dei risultati del vertice europeo (una prima versione fu pubblicata in bella evidenza dagli amici di Micromega on line a inizio settimana; la versione attuale è uscita domenica 11 dicembre con l'Unità). Poco da aggiornare, in realtà, visto che poco ci aspettavamo, ma è andata anche peggio. Un cupo medioevo nordico ci attende.
Un "austerity club" che ci sta portando verso il medioevo
Vorremmo noi per primi illuderci che tutto questo servirà e siamo ammirati della reazione dignitosa del popolo italiano. Purtroppo riteniamo che questa manovra peggiorerà le cose in un quadro europeo che dopo il vertice appena concluso è divenuto, se possibile, più fosco. I nostri concittadini lo devono sapere.
Se l’analisi è sbagliata, così è quella della maggioranza dei politici italiani ed europei, sbagliate sono le soluzioni. La crisi italiana ha un’insopprimibile dimensione europea e dissentiamo da quanto Monti ha sostenuto, presentando la manovra, che la crisi del debito italiano “non è colpa degli europei, è colpa degli italiani”, che siamo “un focolaio di infezione” e rischiamo di “macchiarci della responsabilità” di far fallire l’Europa. Il debito pubblico italiano non ha causato la crisi europea. In un contesto di crescita europeo e di bassi tassi di interesse – che come non ci stanchiamo di ribadire sono stabiliti dalle banche centrali e non dai mercati, a meno che li si lasci fare – esso non avrebbe costituito un problema, tanto meno un problema urgente. C’è piuttosto qualcosa di profondamente sbagliato nella costituzione economica europea. Essa ha creato un sviluppo fittizio dell’Europa periferica basato su bolle immobiliari finanziate dalle banche dei paesi forti, fatto da puntello alle tendenze neo-mercantiliste tedesche, minato la competitività dell’Italia, determinato gravi squilibri commerciali infra-europei.
Ciò nulla ha che vedere con una presunta indisciplina fiscale dei paesi periferici – tranne, forse, il caso greco di cui la Germania ben sapeva. Gli economisti americani, keynesiani e monetaristi, ci avevano avvertito: l’Euro senza forti politiche di contrasto agli squilibri non potrà durare. Ci hanno convinto che lo dicessero per paura che l’Euro scalzasse il dollaro. Fatto è che, ora, le misure adottate, devastanti per famiglie e lo stato sociale, getteranno il nostro paese in una gravissima recessione.
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Neanche l'osso del cane
di Fisher
L’esperienza di un anno e mezzo di governo Prodi e l’atteggiamento tenuto in questo periodo dai due partiti rc e pdci
Questo documento vuole costituire una base di riflessione per tutti i compagni dei due partiti che – almeno ad oggi – hanno la falce-e-martello nel proprio simbolo e che hanno partecipato all’esperienza parlamentare votando ripetutamente la fiducia al governo Prodi. Vi si elencano fatti, ma anche considerazioni politiche, certo non tenere nei confronti delle due dirigenze dei due partiti. Tali considerazioni sono certamente discutibili, ma l’intento è di indirizzare la discussione sui fatti, perché da comunisti non possiamo che basarci sulla loro realtà e non su chiacchiere fatue.
1. Antefatti
1.1. La campagna elettorale e i brogli
Non si può parlare dell’esperienza Prodi se prima non si torna alla campagna elettorale e alle elezioni che segnarono la striminzita vittoria del centrosinistra.
La campagna fu come al solito molto aspra, caratterizzata però da alcuni veleni nuovi che Berlusconi in persona aveva pensato bene di inoculare prima del voto.
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Neoliberalismo, l’idea che ha inghiottito il mondo
di Stephen Metcalf
Sul The Guardian, un approfondimento che risale alle origini del neoliberalismo per rintracciarne le caratteristiche peculiari e sottolineare l’ambizione di trasformare completamente la visione del mondo contenuta in quella “Grande Idea” di Von Hayek, che alla fine è riuscita a permeare completamente la società di oggi. Il neoliberalismo è divenuto l’idea dominante della nostra era, che venera la logica del mercato, deprivandoci delle capacità e dei valori che ci rendono più propriamente umani
La scorsa estate, ricercatori del Fondo Monetario Internazionale hanno messo fine a una lunga e aspra disputa sul “neoliberalismo”: hanno ammesso che esiste. Tre importanti economisti dell’FMI, un’organizzazione non certo nota per la sua imprudenza, hanno pubblicato un documento che si interroga sui benefici del neoliberalismo. Così facendo, hanno contribuito a ribaltare l’idea che la parola non sia altro che un artificio politico, o un termine senza alcun reale potere analitico. Il paper ha chiaramente individuato un’ “agenda neoliberalista” che ha spinto la deregolamentazione delle economie in tutto il mondo, forzato l’apertura dei mercati nazionali al libero commercio e alla libera circolazione dei capitali e richiesto la riduzione del settore pubblico tramite l’austerità o le privatizzazioni. Gli autori hanno dimostrato con dati statistici la diffusione delle politiche neoliberali a partire dal 1980 e la loro correlazione con la crescita anemica, i cicli di espansione e frenata e le disuguaglianze.
