Print Friendly, PDF & Email
Print Friendly, PDF & Email

jacobin

«I veri cannibali sono i capitalisti»

Giorgio Fazio intervista Nancy Fraser

«La società capitalista dipende da ciò che non era e talvolta ancora non è considerato lavoro». Da questo presupposto Nancy Fraser prova a trovare punti di congiunzione tra le diverse lotte

capitalismo jacobin italia 1536x560.jpgCon il suo ultimo libro Capitalismo cannibale (Laterza, 2023) Nancy Fraser ci ha consegnato una delle diagnosi più ampie e penetranti, oggi in circolazione, del capitalismo contemporaneo e delle sue tendenze autodistruttive. Intrecciando diverse linee di ricerca e tradizioni teoriche Fraser ha messo a disposizione un aggiornato vocabolario critico, che punta a rendere visibili i potenziali di trasformazione emancipativa che stanno emergendo nell’«interregno» in cui ci troviamo, infestato dai più disparati «fenomeni morbosi».

Questa intervista è stata rilasciata a margine della lezione pubblica che ha tenuto presso il dipartimento di filosofia dell’università La Sapienza di Roma, nell’ambito del ciclo di conferenze dedicato alle nuove frontiere della teoria critica contemporanea: «Technology, Work and Democracy».

* * * *

Il tuo ultimo libro si intitola Capitalismo Cannibale. Perché dovremmo parlare di «capitalismo cannibale» per comprendere le logiche e le dinamiche del capitalismo?

Per definizione un cannibale è colui che mangia la carne di un altro essere umano, quindi più o meno di qualcuno della sua stessa specie. Nella storia razziale è stata proprio l’Europa imperialista a utilizzare questo concetto nei confronti delle persone africane. Io dico che i veri cannibali sono i capitalisti, non riferito ai singoli individui ma all’intero sistema. In qualche modo possiamo dire che questo sistema incentiva e invita i grandi investitori, le grandi corporation e altri soggetti con forti interessi economici ad accumulare profitto mangiando, cannibalizzando, le risorse che non sono necessariamente parte dell’economia ufficiale, come il lavoro di cura, il lavoro coatto e servile, i beni pubblici.

Print Friendly, PDF & Email

sinistra

L’urlo di rabbia

di Luca Busca

step into your place propaganda poster 1915 low.jpgUn “urlo” questo che prolunga l’urlo di dolore, un post pubblicato su Facebook circa un mese fa in cui piangevo la scomparsa della mia amata compagna di vita. Un grido di sofferenza che esprimeva l’impotenza nei confronti dell’ingiustizia di veder morire chi è ancora troppo giovane per andarsene. Un dolore che stravolge con forza l’intera sfera privata soprattutto in virtù della condivisione di una figlia di appena tredici anni. Il poco tempo passato è del tutto insufficiente a placare il dolore, ma è stato abbastanza per indurmi ad urlare di nuovo al fine di manifestare, però, una diversa emozione, l’ira. Una rabbia profonda che valica i confini del privato per irrompere nella sfera sociale, luogo dove il senso di impotenza assume caratteristiche diverse, ma altrettanto devastanti. Nel piano personale l’incapacità di affrontare l’impari lotta metafisica con la morte è comune all’intero genere umano. Anche chi si appella a vite ultraterrene o a reincarnazioni cicliche finisce per soffrire la perdita dei propri cari, né più né meno degli atei come me. Sul piano pubblico, però, per chi non crede in alcuna forma postuma di giustizia divina, perdere la battaglia contro l’iniquità sociale non è sopportabile, e per questo genera collera, ira, indignazione.

Per comprendere bene l’entità e le ragioni di questa rabbia è necessario ripercorre il percorso della malattia di mia moglie. La prima diagnosi di tumore alla mammella arrivò a fine settembre del 2011. Il percorso fu quello classico dell’epoca: chemioterapia neo-adiuvante, intervento chirurgico (aprile 2012) e lunga radioterapia postoperatoria. Sono seguiti anni di terapia ormonale, molto pesanti in virtù della giovane età (34 anni). Proprio in considerazione di questa l’equipe medica preferì effettuare un intervento conservativo.

