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La solitudine del lavoro*

Alberto Burgio

Non vorrei che la prospettiva dalla quale mi è congeniale riflettere sul tema della rappresentanza sociale e politica del lavoro (o piuttosto sul deficit di rappresentanza) scontasse una sorta di deformazione professionale che m’induce a sopravvalutare il ruolo delle idee e del senso comune e quello delle ideologie e delle culture politiche dei gruppi dirigenti delle organizzazioni della sinistra e del movimento operaio. Lo dico perché in effetti il tema di questo incontro è per me un invito a nozze, in quanto la questione della rappresentanza mi sembra porre al centro – direi oggettivamente – il problema degli strumenti teorici, delle categorie concettuali per mezzo delle quali si legge la realtà, si analizza la composizione sociale, si definisce la geografia delle soggettività e delle relazioni tra le soggettività. D’altra parte si tratta evidentemente di temi di per sé molto complessi, non solo perché è complicato l’argomento, ma perché la complessità aumenta nel momento in cui l’analisi si fa riflessiva e coinvolge se stessa, i propri strumenti, i propri presupposti, le proprie strategie euristiche. Per questo chiedo scusa in anticipo per l’inevitabile sommarietà e disorganicità di quello che non pretende di essere che l’abbozzo di un primo schema di ragionamento.

Siamo alla chiusura di un ciclo storico, il che non significa che un nuovo ciclo si stia aprendo.
Se ci domandiamo quale rapporto la crisi che stiamo vivendo intrattenga con il trentennio neoliberista che l’ha preceduta, credo che la risposta debba essere che questa crisi è al tempo stesso lo sbocco naturale di quella fase e il suo coronamento.


Se stiamo a quelli che Gramsci soleva definire «fatti organici» (i processi riguardanti il modo di produzione e la configurazione storicamente determinata del rapporto sociale), la crisi esplosa nel 2007 a seguito della deflagrazione della bolla creditizia negli Stati Uniti si pone in continuità con la fase precedente, inaugurata dalla presidenza Reagan a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. La rivoluzione reazionaria di Reagan (e Thatcher) ha ridefinito i rapporti tra le classi (in particolare, tra capitale e lavoro) estromettendo il lavoro dalla direzione reale della società (tra gli anni Sessanta e Settanta le cose erano cambiate, a seguito di una stagione di imponenti lotte operaie) e riconsegnando al capitale una sovranità pressoché assoluta. Conseguenze cruciali di questa «grande trasformazione» sono il persistente attacco ai diritti e alle tutele sociali del lavoro subordinato e l’immiserimento delle classi lavoratrici in tutto l’Occidente industrializzato. Lo spostamento massiccio di quote di ricchezza sociale dal lavoro al capitale attraverso la riduzione del monte-salari, lo smantellamento dei sistemi pubblici di welfare, l’impiego della leva fiscale diretta. In capo a trent’anni, a cavallo tra il Novecento e il nuovo secolo, il lavoro è incomparabilmente più debole e povero di quanto non fosse in precedenza.