Neoliberalismo è un termine vecchio, risalente agli anni Trenta, ma è stato rivitalizzato come un modo per descrivere la nostra politica attuale o, più precisamente, l’ordine delle idee consentite dalla nostra politica. All’indomani della crisi finanziaria del 2008, è stato un modo per attribuire la responsabilità della débacle, non a un partito politico di per sé, ma ad un establishment che aveva ceduto la sua autorità al mercato.
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Repubblica Italiana e ideologia del vincolo esterno
di Agenor
L’idea di risolvere i conflitti interni di un paese ricorrendo ad aiuti esterni è tipica dei paesi in via di sviluppo, o di quelli di recente costruzione, o comunque poco coesi. Non è chiaro quanto questo metodo sia davvero utile allo sviluppo dei paesi, tuttavia con il progresso economico e sociale le caratteristiche che li rendono fragili tendono gradualmente ad attenuarsi di pari passo con il rafforzamento delle istituzioni democratiche e della struttura produttiva. L’Italia è una nazione relativamente giovane, unita 150 anni fa quando ancora però c’erano da “fare gli italiani”. Passata attraverso due guerre mondiali, prende forma come Repubblica solo 70 anni fa. L’Italia repubblicana ha sempre conosciuto una qualche forma di vincolo esterno, a cominciare da una fase iniziale di relativa prosperità, guidata dalla ricostruzione post bellica sostenuta dagli Stati Uniti. Con la fine del sistema di Bretton Woods, l’Italia cerca di ritrovare un aggancio esterno, prima con il sistema monetario europeo e poi – dopo il suo fallimento – con l’unione monetaria europea. Questi vincoli diventano sempre più stringenti, poiché la liberalizzazione dei movimenti di capitali, assieme alla rigidità del cambio, alla perdita della politica monetaria e ai limiti alla politica fiscale, limiteranno fortemente la capacità di condurre le politiche macroeconomiche a livello nazionale.
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La parola superflua di Erri De Luca
di Marco Gaetani
La vicenda dello scrittore Erri De Luca, processato per aver sostenuto in un’intervista che la linea ferroviaria per treni ad alta velocità in costruzione in Val di Susa debba essere a ogni costo «sabotata», è abbastanza nota per esimere dal richiamarla qui nel dettaglio. Ricostruzione precisa cui del resto procede lo stesso autore napoletano nella sezione intitolata «Cronaca» di un libretto pubblicato dall’editore principale di De Luca (Feltrinelli) proprio nei giorni del processo. Alle pagine di La parola contraria si può fare riferimento per alcune considerazioni che, a partire dall’episodio in questione (davvero «minuscolo» in rapporto a ciò che accade in Val di Susa, come scrive De Luca?), si tentano con il proposito di uscire dalla cronaca spicciola, di sfuggire al chiacchiericcio proliferante nell’immancabile (quanto falso) dibattito mediatico.
I fatti sono talmente incredibili, nella loro conclamata scandalosa evidenza, da risultare quasi imbarazzanti e non lasciare dubbi su chi abbia ragione e chi torto. Che si possa essere sottoposti a un’azione penale per aver esercitato il proprio diritto di parola dà la misura esatta del degrado dell’Italia contemporanea. Che in questo paese possano agire nel nome del popolo italiano magistrati come quelli che hanno incriminato De Luca fa comprendere dolorosamente lo sfacelo civile, morale e anche giuridico di un’intera comunità nazionale (istituzioni e società civile). Lo scrittore ha dunque facile gioco nel difendersi col suo scritto ad hoc, ricorrendo a una retorica tutto sommato controllata – ma qualche volta contrattaccando, ribaltando cioè l’autodifesa in orgoglioso «j’accuse» («L’accusa contro di me sabota il mio diritto costituzionale di parola contraria»; «Sto subendo un abuso di potere da parte della pubblica accusa che vuole impedire, dunque sabotare, il mio diritto di manifestazione verbale», ecc.).
