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La deindustrializzazione dell'America e la disputa valutaria con la Cina

Antonio Lettieri

Il paradigma post-industriale ha dominato negli ultimi decenni. Il risultato è stato una nuova divisione internazionale del lavoro che si è rivelata rovinosa per i ai vecchi paesi industriali. La soluzione della crisi non può essere rimessa a una guerra valutaria e commericale con la Cina

1. Uno dei paradigmi di maggior successo della fine del ventesimo secolo è stato l'emergere della società post-industriale. L'idea è diventata opinione comune. L’origine del cambiamento è stata spiegata con l’avvento della rivoluzione dei computer e la globalizzazione dei mercati. La globalizzazione non è un evento nuovo nella storia del capitalismo. Ma si è presentata in forme profondamente nuove. La divisione internazionale del lavoro è basata, secondo Ricardo, sulla teoria dei "vantaggi comparati": ogni paese ha una propria vocazione naturale e un livello di sviluppo tecnologico che lo induce a concentrarsi su determinate produzioni. Una politica aperta di scambi commerciali avvantaggia in questo modo tutti i paesi che vi partecipano. Senonchè, nella nuova fase della globalizzazione, la divisione internazionale del lavoro si applica non solo ai paesi, ma anche alle imprese che operano a livello globale.

Le nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione, insieme con la caduta del costo dei trasporti, hanno permesso di trasferire parte o la totalità della loro produzione in altri paesi, conservando il controllo sugli investimenti, la tecnologia, l’organizzazione del lavoro e le reti commerciali.

Ovviamente, la delocalizzazione, spesso in paesi molto lontani, richiede importanti cambiamenti nella strategia organizzativa, dalla logistica ai costi d’insediamento. Perciò la delocalizzazione esige la realizzazione di un quadro di convenienze e vantaggi significativi: un mercato aperto, la stabilità politica, bassi costi di manodopera e la flessibilità delle condizioni di lavoro, liberata dai molteplici vincoli legislativi e contrattuali che storicamente caratterizzano i paesi di vecchia industrializzazione. Da parte loro, i paesi emergenti, bisognosi di investimenti esteri, non erano in condizioni di resistere alle condizioni poste dalle imprese multinazionali.

Questo nuovo quadro, ha indotto i teorici del neo-liberismo a individuare nella deindustrializzazione la naturale evoluzione dei vecchi paesi industriali verso l’economia dei servizi e il primato della finanza. (si veda Appelbaum-Batt  in questo numero di Insight). Coloro che continuavano a rilevare l'importanza dell'industria manifatturiera sono stati considerati, nelle parole del prof Bhagwati, adoratori di un "feticcio" e di "una visione quasi-marxista" (si veda il commento Colitti in Insight/Settembre).
 
La teoria post-industriale è stata rafforzata dal successo dei grandi gruppi multinazionali in grado di realizzare crescenti profitti, avendo a disposizione con la delocalizzazione nei paesi in ritardo di sviluppo un approvvigionamento quasi illimitato di manodopera non qualificata con salari molto bassi e senza vincoli di ambiente e condizioni di lavoro. Al tempo stesso, il trasferimento della produzione, o la sua semplice minaccia, ha fortemente ridotto il potere contrattuale dei sindacati. L'occupazione industriale è crollata. I salari sono entrati in una fase di stagnazione. In America si è rotto il patto sociale implicito che collegava il salario alla crescita della produttività. Con la deregolamentazione del mercato del lavoro e la caduta della rappresentanza sindacale è comparso un esercito di lavoratori poveri. La disuguaglianza è diventata il segno dell'economia e della società americane. I problemi economici e sociali derivanti dalla de-industrializzazione e dalla globalizzazione sono stati considerati il prezzo da pagare per i benefici della transizione verso la società post-industriale, basata sui servizi e, in particolare, sulle meraviglie della finanza.