Print Friendly, PDF & Email

sinistra

Effetti culturali dell’economia neoliberista

di Luca Benedini

I pesanti impatti del neoliberismo e della sua intrinseca mentalità patriarcale sulla vita quotidiana delle persone e sulla loro sfera interiore

(prima parte: un intreccio di precarietà e consumismo, con le facilitazioni fornite dalla pesantissima caduta qualitativa della “politica di sinistra” nel ’900)

neo lib.jpgCi vuole tempo per amare
E libere menti per amare,
E chi è che ha tempo nelle mani?

– Jorma Kaukonen
dalla canzone Star track, incisa nell’album Crown of Creation (1968), dei Jefferson Airplane

Qui nella Buona-Vecchia-Dio-Salvi-L’America
La patria della gente coraggiosa e libera
Siamo tutti dei codardi, oppressi senza speranza
Da qualche dualità
Da una molteplicità senza posa

– Joni Mitchell
dalla canzone Don Juan’s reckless daughter, incisa nell’album omonimo (1977)

Si è già accennato – nel precedente intervento Il neoliberismo non è una teoria economica [1] – che il neoliberismo tende a trasformare nei fatti la società in una scoordinata aggregazione di persone mosse soprattutto da interessi materiali di tipo egoistico. Ciò innanzi tutto come effetto del fatto che i neoliberisti vedono il mondo come un’arena gladiatoria in cui le élite economiche possono utilizzare e manipolare pressoché a proprio piacimento le altre classi sociali – fino anche, come spesso accade, a logorarle sino allo sfinimento o a sostanzialmente stritolarle – usandole come ingranaggi, servi, oggetti, giocattoli oppure scarti [2]: un’arena in cui ciascuno è spinto ad arrangiarsi per sopravvivere e cavarsela, a titolo individuale o al massimo famigliare. E la realtà sociale degli ultimi decenni mostra che, di fatto, attualmente le élite in questione non solo valutano di poterlo fare, ma solitamente prendono anche in pratica la strada del farlo con grande applicazione....

Print Friendly, PDF & Email

lafionda

Un “nuovo 11 settembre”: il paradigma della guerra permanente come deterrenza finanziaria

di Fabio Vighi

BANSKY COPERTINA.jpgNon sorprende che i media occidentali abbiano etichettato gli attacchi di Hamas del 7 ottobre come un “nuovo 11 settembre”. Naturalmente, si riferiscono al racconto ufficiale dell’11 settembre, indelebilmente impresso nella sua terrificante iconografia (che però tende a escludere la risposta scatenata dagli Stati Uniti in Medio Oriente nei due decenni successivi, una prolungata operazione genocida nota come “guerra globale al terrore”). Ciò che l’etichetta “nuovo 11 settembre” dovrebbe evocare, in realtà, è l’opposto di quanto i mass media lasciano intendere: e cioè che dall’11 settembre 2001 a oggi, le emergenze globali si susseguono senza soluzione di continuità affinché il proverbiale barattolo (il fallimento del sistema economico globale) possa essere calciato un po’ più in là.

Se cerchiamo un indizio rispetto a cosa potrebbe aver scatenato la più recente iterazione della crisi israelo-palestinese, potremmo iniziare dalle parole di Joe Biden dell’11 ottobre: ​​‘Quando il Congresso ritornerà, chiederemo loro di intraprendere azioni urgenti per finanziare le esigenze di sicurezza dei nostri partner strategici.’ Com’era prevedibile, aumentano le commesse per il warfare (inteso come deficit spending per la guerra), che aveva già spiccato il volo con i primi finanziamenti ucraini, funzionando così anche da moltiplicatore del PIL americano. Perché il mercato del debito è il primum movens, l’asse attorno a cui girano le cose di questo mondo, e dev’essere tenuto costantemente lubrificato. Il 19 ottobre, in un discorso dallo Studio Ovale trasmesso in prima serata, Biden ha messo i panni dell’imbonitore televisivo per dichiarare: ‘Hamas e Putin rappresentano minacce diverse, ma hanno questo in comune: entrambi vogliono completamente annientare una democrazia vicina… E continuano a farlo.

