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Assiomatica liberista e convenienze di classe

Luigi Vinci

La dottrina economica liberista nella versione della Scuola di Chicago, dominante da una trentina d’anni in Occidente (della quale, nonostante il fallimento sancito dalla crisi del 2008, dalla recessione che ne è seguita e soprattutto, direi, dalla lunga depressione che sta seguendo alla recessione, continuano a essere imbevuti i cervelli di ceti politici di governo, economisti di fama e operatori dell’informazione), si fonda su una serie di assiomi che pretende essere indiscutibili, assolutamente veri, e che i fatti si incaricano invece quotidianamente di mostrare che sono fasulli, producendo l’esatto contrario di ciò che vorrebbero. Valga l’esempio greco: non c’è giorno in cui qualche individuo, governante di qualche paese europeo, economista pluricattedrato, opinionista di fama pluristipendiato, burocrate o tecnocrate incontrollato alla testa dell’Unione Europea, non insista sulla necessità che la Grecia tagli il suo debito pubblico al ritmo che le è stato ferocemente imposto, non solo allo scopo di ottenere quei prestiti che le servono a evitare l’insolvenza dello stato, ma perché finalmente la sua economia riesca a crescere: mentre è di un’evidenza solare che sono questi tagli, massacrando la capacità di spesa della popolazione greca, la causa fondamentale della pesante recessione nella quale la Grecia è precipitata, della riproduzione allargata di condizioni di insolvenza dello stato, della quasi inevitabilità del suo fallimento dichiarato.

Esaminiamo qualche assioma. Il primo non può che essere quello che regge l’intera impalcatura del liberismo: il mercato come il “luogo” del processo economico che porterebbe, a meno sia disturbato dalla politica, all’ottimizzazione degli effetti di questo processo in sede di crescita economica, occupazione, remunerazione del lavoro, diffusione sociale del benessere. Compito dello stato sarebbe di limitarsi a fare da guardiano notturno e, se del caso, da pompiere delle cose dell’economia quando incidentalmente non tornino. In concreto si tratterebbe di operare interventi oculati in sede di quantità di moneta circolante e di tassi di interesse, nel momento in cui vengano a costituirsi situazioni di scarsità di fattori produttivi, spinte inflative, eventualmente crack di istituzioni finanziarie capitalistiche; inoltre in condizioni di caduta produttiva si tratterebbe, sostanzialmente, di lasciar correre.

