Print Friendly, PDF & Email

Fra utopie letali e crisi reali

di Guglielmo Forges Davanzati

L'incapacità della sinistra di fornire una alternativa credibile all'odierna egemonia del paradigma neoliberista è anche dovuta all'energia dispersa per inseguire “obiettivi illusori e immaginari", come nel caso delle ideologie postoperaiste, anarchiche, “benecomuniste”. Nell'ultimo libro di Carlo Formenti una lettura della crisi a partire dalla dialettica fra “pensiero unico” e “pensiero critico”.

Utopie letali [qui la prefazione del libro] è il bel titolo dell’ultimo libro di Carlo Formenti[1]. E’ un titolo basato su un ossimoro, dal momento che al termine utopia si è soliti attribuire valenza positiva. Ma le utopie possono diventare letali quando “disperdono su obiettivi illusori e immaginari” le energie antagonistiche (p.8), ovvero – come nel caso delle ideologie postoperaiste, anarchiche, “benecomuniste” – quando utopie apparentemente antagonistiche si rivelano tutt’altro che antagonistiche, sia al sistema capitalistico, sia all’ideologia liberista che ne costituisce la legittimazione “scientifica”.

Utopie letali è un libro denso, estremamente documentato, nel quale si spazia dall’analisi delle politiche di austerità, ai processi di finanziarizzazione e globalizzazione, a temi più propriamente sociologico-politici. In relazione ai quali, Formenti assume una posizione netta, così riassumibile.

Tutte le ideologie antagonistiche fondate sulla convinzione che il capitalismo finanziarizzato e globalizzato possa essere superato “dal basso”, ovvero attraverso lo spontaneismo antigerarchico e antiautoritario dei “movimenti”, sono non solo destinate al fallimento

(il che è, peraltro, ampiamente dimostrato dai risultati che hanno raggiunto), ma sono pericolosamente fuorvianti ai fini della costruzione di dispositivi di efficace contrapposizione a quella che Luciano Gallino ha definito la “lotta di classe dall’alto”; lotta di classe unidirezionale (del capitale contro il lavoro) fatta di riduzione dei salari e dei diritti dei lavoratori, precarizzazione del lavoro, crescita della disoccupazione e della disoccupazione giovanile in particolare, sottoccupazione intellettuale, smantellamento del welfare, impoverimento dei ceti medi, crescente diseguaglianza distributiva e immobilità sociale.

Un caso macroscopico di “utopia letale” lo si ritrova nell’apologia della Rete, vista come luogo di interazione democratica e potenzialmente rivoluzionaria, laddove, per contro, come ampiamente dimostrato da Formenti, la Rete non è altro che un luogo nel quale si riproducono, sebbene in forme diverse, i rapporti capitalistici di potere e gli assetti gerarchici, e che “incorpora modelli culturali funzionali alla valorizzazione e al comando del capitale” (p.81). Formenti propone di tornare a riflettere sull’idea di partito, a partire dalla convinzione che le classi sociali, in senso marxiano e in quanto “realtà oggettive” (p. 71), non sono affatto scomparse e che è fallimentare la proposta – propria delle utopie letali – di “andare oltre … la storia e la cultura politica del Novecento” (p.8).

Il libro di Formenti ha il notevole merito di ricostruire lucidamente il percorso che ha condotto al ciclo economico-politico che stiamo vivendo e, al tempo stesso, ha il notevole merito di smascherare le aporie delle ideologie alle quali si è affidata la sinistra (non solo italiana e non solo “riformista”), e merita di essere letto attentamente per queste ragioni. Con una precisazione: ciò che l’autore definisce neo-liberismo ha ben poco a che vedere con teorie e politiche economiche che si basano sulla convinzione che un’economia di mercato deregolamentata produca il migliore degli esiti possibili. Se anche in molti testi e articoli di Economia continuano a leggersi queste tesi, nei fatti, il neo-liberismo è tutt’altro che liberismo: è semmai un connubio di deregolamentazione del mercato del lavoro e monopolizzazione degli altri mercati (finanziari in primo luogo).

Le argomentazioni di Formenti, assolutamente condivisibili, portano inevitabilmente a chiedersi qual è, e se esiste, il limite di sostenibilità (economico, sociale, politico) del processo di attacco al lavoro descritto nel volume. L’autore cita numerosi casi di inoppugnabile falsificazione delle teorie e delle politiche economiche “neo-liberiste”. Ci si riferisce, in particolare, ai numerosi contributi di Paul Krugman sulla irrazionalità delle politiche di austerità e alla scoperta del clamoroso errore commesso da Reinhart e Rogoff nella quantificazione dei criteri di sostenibilità del debito pubblico. Formenti commenta questi casi scrivendo che “i politici sanno quali sono gli strumenti con cui potrebbero porre fine alla crisi, per cui non hanno scuse”, che “la politica economica non è governata dal buon senso, bensì dagli interessi di classe” (p.19) e che gli interessi di classe – in questa fase – sono gli interessi del capitale (e della rendita finanziaria).