Print Friendly, PDF & Email

carmilla

Il morbo neoclassico

di Sandro Moiso

Steve Keen, L’economia nuova. Moneta, ambiente complessità. Pensare l’alternativa al collasso ecologico e sociale, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 220, 18 euro

hawaii 2023.jpgAl contrario di quanto riguarda il Covid 19 e altri virus e morbi manifestatisi sul pianeta negli ultimi decenni, vi è un morbo altrettanto pericoloso, e forse ancor più devastante dal punto di vista sociale, di cui si può affermare con certezza che si è diffuso a partire dai laboratori universitari, in questo caso americani, nel corso degli ultimi cinquant’anni: quello dell’economia cosiddetta neoclassica.

Steve Keen, professore di Economia alla Western Sidney University e Distinguished Research Fellow alla University College di Londra, importante critico della scienza economica convenzionale e uno dei pochi economisti ad aver previsto la crisi economica del 2007-2008, in questo testo appena uscito per Meltemi, nella collana «Rethink», cerca di dimostrarne l’infondatezza soprattutto sulla base dell’attuale e più che evidente cambiamento climatico di cui la suddetta teoria non ha mai tenuto sufficientemente conto.

Il giudizio espresso dall’autore sull’insieme degli assiomi del paradigma neoclassico è netto e tagliente:

Ripensando ai cinquant’anni trascorsi da quando mi sono reso conto dei difetti dell’economia neoclassica, il termine che esprime al meglio i miei sentimenti a riguardo è, come Marx disse del proto-neoclassico Jean-Baptiste Say, “insulsa” (Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica,1857). Al meglio, il capitalismo è visto come un sistema che evidenzia l’armonia dell’equilibrio, dove ognuno viene pagato il proprio giusto salario (secondo il suo “prodotto marginale”), la crescita procede senza intoppi secondo un tasso che massimizza nel tempo l’utilità sociale e tutti sono mossi dal desiderio di consumare, invece che dall’accumulazione e dal potere, perché, per citare Say, “i produttori, benché abbiano tutti l’aria di chiedere soldi in cambio dei loro prodotti, in realtà vogliono scambiarli con altri prodotti” (Say, Catechisme d’economie politique, 1821, capitolo 18).

Print Friendly, PDF & Email

chefare

Come il Neoliberalismo ha cambiato le città

Abitare in Italia e in Europa: un confronto

di Alessandro Coppola

La casa e quartieri, esiti e squilibri di un grande esperimento di neoliberalizzazione. Milano e l’Italia in un confronto europeo

gentrification 2 jacobin italia.jpgRicorre spesso in Italia una discussione sulla maggiore o minore pertinenza dell’uso della categoria del “neoliberalismo” nell’analisi della traiettoria delle politiche pubbliche degli ultimi trent’anni. Per alcuni c’è stato eccome, per altri si tratta invece di un inganno ideologico. Per i primi, le privatizzazioni, l’austerità, le esternalizzazioni di politiche e servizi pubblici sarebbero la riprova della pertinenza dell’uso di quel concetto. Per i secondi, il persistere di un livello elevato di spesa pubblica viceversa ne smentirebbe la pertinenza. Complessivamente, chi scrive concorda con chi – e sono molti, e autorevoli – pensa che il neoliberalismo non sia stato un progetto di mera de-statizzazione della società, bensì di profonda riarticolazione del ruolo dello stato, delle sue finalità come della sua strumentazione. E che quindi il permanere di una spesa pubblica elevata, o di un ruolo rilevante da parte dello stato, non siano di per sé dimostrazione della non pertinenza di quella categoria nell’analisi del caso italiano. Al di là di come ci si collochi in questa tenzone, è tuttavia possibile osservare come se c’è in Italia un ambito di politica pubblica dove si è potuta misurare una chiara ed inequivoca torsione neoliberale questo è la politica delle città, latamente intesa.