Se è vero che interventi dello stato potrebbero contrastarla, creando domanda sociale o tramite investimenti produttivi o in infrastrutture, vero sarebbe pure che questi interventi non consentirebbero la correzione delle ragioni della crisi, le ignorerebbero, quindi le prolungherebbero, rendendo la depressione faticosa da superare, lunga, ovvero impedendo al mercato di ridarsi da fare sul terreno dell’ottimizzazione dei risultati del processo economico. L’esempio greco ci dice invece come sia proprio la debolezza della domanda sociale e, di conseguenza, degli investimenti da parte del capitale privato il fattore primario di lunghe depressioni. Altro assioma: il fattore di massimo disturbo dal lato della politica rispetto al processo economico e alla sua capacità di risultati ottimali sarebbe l’esistenza stessa dello stato nelle sue forme ampie novecentesche europee, risultato di un secolo e mezzo di lotte di classe: cioè l’esistenza stessa di un complesso di funzioni e di istituzioni, centrali e decentrate, sostenute da una fiscalità elevata di tipo progressivo, che da un lato garantisce rappresentanza anche alle classi popolari, grazie a sistemi elettorali che tutelano l’effettiva composizione politica delle popolazioni, dall’altro fornisce prestazioni gratuite o semigratuite all’intera popolazione, definite nella forma di diritti universali, in sede di cure, istruzione, più forme di assistenza, pensioni, ecc., parimenti redistribuisce verso il basso, attraverso queste prestazioni e attraverso la leva fiscale, il reddito sociale, definisce uno stock di diritti del lavoro salariato, dispone direttamente o indirettamente di infrastrutture decisive, possiede impianti industriali di significato strategico per lo sviluppo, possiede, per la medesima ragione, banche, ecc. Lo stato dovrebbe invece essere ridotto, dice l’assioma, al minimo indispensabile. Alla riduzione della sua politica economica a politica monetaria e della riduzione della spesa pubblica dovrebbe quindi accompagnarsi l’impedimento di situazioni di monopolio, in altre parole, andando al sodo, l’abbattimento dei ruoli e delle possibilità operative delle organizzazioni sindacali, l’abbattimento delle protezioni giuridiche, non solo di quelle materiali, dei lavoratori. Parimenti, va da sé, lo stato deve effettivamente disporre di efficaci apparati della repressione, possibilmente rafforzarli: il liberismo sa benissimo che alle sue politiche economiche e sociali non può che corrispondere un incremento delle varie forme della rivolta sociale. L’assioma, infine, che intende giustificare ideologicamente quest’orientamento è l’affermazione della necessità che lo stato sia oculato amministratore di se stesso, non sia uno stato sprecone, non indebiti il futuro della società, realizzi perciò il pareggio di bilancio. In questa prospettiva tutto ciò che lo stato spende sarebbe dunque spesa improduttiva, non sarebbe mai anche investimento, diretto o indiretto. Ciò a cui in realtà serve quest’assioma sono, in solido, l’abbattimento della spesa sociale e quello del prelievo fiscale sulle classi ricche. E’ servito in questo ventennio di vita dell’Unione Europea a ridurre sempre più retribuzioni e diritti del lavoro e stato sociale. Ma per l’appunto si trattava di ridurre lo spreco: esso danneggia il futuro delle nuove generazioni e di quelle che verranno, solo il libero mercato può effettivamente garantirlo. Proprio come stiamo vedendo: le giovani generazioni europee hanno effettivamente davanti a sé un futuro radioso. L’unica cosa che non si capisce è perché siano sempre più incazzate.

Un assioma di sostegno ai precedenti, utile alla giustificazione del liberismo quando esso stia palesemente creando gravi guai alla società e alla stessa economia, è dato da una sorta di ineluttabilità naturale della libertà di mercato; è nel fatto, cioè, che la piena libertà di mercato creata dalle controriforme politiche liberiste degli anni ottanta e successivi operate dalle presidenze Reagan e poi Clinton, fatte proprie dai vari ceti politici di governo europei e imposte dall’Occidente a quasi tutto il resto mondo, sarebbe il risultato di un processo irresistibile determinato dal mercato stesso. Tentare di impedirlo o anche solo di frenarlo sarebbe irrazionale, antistorico, controproducente. Anche questa è una panzana: il liberismo è stato il risultato di una decisione politica, e politicamente può essere contrastato, quanto meno in sede di sua generalizzazione e di suoi effetti disastrosi. Se guardiamo a quanto accaduto nei vent’anni successivi al varo dell’attuale ciclo liberista, vediamo come una quantità crescente di stati della periferia sia riuscita ad avviare politiche di sviluppo, infine a realizzare performances straordinarie di crescita, creando elementi significativi di autonomia parziale rispetto al mercato mondiale, decidendo su questa base politiche di bilancio orientate all’investimento, in primo luogo pubblico, e alla spesa creatrice di domanda aggregata, stropicciandosene del fatto che ciò producesse indebitamento dello stato, riuscendo infatti quest’indebitamento a reggerlo e a contenerlo proprio grazie alla crescita: mentre quegli stati che si piegavano alle imposizioni delle agenzie internazionali in fatto di “riaggiustamenti strutturali” annegavano nel debito, nell’insolvenza e nella miseria delle popolazioni.