2. Questo non fu l’unico risultato della deindustrializzazione. Oltre le fratture sociali, la de-industrializzazione ha avuto un esteso impatto economico sul ruolo degli Stati Uniti in rapporto alle nuove economie emergenti. La tesi post-industriale era basata sull'idea che il lavoro industriale scomparso sarebbe stato sostituito da posti di lavoro ad alto valore aggiunto nel settore dei servizi. L’America avrebbe conservato i posti di lavoro ad alto contenuto tecnologico, mentre le economie emergenti si sarebbero concentrate sulle produzioni a basso valore aggiunto. Ma l'emergere dei BRIC –Brasile, Russia, India e Cina - negli ultimi dieci anni ha profondamente cambiato questo scenario. La Cina è un esempio stupefacente del profondo cambiamento nella divisione internazionale del lavoro. Le grandi imprese cinesi hanno intensificato il passaggio dalla produzione a bassa intensità tecnologica verso prodotti via via più sofisticati. "In passato - ha scritto il New York Times - i posti di lavoro degli Stati Uniti più suscettibili di essere trasferiti all'estero sono stati quelli a più bassa qualificazione. Ma ora le economie emergenti raccolgono i frutti dei loro investimenti a lungo termine in materia di istruzione, di specializzazione nelle discipline matematiche e scientifiche, attraendo sulle sue coste imprese ad alta tecnologia - non solo fabbriche tessili e "call center ".

Il governo cinese ha identificato un insieme di settori strategici sui quali puntare dalle bioscienze, alle nanotecnologie e ai nuovi materiali. Al tempo stesso, impone alle imprese multinazionali di condividere la licenza per le tecnologie più avanzate con i partner locali come condizione di accesso al mercato cinese. In questo modo la Cina non solo sta costruendo la rete più estesa a livello mondiale di treni veloci, ma si è impossessata della tecnologia delle grandi imprese tedesche, francesi, canadesi per essere in grado di produrli direttamente.  La Cina è già uno dei principali produttori mondiali di turbine eoliche e di pannelli solari - e questo è un pezzo centrale del nuovo settore manifatturiero globale che, considerata la riduzione della spesa pubblica in direzione dell’economia verde negli Stati Uniti e in Europa, rischia di essere messo in crisi dalla crescente competitività cinese .

Il salto industriale è evidente in tutti i settori, compresi quelli a lungo dominati dai vecchi paesi industriali. Secondo le previsioni correnti, la Cina produrrà trenta milioni di auto entro il 2015, il doppio della produzione americana prima della crisi. E le auto a trazione elettrica sono un pilastro del nuovo piano di sviluppo quinquennale, promuovendo lo sviluppo di batterie ad alta efficienza, in concorrenza con Stati Uniti, Europa e Giappone.

Di fronte a questi cambiamenti di scenario, non è un caso che le aziende globali stiano spostando i centri di ricerca e sviluppo in Cina e in India per essere più vicini al processo di produzione e ai mercati in crescita. Così si offusca, quando non svanisce del tutto, la presunta superiorità industriale occidentale basata sui prodotti tecnologicamente sofisticati nel confronto con quelli a bassa specializzazione dei paesi di nuova industrializzazione.

3. E 'ragionevole ignorare queste dinamiche e dare alla politica valutaria il compito di risolvere l'attuale squilibrio conto degli Stati Uniti e la disoccupazione? Fred Bergsten, direttore del Peterson Institute, ha sostenuto di fronte a una commissione del Congresso che l'aumento del 20% - 25% dello yuan nel corso dei prossimi due-tre anni creerebbe circa mezzo milione di posti di lavoro negli stati Uniti. Una cifra difficilmente confrontabile agli 8,4 milioni di posti di lavoro perduti in seguito alla recessione. In ogni caso, l'argomento non è convincente. Quando, tra il luglio 2005 e luglio 2008, lo yuan si è apprezzato di circa il 20 per cento contro il dollaro, il surplus commerciale della Cina con gli Stati Uniti ha continuato a crescere, e la svalutazione è stata ampiamente compensata dalla crescita della produttività e dalla riduzione dei costi. Le esportazioni cinesi contengono una media del cinquanta per cento di componenti intermedi importati, il cui costo si riduce insieme con l'apprezzamento dello yuan. A questo si aggiunge che un terzo dell’import dalla Cina degli Stati Uniti è costituito da prodotti di imprese multinazionali statunitensi, che, a fronte di un aumento dei costi cinesi, potrebbero spostare - come già in parte accade - le importazioni di merci come il tessile, l’abbigliamento, l’elettronica di consumo verso altri paesi del sudest asiatico con costi inferiori.
 