Tale torsione ha qui assunto una forma tradizionale di drastica riduzione del ruolo sia regolativo sia di intervento diretto dello stato e di contestuale apertura al mercato. A partire dagli anni 90, il trattamento pubblico di diversi oggetti che hanno a che fare con la vita delle città è stato ri-organizzato attorno al principio della preminenza dello scambio di mercato in una misura che, come vedremo, non ha sostanzialmente paragoni fra i paesi europei a noi più vicini.

Print Friendly, PDF & Email

linterferenza

La pèsca: la famiglia etero pescata nella rete

di Giacomo Rotoli

380825551 871119867714891 3810163388395234662 n 672x600.jpgPremetto che non sono d’accordo che i bambini vengano usati nelle pubblicità, si tratta di sfruttamento capitalistico gratuito dato che non sono in grado di capire cosa muove e quali sono gli interessi che sono dietro il sistema neoliberista. La pubblicità è uno dei molti generatori di plusvalore del sistema, essa non solo induce all’acquisto dei beni ma produce redditi in una enorme catena di filiere, detta anche gli schemi comportamentali che vengono veicolati attraverso i media, soprattutto definisce quasi esattamente cosa sia il mainstream e dove il sistema cerca di trovare il punto di equilibrio tra concezioni del mondo differenti per riproporsi come l’unica cosa naturale e giusta.

Vengo ora al motivo di questo articolo: lo spot è quello della pèsca di Esselunga [1], ma il mio vuole essere un commento non tanto allo spot in se, che può piacere o non piacere da un mero punto di vista estetico o etico, ma al bailamme che è nato sulla rete persino provocando una serie di prese di posizione addirittura ai vertici della politica. I commenti sono interessanti in se per il motivo che essi delineano molto bene alcune delle tendenze in atto nella concezione attuale della famiglia mononucleare di natura borghese, che è a tutt’oggi il modello dominante, ma come ho già scritto, è in crisi da almeno un cinquantennio. Questo articolo vuole quindi essere una naturale continuazione di “Gens Murgia” che scrissi riguardo alla presunta queerness della così detta famiglia non di sangue auspicata dalla nota scrittrice femminista.

Lo spot Esselunga penso che l’abbiano visto moltissimi, da questo punto di vista è un successo per i suoi creatori e per la nota catena di supermercati. Ma cosa ha di tanto speciale? Nulla di particolare, viene messa in scena una famiglia di separati, padre, madre e figlia, piuttosto che la solita unione stile “Mulino Bianco” alla quale nessuno fa più caso.

Print Friendly, PDF & Email

lafionda

Il Digital services act. Addio articolo 21 della Costituzione?

di Carlo Magnani

Digital Services Act MisterGadget Tech.jpgIl 25 agosto è entrato in vigore il Digital Services Act, per ora per le piattaforme online più grandi (quelle con più di 45 milioni di utenti), sino a che sarà applicabile a tutti gli operatori di servizi online a partire dal 17 febbraio 2024. I soggetti interessati sono tutti gli intermediari online, i motori di ricerca e le piattaforme di comunicazione sociale (mercati online, social network, piattaforme di condivisione di contenuti, app store e piattaforme di viaggio e alloggio online) che saranno soggetti a obblighi specifici e crescenti in ragione della dimensione della impresa.

