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Un esercizio di egemonia perfettamente riuscito

di Antonio Calafati

Lo si capisce già dalle prime pagine di Manifesto capitalista*, quanto sia profonda la crisi del pensiero neoliberista. Scrive Luigi Zingales come viatico al lungo viaggio che compie in questo libro: “E quando arrivai in America (…) provai l’emozione inebriante di avere ogni obiettivo alla mia portata. Ero finalmente in una nazione in cui i limiti ai miei sogni dipendevano solo dalle mie capacità”. In effetti, non c’è più nulla da dire e da pensare, nessun argomento razionale per difendere il capitalismo americano e i suoi mercati finanziari. Ai neoliberisti non resta che disconoscerlo, affrettarsi a rinnovare la promessa di una riforma del sistema, e riscoprire la “retorica della frontiera”.

Molti sostenitori del capitalismo americano, quelli che avevano una coscienza liberale, per quanto incerta, erano preoccupati già da molto tempo. Non occorreva attendere la crisi finanziaria del 2008 per accorgersi di ciò che stava accadendo: “Tra il 1997 e il 2001 ci sono stati cambiamenti nel nostro sistema finanziario che mi hanno profondamente preoccupato” (“The New York Review of Books”, XLIX, n. 3) scriveva con mesto sconforto Felix G. Rohatyin, ambasciatore degli Stati Uniti in Francia e banchiere di lungo corso. Se lo chiedeva nel 2002, riflettendo su ciò che erano diventati i mercati finanziari, non nella loro isterica instabilità, bensì nella loro progettata indecenza. E poco più avanti aggiungeva: “Forse è troppo presto per emettere un giudizio definitivo, ma gli eventi recenti fanno pensare che il nostro sistema di regolazione stia fallendo”.

Se lo chiedeva preoccupato, ma anche imbarazzato, ricordando le conferenze che aveva tenuto in Europa per dire della superiorità del capitalismo americano.

Non è la crisi finanziaria che esplode nel 2008 a segnare la natura del capitalismo americano, bensì la funzione che in esso assume il sistema finanziario, trasformato in uno strumento di redistribuzione del reddito e della ricchezza alla scala globale: una “macchina sociale” per estrarre valore, per condurre ciò che Luciano Gallino ha recentemente chiamato La lotta di classe dopo la lotta di classe (Laterza, 2012). L’implosione del sistema finanziario e il salvataggio attraverso l’intervento dei governi nazionali sono stati una tappa annunciata, lungo un percorso ben tracciato, e non una catastrofe inattesa. Non è la crisi del 2008 a mostrare che cosa era diventato il capitalismo ma, come ha cercato di farci capire Tony Judt (Guasto è il mondo, Laterza, 2012), l’esasperato individualismo e la perdita di ogni misura nelle disuguaglianze sociali che si manifestano sullo sfondo della scolastica neoliberista.

Zingales crede di trovare una strategia di difesa proponendo, come primo passo, la tesi di una cesura nella storia recente: con Clinton inizia e con Bush accelera il processo di corruzione del capitalismo americano, di quel “capitalismo popolare” che Reagan aveva delineato per gli Stati Uniti (e per noi tutti). Una storicizzazione necessaria per interpretare le aberrazioni del capitalismo di questi anni come una deviazione recente e temporanea, una “malattia leggera” facile da curare. Ma è una tesi difficile da sostenere, che l’autore non prova neppure ad argomentare. L’autore si trova comunque in una strada senza uscita perché, fatto il primo passo, è costretto a spiegare la negligenza dei neoliberisti, incapaci di accorgersi della corruzione del capitalismo. Non evita la questione e prova a dare una risposta, nel capitolo sei, che intitola La responsabilità degli intellettuali e nel quale propone, con convinzione, la tesi della “cattura”, la tesi di menti prese in trappola dal sistema: “Vi sono degli incentivi economici tali da incoraggiare anche i regolatori con le migliori intenzioni a soddisfare gli interessi delle aziende che sono chiamati a regolare”. E prosegue con la domanda inevitabile: “Perché gli economisti (e in particolare quelli come me, che lavorano nelle scuole di business e hanno legami con il mondo degli affari) non potrebbero [essere catturati] a loro volta, mettendosi a difendere l’interesse del business, invece di quello di mercati liberi e competitivi?”. Il lettore cerca nel libro una ragione che lo rassicuri, una ragione perché ciò non possa avvenire, non sia avvenuto. Una ragione che non lo costringa, per comprendere i neoliberisti di questi anni, a riprendere in mano – e sarebbe un paradosso – La mente prigioniera di Czeslaw Milosz (Adelphi, 1981). Ma una ragione non la trova. (Comunque, a noi, qui, parlare di “responsabilità degli intellettuali” ricorda altro: di persone che esprimono azioni e pensieri ancorati a codici morali).