Bufala correlata: il mercato (o “i mercati”) come sorta di realtà impersonale dotata tuttavia di una propria consapevole razionalità. Oggi giorno i mass-media chiedono a opinionisti, economisti e politici di fede liberista quali siano le intenzioni dei mercati; ogni giorno le oscillazioni di borsa sono interpretate alla luce di queste intenzioni. I “mercati” ci chiedono pressantemente, per il nostro bene, com’è chiaro, di abbattere il debito pubblico, abbattere il sistema pensionistico di lavoro dipendente, donne, giovani, affamare i greci, costituzionalizzare il pareggio di bilancio, ecc. Però, senza che mai appaia contraddittorio, c’è pure che essi speculano alla grande, sgangherando condizioni di bilancio degli stati, efficacia dei loro tentativi a nome della crescita o a soccorso di paesi in difficoltà, sopravvivenza della Grecia, dell’euro, dell’Unione Europea, ecc. La cosa si capisce solo se si capisce cosa siano i “mercati”: in realtà, cinque o sei grandi banche d’affari statunitensi che, fruendo dell’immensa quantità di ricchezza fittizia nelle loro mani (il denaro fittizio è oggi nel mondo 12 volte il suo PIL annuo), fruendo inoltre della libertà di fare quel che vogliono, manovrando infine le agenzie di rating (delle quali sono azionisti fondamentali), dichiarano apertis verbis ormai da tempo che, essendo la loro ragione sociale quella di fare più quattrini possibile, la loro intenzione è di trasformare gli effetti in Europa della crisi nel più grande business di tutti i tempi, facendo ballare euro e Unione Europea e, se possibile, mettendoli in ginocchio, profittando a questo riguardo delle difficoltà finanziarie di alcuni paesi e dell’ostinazione con la quale istituzioni europee di governo, governi tedesco e francese, in coda a loro tutti gli altri governi, continuano a imporre ai paesi in difficoltà misure che hanno portata pesantemente prociclica, cioè che invece di risolvere le varie difficoltà in campo tendono a dilatarle e a renderle ingestibili.

Riprendiamo l’assioma fondamentale: il mercato come quel luogo economico che, non disturbato dalla politica, porterebbe a risultati ottimali sia economici che sociali. In realtà, come mostra l’intera storia della contemporaneità capitalistica (quella della seconda rivoluzione industriale; quella della sua fase imperialista, secondo la tradizione marxista), quest’assioma significa che al mercato è concesso di generalizzarsi al complesso delle richieste e delle relazioni sociali, inoltre è concesso ai suoi operatori capitalistici, in primo luogo a quelli finanziari, di operare in condizioni di deregulation generalizzata, dunque di creare volumi in crescita incontrollata di ricchezza fittizia anche realizzando ogni sorta di azzardo speculativo. Ma, se questo significa che alle classi ricche diventa possibile un’espansione esponenziale della propria ricchezza, significa pure una pressione negativa sulle capacità di spesa delle classi popolari, sulle condizioni della finanza pubblica, obbligata a un indebitamento crescente, sulle stesse capacità espansive, di conseguenza, dell’economia reale. Questo processo può inizialmente creare spinte alla crescita dell’economia: porta però pure al rallentamento della produzione reale, a cicli produttivi sempre più brevi, a cadute produttive sempre più ravvicinate, a crack di “bolle” speculative, cioè di operazioni finanziarie decontestualizzate in estremo eccesso dal valore dei corrispettivi reali (negli Stati Uniti: dei titoli tecnologici, nel 2.000; dei mutui per l’acquisto della casa, nel 2007; sino ai successivi fallimenti bancari, ecc.), infine porta a una crisi dell’intera base produttiva sociale, che è di ardua reversibilità. Quella in corso in Occidente non è la prima esperienza in questo senso: furono tali la crisi del 1873, che portò a una depressione dell’economia che durò fino al 1895, tanto che il movimento operaio si illuse che fosse in corso d’opera un crollo definitivo del capitalismo, e la crisi del 1929, che portò a una depressione dalla quale il capitalismo uscì solo con le spese di riarmo effettuate a ridosso della seconda guerra mondiale, e che fu anche attraversata da una nuova pesante recessione, nel 1939.