Tanto i lavori preparatori di adozione che l’entrata in vigore sono stati accompagnati da una enfasi – la solita, quando si tratta di prodotti confezionati dalla Unione europea – che non ha lesinato toni entusiastici ed euforici. Finalmente nuove regole e nuovi diritti sul web, maggiore tutela per gli utenti per ciò che attiene la protezione da contenuti illegali (terrorismo, pornografia, truffe online, vendita prodotti pericolosi), dall’incitamento all’odio (ovviamente, immancabile), ma anche da contenuti non illegali ma qualificati come dannosi (la disinformazione).

Il metodo prescelto per attuare tali regole – che rimandano comunque alle legislazioni nazionali per ciò che va considerato illegale, cioè penalmente o amministrativamente rilevante – è quello della co-regolamentazione. Quindi, non una vigilanza esterna da parte di soggetti istituzionali terzi, ma il coinvolgimento diretto delle piattaforme attraverso procedure concertate con organismi tecnici dipendenti direttamente dalla Commissione europea.

Print Friendly, PDF & Email

comuneinfo

Privatocrazia sanitaria

di Nicoletta Dentico

Fino al Duemila l’Organizzazione Mondiale della Sanità collocava al secondo posto nel mondo, in quanto a qualità, il sistema sanitario italiano. Oggi almeno il 60% dei fondi pubblici finisce in mano ai privati; più della metà delle strutture che si occupano di malattie croniche sono private. I tagli della prossima legge di bilancio assecondano questa metastasi

vaccination 7729882 1280.jpgParecchi anni fa, in taxi per le strade di Nairobi, ricordo lo sbalordimento quando il taxista dichiarò en passant, ma con sarcastico sollievo, che nell’eventualità di un incidente con la macchina, la mia presenza a bordo avrebbe garantito la disponibilità di una carta di credito per accedere al pronto soccorso anche per lui.

Già la privatizzazione della salute in Kenya rivelava le sue aberranti manifestazioni, incluso il fatto che – come raccontava il taxista con angoscia – anche partorire in ospedale comportava un costo che la maggior parte della popolazione non poteva permettersi. I parti difficili finivano male, perlopiù, era accaduto anche a sua figlia.

Oggi, nel paese che nel 2000 si collocava al secondo posto al mondo (dopo la Francia) per la qualità del servizio sanitario nazionale secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), ci stiamo dirigendo – un passo alla volta, neppure tanto lentamente – nella stessa paradossale direzione. La brutale esperienza italiana della pandemia è stata rimossa in un soffio, un fastidioso ricordo del passato, malgrado le molteplici perduranti e visibili conseguenze.

Ritorna in voga invece la stagione dei tagli alla sanità pubblica, come se non bastasse lo schiaffo in faccia delle insufficienti risorse del PNRR assegnate ai servizi sanitari devastati da Covid-19.

I tagli al comparto della salute fanno capolino già dalle prime bozze della legge di bilancio, in stupenda sintonia con le proiezioni del Fondo Monetario Internazionale (FMI), che prevede 143 paesi sotto la morsa di nuove riforme di austerity entro la fine del 2023 (Ortiz e Cummins, 2022): l’85% della popolazione mondiale!

Print Friendly, PDF & Email

euronomade

Mutazioni del capitalismo globale: un’analisi congiunturale

di Sandro Mezzadra e Brett Neilson[1]