La strategia difensiva di Zingales è tutta qui, in queste due tesi: è una forma corrotta di capitalismo quella che abbiamo visto fallire; non ci siamo accorti che il capitalismo si stava corrompendo. Ma è una linea difensiva immaginaria. Perché è del tutto evidente che il sistema finanziario che fallisce così fragorosamente (e tragicamente) è il prodotto di un’intenzione, di un’agenda politica pensata e realizzata. Non erano “perfetti” i mercati finanziari che si stavano costruendo nell’opinione dei neoliberisti? Non erano capaci di “autoregolarsi”? E l’innovazione finanziaria che si manifestava dentro il sistema di regole progettate e introdotte non garantiva l’efficienza dei mercati? Non si è riesumato, per dare un fondamento analitico ai cambiamenti delle regole, il “teorema di Modigliani-Miller” – e la “perfezione” dei mercati finanziari che esso “dimostrava”, la loro capacità di attualizzare il futuro, come Dio nell’epistemologia di Laplace? E il mercato del lavoro, della terra e dell’energia non sono stati anch’essi deregolamentati come da teoria (neoliberista)? Il modello di capitalismo che fallisce è stato progettato e nello stesso tempo giustificato dagli economisti neoliberisti. Stupefacente leggere, ora, che chi sosteneva la solidità delle basi teoriche di quel progetto sociale, dei cambiamenti istituzionali che costruivano il capitalismo del futuro – il capitalismo “dopo la fine della storia” – aveva una “mente prigioniera”.

Ma l’agenda liberale che il libro propone per riformare il capitalismo sembra venire dalla stessa scolastica, che è riuscita a farsi credere scienza, con un esercizio di egemonia perfettamente riuscito. “Quando lo Stato inizia a prendersi 50 centesimi su ogni dollaro guadagnato, trasforma le persone in schiavi” afferma Zingales. Il lettore non ha il tempo di provare a dare un senso a questa affermazione, che gli sembra paradossale, perché già deve confrontarsi con un’altra inaudita verità: “In ogni ridistribuzione il dollaro dato a Caio è preso da Sempronio, quindi il trasferimento in sé non aumenta né diminuisce il benessere generale”. Quindi, se rinuncio a un concerto alla Scala e dono il corrispettivo del biglietto a una famiglia che non ha le risorse per mettere insieme un pasto, il “benessere generale” non aumenta?

E questa sarebbe un’agenda liberale? Ma dove sono finite le riflessioni di Rawls, Walzer, Dworkin, Sunstein, Sandel e dei tanti altri intellettuali americani che hanno dato forma al pensiero liberale, insegnandoci a riflettere sulla “giustizia distributiva”, sulla sua necessità come fondamento etico del capitalismo? Dove è finita l’utopia anarchica di Robert Nozick, certo non disposto ad archiviare la necessità di un giudizio morale sui mercati? Dove è finito Friedrich Hayek, che almeno lo scientismo aveva ripudiato ed era capace di assumersi la responsabilità morale del modello di società che proponeva? E da dove viene, invece, la sconcertante agenda liberale che Zingales ci presenta in questo libro, questo “grado zero” del pensiero che nega ogni altro pensiero?

Il lettore continuerà a chiederselo anche mentre legge la postfazione all’edizione italiana, mentre si dipana il consueto, logoro, approssimativo racconto dell’Italia, un paese nel quale “manca la cultura della legalità anche perché ci sono troppe leggi assurde, che rendono difficile operare nel rispetto della legge stessa”. D’altra parte, come non ricordare che “secoli di dominazioni e soprusi stranieri non hanno aiutato”. No, non hanno aiutato, certo, come non aiutano ora queste smarrite riflessioni sul nostro difficile presente.

Ma, alla fine, secondo l’autore, gli italiani riusciranno ad aprirsi un varco verso il futuro, verso la loro ancora inesplorata “frontiera”. E ad aprirlo saranno i “giovani”, le “donne” e gli “immigrati”, categorie di persone che secondo la segnatura dell’autore “non hanno nulla da perdere da un cambiamento”, come i diseredati di ogni tempo. Saranno loro a compiere la rivoluzione di cui Zingales delinea un sintetico programma, riproponendo le astratte categorie del pensiero neoconservatore, che conoscevamo e che abbiamo già visto all’opera: fisco meno esoso, competizione e meritocrazia, privatizzazioni e sistema elettorale uninominale. E sarà una rivoluzione che certo salverà l’Italia – dopo aver salvato gli Stati Uniti e il capitalismo.


*Luigi Zingales, Manifesto capitalista. Una rivoluzione liberale contro un'economia corrotta, pp. 406, € 18, Rizzoli, Milano 2012

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A. Calafati insegna economia urbana all’Università Politecnica delle Marche

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