Il tentativo di risolvere il deficit  commerciale degli Stati Uniti manovrando il cambio rischia di essere una soluzione inefficace e fuorviante. Stephen Roach del Morgan Stanley - Asia ha fatto notare che il dollaro è sceso del 23 per cento (in termini reali) dal 2002, ma "l'America continua a lottare con un alto tasso di disoccupazione e salari stagnanti, e ora ha disavanzi commerciali con 90 paesi in tutto il mondo”.

Altri problemi strutturali, a cominciare dal lungo e teorizzato declino dell'industria manifatturiera, devono essere affrontati. Quella che rischia di innestare una pericolosa guerra valutaria e commerciale è sostenuta dalla tesi della “manipolazione” del cambio da parte del governo cinese. Che vi sia un controllo del governo cinese sull’andamento del cambio è fuori discussione. Ma non è una novità, né un caso isolato. "Lo stesso concetto di manipolazione di valuta è in se sbagliato – ha osservato A. Stiglitz - tutti i governi intraprendono azioni che direttamente o indirettamente influenzano il tasso di cambio ...(e) il surplus delle partite correnti della Cina ... come percentuale del PIL è del 5% per cento, rispetto a quello della Germania 5,2 % ... Purtroppo questa crisi globale si è prodotta in America, e l'America deve guardare al suo interno".

La disputa sul valore dello yuan corrisponde, in ultima analisi, all’obiettivo di una progressiva svalutazione del dollaro, indirettamente già in atto nei confronti dei paesi emergenti (oltre che del Giappone). Il ministro delle finanze del Brasile ha denunciato una situazione di progressivo e insostenibile apprezzamento del real che mette a rischio la crescita. Il paradosso sta nel fatto che la politica monetaria americana con tassi d’interesse prossimi a zero è utilizzata non per rilanciare gli investimenti interni ma per alimentare le esportazioni di capitali verso i paesi emergenti che sono gli unici in crescita, alimentando l’apprezzamento delle loro valute, le spinte inflazionistiche e il rischio di bolle immobiliari. In altri termini, l’incapacità di stati Uniti e Unione europea di rilanciare la crescita interna con politiche di investimenti pubblici, bloccati dalle politiche di austerità, prolunga la crisi nei paesi ricchi e insidia la crescita dei paesi emergenti.
 
Tornando al tema della deindustrializzazione, quello che Bhagwati definisce ironicamente Il "fascino dell’industria” è tutt’altro che un riflesso nostalgico. Tra i grandi paesi europei, l’Inghilterra, prima con Margaret Thatcher e poi con Tony Blair, è stata la più decisa nell’ossequio verso il totem post-industriale e ora possiamo osservarne gli infelici risultati in seguito al crollo finanziario. Un modello diverso con risultati migliori è stato perseguito dalla Francia, accusata per la sua preferenza "colbertista" verso i "campioni nazionali". Di gran lunga la migliore alternativa alla dottrina post-industriale è stata appannaggio della Germania che ha dimostrato come la deindustrializzazione non fosse fatale.  Ha conservato e sviluppato un forte potere industriale basato su aziende altamente competitive in ogni settore produttivo importante, creando le basi di un elevato e costante surplus commerciale. E, al tempo stesso, un approccio diverso nei confronti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro, com’è significativamente dimostrato dal recente accordo tra Siemens e IG Metall, finalizzato a garantire la stabilità del posto di lavoro per i 120.000 lavoratori delle fabbriche tedesche.

Riequilibrare l'economia americana, e le economie occidentali in generale, richiede investimenti in ricerca e tecnologie per rinnovare vecchi settori industriali e acquisire una leadership nei nuovi. In altri termini, una rivalutazione della politica industriale come un asse indispensabile della politica economica, della ricerca e dell’innovazione tecnologica. E questo è esattamente l'opposto del ritiro dal governo dall'economia e del paradigma post-industriale, esaltato dall’ideologia liberista degli ultimi decenni. Una guerra sul terreno dei cambi può solo mascherare, ma non avviare a soluzione, i gravi problemi economici e sociali, che nel primo decennio del XXI secolo hanno devastato due volte gli Stati Uniti e in Europa.
 

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