Malevic.jpg1. In questione è per noi ancora una volta il capitalismo. La “distruzione creativa” ne caratterizza e ne sospinge lo sviluppo, diceva Schumpeter. Ma già Marx aveva inscritto il capitalismo, nei Grundrisse, nel segno della “rivoluzione permanente”. Nella crisi dei primi anni Settanta del secolo scorso questa rivoluzione ha assunto un ritmo nuovo, tra finanziarizzazione, “rivoluzione logistica”, nuove geografie produttive, trasformazione dello Stato e di modelli sociali consolidati in molte parti del mondo. Cominciava a delinearsi quella che, dopo la fine dell’Unione Sovietica, si sarebbe chiamata globalizzazione. Il pensiero critico e rivoluzionario ha tentato di afferrare queste trasformazioni e di fissarle in un concetto, spesso focalizzandosi su quel che il capitalismo non è più (“postfordismo”, ad esempio) ma tentando anche di offrire nuove definizioni, “capitalismo cognitivo” o più di recente “capitalismo delle piattaforme”, per dare soltanto due esempi. Non intendiamo qui discutere i meriti e i limiti di queste e altre formalizzazioni teoriche, che quantomeno nei casi più interessanti hanno comunque il merito di portare l’attenzione su nuove composizioni emergenti del lavoro, su una nuova figura dell’antagonismo costitutivo del rapporto di capitale. Solo, registriamo un ritardo, come se ci fosse uno scarto rispetto alla velocità e al carattere per certi aspetti proteiforme del capitalismo contemporaneo, le cui trasformazioni spiazzano continuamente i modelli, l’“esposizione” potremmo dire ancora con Marx, costringendo a riaprire la “ricerca”.[2]

Per affrontare questo “ritardo” scegliamo di collocare il nostro lavoro nella congiuntura, consapevoli del fatto che, come ha scritto Louis Althusser, prendere seriamente questo concetto comporta un azzardo (considerata la mutevolezza che caratterizza la congiuntura) e al tempo stesso richiede di “tener conto di tutte le determinazioni, di tutte le circostanze concrete esistenti, passarle in rassegna, farne il rendiconto e il confronto”.[3]

Print Friendly, PDF & Email

Coordinamenta2

Impedire che il cerchio si chiuda

di Elisabetta Teghil

Impedire che il cerchio si chiuda 1Per un obiettivo di controllo così profondo, totalitarismo è un termine possibile, un controllo così completo da non accontentarsi più dell’asservimento esterno-ottenere le azioni volute-ma che rivendica l’intera sottomissione dell’<interiorità>.

F. Lordon, Capitalismo, desiderio e servitù

Nella città di Roma il Comune ha programmato l’entrata in vigore, a novembre di quest’anno, di una nuova ZTL, chiamata fascia verde, che comprende una zona estremamente vasta, grande quasi quanto la città all’interno del raccordo anulare, in cui sarà vietato l’accesso e la circolazione ai mezzi che sono considerati inquinanti. Non sto qui a farvene l’elenco, lo potete tranquillamente andare a vedere sul sito del Comune, ma la gamma è vastissima, comprende anche moto e motorini e mezzi di lavoro anche a GPL e a metano e praticamente chiama in causa quasi tutto il parco macchine degli abitanti escluse chiaramente, per il momento, le auto più nuove. Già, perché il progetto ha l’obiettivo, alla fine, di permettere solo la circolazione dei mezzi elettrici. Un progetto simile è già attivo a Milano e in altre città si stanno sperimentando varianti adattate alle realtà locali come a Venezia e a Trento dove stanno mettendo in opera un sistema di controllo ancora più inquietante. A Milano il sindaco ha pensato bene di aumentare il costo dei pedaggi d’ingresso e di chiudere il centro per tutta la settimana quindi compresi i sabati e le domeniche. Ormai da mesi qui nella capitale si susseguono i lavori per l’impianto dei varchi di controllo elettronici per l’accesso con sofisticate telecamere di riconoscimento e con spese faraoniche ed è stato dato il via dal Comune alla gara per 1000 telecamere e per la realizzazione di un unico polo operativo “Smart Police Support” (SPS) in uso alla Polizia Locale e alla Protezione Civile di Roma Capitale per la gestione della sicurezza pubblica.