Giova chiedersi, essendo questa la realtà evidente delle cose, per quali motivi governanti, economisti, operatori dell’informazione, più in generale l’intero apparato di gestione politica e ideologica della grande borghesia insistano in Occidente nel proseguimento delle politiche liberiste, anzi nei momenti di crisi, nei quali sarebbe assolutamente necessario che queste politiche vengano ribaltate, si accaniscano nella loro più rapida generalizzazione. Addirittura perché si espandano potentemente e divengano condizionanti i corsi politici movimenti antistatali come i teocons statunitensi, i conservatori britannici gli vadano a ruota, ecc. Perché, ancora, gli elementi di ripensamento borghese e in una parte dei ceti di governo europei socialdemocratici o in una parte del PD siano così limitati, contraddittori e, in ultima analisi, inadeguati rispetto agli obiettivi dichiarati di ripresa economica e di riduzione del danno sociale portato dal liberismo e dalla crisi. Tutto questo riflette, pur in termini non omogenei, il fatto che la totalità della grande borghesia, comprese le sue frange ripensanti, non è per nulla disposta a incrementi sostanziosi del suo contributo fiscale alle casse dello stato, parimenti non abbia nessuna intenzione di rinunciare alle condizioni che ne hanno incrementato e continuano a incrementarne la gigantesca ricchezza, tramite soprattutto la creazione speculativa di ricchezza fittizia da parte delle banche e delle imprese multinazionali. Insomma se a una parte della grande borghesia può risultare accettabile che il liberismo sia integrato con qualcosa che possa tentare di rovesciare la crisi, quanto meno di attenuarne i peggiori effetti antisociali, servendo con ciò pure a evitare pericolosi sconquassi politici e sociali, più in là essa non vuole che si vada. Di qui anche il suo veto rispetto a una tale eventualità riguardo alla totalità delle parti politiche che da essa più o meno strettamente dipendono, le sono collegate, ricorrendo a tutta la potenza di fuoco dei mass-media e a ogni altra forma di condizionamento. A nome ovviamente degli interessi generali della società: la ripresa produttiva, buone condizioni di esistenza delle future generazioni, ecc. La paccottiglia ideologica non può che continuare a essere la stessa.

Non sarebbe tuttavia corretto cogliere solamente questa determinazione egoistica della posizione politico-culturale della grande borghesia e di questo suo condizionamento rispetto alle forze politiche che più o meno organicamente la rappresentano. Ci sono almeno altri due tipi di determinazioni da tenere presenti: anche per essere a sinistra più efficaci nella lotta al liberismo, ai suoi effetti sociali ed economici di fondo e, con ciò, al sistema di rapporti sociali capitalistici.