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La fabbrica del soggetto neoliberista
di Pierre Dardot e Christian Laval
Dopo aver ricevuto una buona accoglienza oltralpe, è da poco apparso in Italia “La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista” di Pierre Dardot e Christian Laval. In gran parte ispirato all’impostazione di lavoro inaugurata da Michel Foucault, il libro offre una delle più acute ricostruzioni delle vie attraverso cui le idee neoliberiste sono giunte a permeare le pratiche di governo dell’establishment occidentale. In questa sede il lettore troverà, per gentile concessione dell’editore DeriveApprodi, un estratto del capitolo tredicesimo del libro
La concezione che vede nella società un’impresa costituita di imprese non può non generare una nuova norma soggettiva, che non corrisponde più esattamente a quella del soggetto produttivo delle società industriali. Il soggetto neoliberista in via di formazione – di cui vorremmo ora tratteggiare alcune delle caratteristiche principali – è in relazione con un dispositivo di prestazione e godimento che è l’oggetto di numerose ricerche. Non mancano oggi le descrizioni dell’uomo «ipermoderno», «incerto», «flessibile», «precario», «senza gravità». Queste ricerche preziose, e spesso convergenti, all’incrocio tra psicanalisi e sociologia, rendono conto di una nuova condizione dell’uomo, che si rifletterebbe secondo alcuni fino all’economia psichica stessa.
Da una parte numerosi psicanalisti dichiarano di avere in cura pazienti affetti da sintomi che testimoniano di una nuova era del soggetto. Il nuovo stato soggettivo è spesso rapportato nella letteratura clinica a categorie vaste come l’«era della scienza» o il «discorso capitalista». Il fatto che una prospettiva storica si sostituisca a una strutturale non stupirà i lettori di Lacan, per il quale il soggetto della psicanalisi non è una sostanza eterna né una costante transstorica, ma l’effetto di discorsi inscritti nella storia e nella società1. Dall’altra, in campo sociologico, la trasformazione dell’«individuo» è un fatto innegabile. Ciò che viene designato il più delle volte con il termine ambiguo di «individualismo» fa riferimento talvolta a mutazioni morfologiche, nella tradizione di Durkheim, talvolta all’espansione dei rapporti mercificati, nella tradizione marxista, tal volta ancora all’estensione della razionalizzazione a tutti i campi dell’esistenza, secondo un filo più weberiano.
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Quantitative Easing: la soluzione ai problemi dell'Eurozona?
di Thomas Fazi
Sta facendo scalpore un’intervista rilasciata pochi giorni fa da Jens Weidmann, presidente della Bundesbank e leader dei “falchi” all’interno del consiglio della Bce, in cui per la prima volta ha aperto alla possibilità che la Bce ricorra ad operazioni di quantitative easing, ossia all’acquisto di titoli di stato da parte della banca centrale. Weidmann ha detto:
Le misure non convenzionali considerate sono in gran parte un territorio poco noto. Quindi dobbiamo discutere sulla loro efficacia, sui loro costi e i loro effetti collaterali. Questo non significa tuttavia che le azioni di quantitative easing siano assolutamente da escludere.
In effetti la dichiarazione di Weidmann rappresenta un’inversione di tendenza non da poco, in quanto buona parte dell’establishment (politico, monetario e giudiziario) tedesco aveva finora categoricamente escluso l’ipotesi “americana” di un intervento attivo della banca centrale sui mercati sovrani dell’eurozona. Basti pensare alla recente messa in discussione da parte della Corte costituzionale tedesca del programma Omt di Draghi (finora mai utilizzato) per poter acquistare in emergenza titoli pubblici già sul mercato. È probabile che il “falco” della Bundesbank sia stato spinto ad ammorbidire i toni dai dati sempre più drammatici sul tasso d’inflazione nell’eurozona, ormai in caduta libera. Come ha riferito lunedì la Bce, a marzo l’area euro ha registrato il tasso medio più basso da più di cinque anni a questa parte – 0.5% (ben lontano dall’obiettivo della banca centrale del “poco meno del 2%”) –, mentre molti paesi della periferia registrano ormai un tasso vicino allo zero o addirittura negativo (Spagna, Grecia).
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Un regalo di obama alle banche
di Jeffrey D. Sachs
Il piano Geithner-Summers implica un enorme trasferimento di ricchezza, forse per centinaia di miliardi di dollari, dai contribuenti agli azionisti delle banche. Ne sono una prova i rialzi dei prezzi dei titoli bancari già nella settimana che ha preceduto l'annuncio. Il valore di questo salvataggio di massa è di gran lunga superiore al bonus destinato ad Aig e Merrill. Ma il meccanismo è molto meno ovvio e la reazione dell'opinione pubblica è stata debole, almeno finora. Per ripulire i bilanci delle banche esistono alternative molto più efficaci e più eque.