Print Friendly, PDF & Email

comuneinfo

Come sfuggire al capitalismo totale

di Paolo Cacciari

358428719 229075300072278 7248748400483532331 n 1536x1229Come si fa a contrastare la forza, reale e simbolica, del denaro? Oggi quella forza onnipotente trova nella tecnoscienza il suo faro, con le élite più avvedute del capitalismo globale che sempre più spesso mostrano di voler affrontare, a modo loro ovviamente, problemi ambientali e sociali. Del resto il fallimento delle strategie delle forze progressiste che facevano affidamento sull’allargamento delle basi democratiche rappresentative delle istituzioni politiche nazionali liberali è evidente. Secondo Paolo Cacciari potrebbe verificarsi quello che McKenzie Wark ipotizza: «Il capitale è morto. Il peggio deve ancora venire» o, come dice Bifo: «Possiamo sperare che il capitalismo non sopravvivrà, ma saremo capaci di vivere fuori dal suo cadavere?». «Agli individui e ai gruppi sociali che sentono il bisogno di “fare società” non rimane che agire nel modo più coraggioso e radicale possibile nelle condizioni date… – scrive Cacciari – Dovremmo cercare di praticare nel nostro piccolo azioni di resistenza e diserzione… Non c’è alternativa all’iniziativa dal basso…». Per dirla con Esteva si tratta di formare «ambiti di comunità autonome», ma per farlo servono prima di tutto nuovi modi di vedere il mondo. In questo saggio Cacciari propone di guardare alcune storie, note ai lettori di Comune ma che messe insieme offrono un punto di vista ricco di speranza, tra la miriade di esperienze di resistenza e ai tentativi di creare comunità locali capaci di sottrarsi al furore distruttivo dell’ipercapitalismo: dal No Dal Molin di Vicenza ai Beni comuni civici di Napoli, da Mondeggi Fattoria senza padroni alla Val Susa, passando per il pane del Friûl di Mieç.

* * * *

Tra le persone più informate e avvedute non c’è chi non si renda conto delle enormi trasformazioni socioeconomiche, politico-istituzionali, culturali, antropologiche che sarebbero necessarie per poter sperare di evitare le catastrofi ecologiche in atto e riuscire ad assicurare un futuro degno a tutti gli esseri viventi, nella loro totalità e interdipendenza.

Print Friendly, PDF & Email

jacobin

Neoliberismo all’italiana

di Nicola Melloni

L’ideologia che difende e rilancia gli interessi del capitale contro il mondo del lavoro come si è adattata al nostro paese?

neoliberismo jacobin italia 1536x560Nelle ultime settimane si sta sviluppando un interessante dibattito sull’influenza avuta dal neoliberismo in Italia negli ultimi trent’anni. Curiosamente queste riflessioni partono da un articolo di Angelo Panebianco sulla rivista Il Mulino che nega che il nostro paese abbia mai vissuto un periodo «(neo)liberale». Nelle settimane successive sono arrivati i contributi di Norberto Dilmore, sempre sul Mulino, che, appropriatamente, mette il caso italiano all’interno del contesto internazionale, nella lunga stagione della globalizzazione di marca liberista cui l’Italia non poteva certo sottrarsi. Su questa falsa riga è anche la risposta di Luciano Capone e Carlo Stagnaro sul Foglio, dove si ammette parzialmente l’influenza non tanto del pensiero neoliberale, quanto piuttosto del vincolo esterno dell’Unione europea che ha imposto politiche cui la classe politica, un po’ obtorto collo, ha dovuto adeguarsi.

Ma cosa è questo neoliberismo di cui tanto si parla? Dilmore si concentra, nuovamente non a torto, sulle politiche simbolo di quel periodo: privatizzazioni, liberalizzazioni, deregolamentazioni, politiche fiscali a favore del capitale.

 

Il neoliberismo in Italia

Usando questi criteri è davvero difficile negare che non si sia avuta in Italia una fase storica di pura marca neoliberista. Andiamo con ordine: la politica economica è stata sottoposta a un fortissimo vincolo esterno che ha tolto, di fatto, molto della discrezionalità dei governi nello stabilire gli obiettivi di politica economica – esattamente quanto richiesto dalla critica neoliberale.