Si tratta, intanto, del cambiamento antropologico avvenuto a seguito dello sfondamento da parte del liberismo nella politica e nella cultura sociale dell’Occidente. Lo constatò per primo e nel modo più efficace, a suo tempo, Karl Polanyi: il liberismo dispone di una grande potenzialità egemonica nelle società occidentali, grazie in primo luogo alle sue promesse, in secondo luogo alla sua capacità di agganciare pulsioni antropologico-culturali di più o meno lunga lena storica. Esso pone, andando al sodo, aggressività individualista, competitività estrema in ogni momento e sede delle relazioni sociali, dissolvimento quindi di ogni senso di appartenenza a collettività di popolo, di ogni legame alle loro necessità obiettive, come condizioni del successo personale; al tempo stesso pone questo successo come effettivamente realizzabile da parte di chicchessia. Sono state così storicamente conquistate all’inizio di ogni lungo ciclo liberista le fasce deprivate e non organizzate di popolo, in primo luogo il grosso del suo elemento piccolo-borghese ma anche una parte del suo elemento proletario. L’ubiquità culturale propria dei ceti politici autonomizzati, anch’essa parte della storia antropologico-culturale dell’Occidente, a oggi con scarse e provvisorie eccezioni, li porta simultaneamente, a fini di massimizzazione della loro influenza sociale e delle loro possibilità di ascesa al governo dello stato, a rifarsi ai contenuti di quel cambiamento antropologico, inoltre a dilatarli, a operare a generalizzarli. La grande borghesia ovviamente ci va a nozze, fornirà perciò da subito a questi ceti politici appoggi monetari e tramite i suoi mass-media. E così via. Si badi: questo posizionamento di ceto politico vale anche, anzi vale in maniera ancor più cogente, nei momenti di crisi del liberismo, quanto meno per quanto attiene al grosso delle sue componenti partitiche. D’altra parte, nel momento in cui nel corso di questa crisi, in via di ipotesi purtroppo molto astratta, i popoli europei decidessero a grande maggioranza la sostituzione del liberismo con un indirizzo di politica economica e sociale davvero espansivo, progressivo, la quasi totalità dei ceti politici di governo, delle burocrazie e delle tecnocrazie europee, una grande quantità di gazzettieri e di economisti, ecc. si troverebbero disoccupati o, se gli andasse bene, a regredire dalle loro attuali condizioni di potere, di prestigio e anche di reddito a quelle della fascia inferiore della piccola borghesia. Concludendo, il cambiamento in Europa non sarà facile, ancor meno è a portata di mano. Gli umori popolari stanno cambiando, anche velocemente, ma prima che smaltiscano le loro illusioni su questa o quella frazione dei ceti politici di governo ce ne vorrà. Tanto più in quanto a sinistra c’è davvero poco.

Si tratta, poi, del fatto che nessuna classe sociale si è mai costituita in classe “per sé”, consapevole delle sue convenienze e capace di lottare per affermarle, semplicemente elaborando la propria posizione dentro al processo della produzione materiale. Si tratta invece a questo proposito di un itinerario costituente molto complicato, che sconta preesistenze culturali, storie politiche di popolo, un grande prolungato sforzo di elaborazione di rappresentazioni del reale e di idee e proposte con possibilità egemoniche da portare alla società. Quando, in più, si tratta delle classi subalterne accade che grandi sconfitte possano portarle a ripartire da capo, o quasi. Questa è la nostra situazione di oggi in Europa. Per quanto attiene alla grande borghesia, così come attiene alle forze politiche che più o meno ne dipendono, essa ha storicamente prodotto il liberismo non ora ma a partire dalla prima metà del Settecento: il mercato che con la sua “mano invisibile” si autoregola e ottimizza, ovvero il diritto del capitalista a fare quello che gli pare, ma ritenendo, o meglio facendo ritenere alla società, che questo sia di generale convenienza. Inoltre il processo storico ha mostrato alla grande borghesia che è meglio per essa curarsi direttamente dei propri affari anziché impegnarsi in politica, salvo momenti di emergenza, nei quali tuttavia quest’impegno risulta a termine. D’altra parte essa ha scoperto di essere in grado di offrire a una quota non irrilevante della piccola borghesia un modo di facile ascesa sociale, quello appunto della politica, e che ciò offrendole ne ha in cambio i servizi necessari. Inoltre ha scoperto la facilità con la quale è in grado di portare i ceti autonomizzati e le burocrazie del movimento operaio a rendere questi medesimi servizi. E’ dunque operante in Occidente, in particolare in Europa, un blocco di interessi di potere tutt’altro che rozzo, bensì dotato di straordinari mezzi non solo economici e politici ma anche culturali, ben rodati, sofisticati, duttili. Prima la sinistra anticapitalista questo capirà, prima riuscirà a superare le caratteristiche primitive proprie di ogni momento di nuovo inizio successivo alle grandi sconfitte: accodamenti subalterni, affidamenti acritici a leadership parolaie, loro contraltari partitici o di movimento estremizzanti e gruppettari.

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