Mentre è difficilmente discutibile la tesi secondo la quale sono gli interessi di classe a guidare la politica economica, è controversa e più difficilmente difendibile l’idea che la critica della politica economica sia sostanzialmente ininfluente. Si tratta di una vexata quaestio, che, tuttavia, risulta decisamente attuale nel contesto presente. Non si può ignorare la (timida e tardiva) presa d’atto del fatto che le politiche di austerità non soltanto producono recessione, ma sono anche del tutto inefficaci per l’obiettivo che (ufficialmente) si propongono, ovvero la riduzione del rapporto debito pubblico/PIL. E si può ritenere che ciò dipenda anche dall’enorme mole di pubblicazioni, prodotte in questi ultimi anni, che ha dimostrato che le politiche di austerità generano esclusivamente “inutili sofferenze”, come peraltro certificato dal Fondo Monetario Internazionale.

Così come non si può ignorare il fatto che i nuovi Trattati Europei (in particolare, il Six-Pack) contengano alcune clausole che, di fatto, recepiscono proposte provenienti da economisti “eterodossi”: si pensi alla norma che prevede procedure di infrazione per avanzi/disavanzi eccessivi della bilancia commerciale, misura palesemente in contrasto rispetto alla tradizionale impostazione delle politiche economiche dell’Unione, che riprende un’analoga proposta formulata (senza successo) da John Maynard Keynes nella conferenza di Bretton Woods (l’”international clearing union”). Certo, si può sostenere che si tratta di un episodi marginali, che, nella fattispecie, questa norma non verrà mai attuata e che, se anche attuata, non impatterà in modo significativo sulle strategie del capitale. Peraltro, lo stesso Formenti descrive accuratamente numerosissimi casi di “controtendenze”, riferendoli a “lotte [per] la ricomposizione del proletariato globale” (p.118)[2].

In definitiva, pure a fronte del fatto che il “pensiero unico” è dominante nelle Università e nei media, si può riconoscere che, nella lotta del capitale contro il lavoro, il capitale non sempre riesce a mettere sotto silenzio le voci critiche e, dunque, non sempre riesce a contenere le spinte conflittuali. Non solo. La “lotta di classe” in atto si svolge all’interno di un capitalismo “flessibile”, capace di adattarsi e di mutare (come lo stesso autore rileva, seguendo Marx – v. pp.127 ss.), che modifica le proprie strategie in relazione alla necessità di creare, contestualmente, le condizioni per la sua riproduzione e le condizioni per la sua legittimazione sociale (cf. O’ Connor, 1973). E, nel modificare le proprie strategie, esprime una domanda di idee economiche che rende il mainstream sempre più disponibile a recepire posizioni teorico-politiche di orientamento “critico”[3].

Riferimenti bibliografici

Graziani, A. (2003). The monetary theory of production. Cambridge: Cambridge University Press. O’ Connor, J. (1973). The fiscal crisis of the state. St.Martin’s Press: New York.

Note

[1] Carlo Formenti, Utopie letali, Milano, Jaka Book, 2013, pp. 255, €18,00.

[2]
A queste si può aggiungere la recente protesta degli studenti della “Post Crash Economics Society” che contestano ai loro docenti di insegnare una teoria economica spacciandola come la teoria economica.

[3]
Fra i tanti esempi a riguardo, si può citare la svolta che, negli ultimi anni, ha subìto la teoria monetaria “neoclassica”. Nei paper di Economia pre-crisi (salvo rare eccezioni), pubblicati sulle principali riviste mainstream, si dava per assunto che l’offerta di moneta è esogena, ovvero gestita discrezionalmente dalla banca centrale, e che, dunque, quest’ultima è in condizione di stabilire autonomamente la quantità di moneta-credito offerta. In articoli più recenti, per contro, viene recepita la tesi keynesiana (e di Marx del libro III del Capitale), secondo la quale l’offerta di moneta è endogena, il sistema bancario nel suo complesso non ha necessità di raccogliere preventivamente risparmi per erogare finanziamenti a imprese e famiglie, la produzione di moneta-credito (in quanto “puro simbolo”) non incontra vincoli di scarsità. Da ciò si deriva che la banca centrale può controllare il solo tasso di interesse, non la quantità di moneta, e che quest’ultima dipende dalla domanda espressa dalle imprese per il finanziamento della produzione. Da ciò deriva (o dovrebbe derivare) la maggiore efficacia delle politiche fiscali rispetto alle politiche monetarie (sul tema, si rinvia a Graziani, 2003).

Add comment

Submit