Print Friendly, PDF & Email

iltascabile

La fine del neoliberismo?

di Cesare Alemanni

Perché la Bidenomics è in perfetta continuità con gli obiettivi statunitensi di rinsaldare il proprio potere

shutterstock 85699915 cropIl 27 aprile scorso, al Brookings Institute di Washington, è stato pronunciato uno dei discorsi più commentati di questi anni. L’oratore non era nessuno di celebre, né un Presidente, né un leader di partito, né un Papa. Il suo nome era – è – Jake Sullivan e nella vita fa “soltanto” parte dello staff dell’amministrazione Biden. Nello specifico il discorso di Sullivan presentava le linee guida della presente e futura politica economica degli Stati Uniti (da alcuni ribattezzata Bidenomics) e tra le altre spiccavano frasi come:

La visione di investimenti pubblici che aveva dato energia al progetto americano negli anni del dopoguerra – e in effetti per gran parte della nostra Storia – era svanita. Aveva lasciato il posto a una serie di idee che sostenevano il taglio delle tasse e la deregolamentazione, la privatizzazione rispetto all’azione pubblica e la liberalizzazione del commercio fine a sé stessa

E ancora:

Ora nessuno – certamente non io – sta scontando il potere dei mercati. Ma in nome di un’efficienza di mercato eccessivamente semplificata, intere catene di approvvigionamento di beni strategici, insieme alle industrie e ai posti di lavoro che li hanno realizzati, si sono spostate all’estero. E il postulato che una profonda liberalizzazione del commercio avrebbe aiutato l’America a esportare beni, non posti di lavoro e capacità, era una promessa non mantenuta

Queste parole hanno spinto numerosi commentatori, anche molto autorevoli, a definire l’intervento di Sullivan come una “pietra tombale” sul neoliberismo, la “dottrina” economica a cui si imputano i problemi di (in)giustizia sociale e ridistribuzione della crescita emersi nei paesi avanzati negli ultimi decenni.

Print Friendly, PDF & Email

fuoricollana

Come cambia l’industria?

L’ultimo libro di Vincenzo Comito

di Antonio Cantaro

Carne sinteticaIn un agile e documentato saggio (Come cambia l’industria. I chip, l’auto, la carne, Roma, Futura editrice, 2023) Vincenzo Comito ci racconta come il nostro modo di produrre, di lavorare, di consumare sta cambiando in tutto il mondo. Da occidente a Oriente. Un libro d’altri tempi, che parla del nostro tempo.

L’industria sta mutando rapidamente, in Italia, in Europa e nel mondo. Le nuove tecnologie trasformano prodotti e sistemi produttivi, le attività si spostano da Occidente a Oriente, il lavoro muta profondamente, sia nella quantità che nella qualità, la questione ambientale assume un ruolo di assoluta centralità, mentre ritornano sulla scena le politiche industriali dei governi. Il volume di Vincenzo Comito analizza tutte queste trasformazioni (e le conseguenze per il nostro Paese) con riferimento all’alta tecnologia dei semiconduttori, alla transizione dell’automobile verso l’elettrico, ad una produzione di carne sempre più industrializzata.

 

Un libro settoriale e totale

Un libro “settoriale” e agile (una densa e trasversale introduzione, tre asciutti e essenziali capitoli), sorprendentemente “totale”, senza essere mai ideologico, come è nell’inconfondibile storytelling dell’autore, lontano da ogni accademismo e preoccupazione disciplinare. Senza alcuna falsa modestia: «Questo libro – confessa Vincenzo Comito nell’incipit – cerca, con tutte le difficoltà del caso, di analizzare le trasformazioni in atto nel campo industriale, tentando di individuare almeno alcune tra le linee di movimento principali e lo fa guardando in particolare a tre settori oggi tra i più rilevanti».