Timothy Geithner e Larry Summers hanno annunciato il loro piano: depreda la Federal Deposit Insurance Corporation e la Federal Reserve per garantire credito agli investitori che acquistano dalle banche attivi tossici a prezzi esagerati. Se il piano sarà attuato, il risultato sarà un enorme trasferimento di ricchezza, forse per centinaia di miliardi di dollari, dai contribuenti (su cui ricadranno le perdite di Fdic e Fed) agli azionisti delle banche. Il rialzo dei prezzi dei titoli bancari nella mattina dell'annuncio, e anche nella settimana di indiscrezioni e allusioni che l'ha preceduto, sono un'indicazione del salvataggio di massa in atto. Ci sono modi molto più equi e molto più efficaci per raggiungere l'obiettivo di ripulire i bilanci delle banche.
Come funziona
Ecco come funziona una parte importante del piano. Sarà creato un gigantesco fondo di investimento (o forse più di uno) per acquistare attivi tossici dalle banche. I bilancio dei fondi di investimento sarà così organizzato: per ogni dollaro di attivi tossici che acquistano dalle banche, la Fdic garantirà un prestito fino a 85,7 centesimi (i 6/7 di un dollaro), il Tesoro e gli investitori privati metteranno ciascuno 7,15 centesimi di capitale. Il prestito della Fdic sarà “non recourse”, ovvero se il valore degli attivi tossici acquistati dagli investitori privati scenderà al di sotto dell'ammontare del prestito Fdic, i fondi di investimento non lo restituiranno e la Fdic si ritroverà con gli attivi tossici.
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Record italiani
Rossana Rossanda
Il fine e la fine della transizione italiana dalla prima alla seconda Repubblica consisteva dunque nel cancellare dalla scena istituzionale qualsiasi sinistra proveniente dal movimento operaio. In verità siamo approdati non a una «seconda» Repubblica, ma a un tipo di repubblica finora inesistente nell'Europa postbellica. Anche con il comunismo reale all'angolo di casa la Germania ne ha mantenuto più che un residuo nella socialdemocrazia perché se a Bad Godesberg la Spd aveva dismesso ogni idea di trasformazione anticapitalista, il conflitto sociale restava legittimato, il lavoro dipendente andava organizzato e rappresentato. Se Andrea Ipsilanti si propone, anche con difficoltà, di allearsi con la Linke, significa che il problema è del tutto aperto. Anche il Labour, finita la seduzione di Tony Blair, è in fibrillazione.
Soltanto in Italia no. Bisognava liquidare ogni rappresentanza politica del conflitto sociale, consegnandolo alle manifestazioni di piazza o a sussulti di protesta che, come tutti sanno, sono affare di polizia (un tempo dei «carabinieri a cavallo»). A questa operazione è servita una legge elettorale di cui tutti si vergognavano finché Veltroni ha capito che poteva servire all'uopo e ha deciso di «correre da solo» a costo di non vincere, tosto imitato da Silvio Berlusconi.
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Un No-global a tutto tondo
di Antonio Castronovi
Il 20 gennaio di un anno fa ci ha lasciati Bruno Amoroso, economista e saggista italiano, allievo di Federico Caffè (qui gli articoli inviati a Comune). Per ricordarlo pubblichiamo questo articolo (titolo originale Mondializzazione e comunità, lavoro e bene comune in Bruno Amoroso), uscito in Ciao Bruno (Castelvecchi) di Antonio Castronovi
Quelli che sono in alto hanno dichiarato guerra ai popoli. Come resistere, come ricostruire comunità solidali passando “dalla cooperazione per competere” alla “competizione per cooperare” per dirla con Bruno Amoroso? La priorità, al tempo della globalizzazione, dovrebbe essere liberare territori e comunità. “La globalizzazione non è un fenomeno oggettivo della modernizzazione, è una forma contingente assunta dal capitalismo – scrive Amoroso -, uno stadio particolare ed eventualmente, il suo ultimo stadio. È il capitalismo nella sua forma più maligna, poiché si diffonde come una forma tumorale; come una metastasi si concentra su poche aree strategiche, … sul resto enormi effetti distruttivi. Con buona pace delle moltitudini di Toni Negri e dei new-global della globalizzazione buona…”. Mondializzazione, comunità, bene comune: un viaggio nel pensiero di Bruno Amoroso
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“Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili” (Bertolt Brecht, In morte di Lenin).
Da alcuni anni, anzi decenni, è in corso nel mondo una guerra che è stata definita come “terzo conflitto mondiale”. I protagonisti ne sono le élite globali del capitalismo triadico che la combattono – con gli strumenti della guerra democratica, della politica, del terrorismo, della guerra economica e delle guerre di religione – contro i popoli, gli stati sovrani, le comunità locali che non intendono sottomettersi ai diktat della omologazione del mondo ai dettami dell’impero globale.
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