Da questo punto di vista i fatti del 2007 (l’insolvenza dei mutuatari subprime, l’esplosione della bolla immobiliare e l’effetto domino che ha coinvolto nel giro di due anni l’intero sistema creditizio e finanziario sulle due sponde dell’Atlantico) non costituisce certo una cesura rispetto alla fase neoliberista. Al contrario, questa crisi generale è l’esito fisiologico di quella fase, che l’ha incubata. E la gestione capitalistica della crisi (socializzazione del debito privato, rigore finanziario, privatizzazioni e ulteriore attacco al salario e ai diritti del lavoro) è, a sua volta, la coerente prosecuzione della guerra contro il lavoro scatenata dal capitale alla fine degli anni Settanta: la messa a valore della potenza politica accumulata dal capitale nel corso del trentennio neoliberista. In altri termini, la crisi non dovrebbe essere considerata come una malattia dalla quale «tutti» cerchiamo di guarire. Questa rappresentazione ideologica – tipica delle fasi emergenziali – è pura propaganda (tornerò su questo aspetto). In realtà, per il capitale la crisi è soprattutto un’arma da impiegare nel conflitto di classe. La sua gestione da parte di governi e autorità monetarie (in Europa a suon di austerità e cure dimagranti per i bilanci pubblici) è un formidabile strumento di regolazione in chiave neoliberista della dinamica riproduttiva. Lo stato d’eccezione proclamato sette anni fa, da una parte trasforma gli Stati, nel senso di abrogarne la funzione redistributiva; dall’altra porta a compimento (non soltanto sul terreno economico, ma anche sul piano politico-istituzionale, riscrivendo tacitamente le regole della sovranità) l’opera di privatizzazione del pubblico avviata dalla rivoluzione reaganiana. In questo quadro – se è lecito precipitare dalla storia alla cronaca – non destano stupore le ultime battute dell’eterna discussione sulle «regole del gioco» in corso nel nostro paese sulla pelle dei lavoratori. Al neo-segretario democratico che propone di «innovare» cancellando per due anni ogni tutela per i nuovi assunti replica il segretario del maggiore partito alleato del Pd al governo, che prospetta la cancellazione tout court dei contratti collettivi. Chi se ne meravigliasse mostrerebbe soltanto di non avere compreso come, al di là del gioco tra le parti politiche, il modello condiviso dai governanti in tutta l’eurozona si incentri sulla sovranità dell’impresa, unanimemente considerata protagonista della relazione sociale in quanto motore della dinamica economica. Altro che democrazie «fondate sul lavoro»!

Siamo dunque nel pieno di una lunga Restaurazione, e come in ogni fase restaurativa anche in questa le idee in gioco contano molto.
Il ciclo storico neoliberista si aprì all’insegna della proclamata morte delle ideologie. Il mondo si liberava delle «grandi narrazioni», come si sbarazzava di apparati statali invasivi (lacci e lacciuoli). In realtà l’unica ideologia che moriva era la prospettiva critica sottesa all’analisi di classe della formazione sociale. Le altre vedute, ortodosse e pacificate, sopravvivevano in piena salute, non essendo considerate ideologie, ma sobrie e oggettive descrizioni della realtà (anzi, della natura della società). Fatto sta che questo schema manicheo penetrò anche a sinistra, nelle file – e, in primo luogo, nei gruppi dirigenti – delle organizzazioni tradizionalmente vicine al movimento operaio. Con un corollario paradossale. Mentre si subiva una sconfitta di portata storica, si interpretavano i fatti nell’ottica dell’avversario, col risultato che una sconfitta veniva interpretata come una vittoria.

Si è verificato un fatto che credo non abbia precedenti in tutta la storia del movimento operaio che, pure, aveva conosciuto in passato significativi episodi trasformistici. Invece di riconoscere una sconfitta e quindi una vittoria della controparte; invece di continuare a considerare l’avversario un avversario, tenendo le posizioni, si è trasfigurata una sconfitta storica assumendola come una vittoria: una vittoria «di tutti»
(posto che la società non è luogo di contraddizioni oggettive, ma tutt’al più di conflitti riconducibili alla volontà dei soggetti): un progresso, appunto, lungo la via della modernità. Così ci spieghiamo il fiorire, anche a sinistra, della grande narrazione sulla modernizzazione, nel nome della quale tuttora si nobilitano le «riforme» che hanno via via trasformato i processi produttivi, le relazioni industriali, le politiche economiche e fiscali, i rapporti tra pubblico e privato, la funzione degli Stati, le Costituzioni formali e materiali e il quadro delle relazioni internazionali.

Ci si illuse che mandare in archivio il vecchio armamentario della critica dell’economia politica avrebbe restituito una nuova gioventù: più realismo, più leggerezza e, quindi, maggiore efficacia. In realtà ci si auto-ingannava, nel senso che la maggiore efficacia derivava soltanto dall’avere gradualmente modificato gli obiettivi della propria azione, riconvertendoli in modo da stemperarne o azzerarne il profilo critico. Si mettevano finalmente le mani in pasta, ci si emancipava dal frustrante ruolo dell’oppositore. Ma la ricetta era quella del vecchio avversario, al servizio del quale, più o meno consapevolmente, ci si disponeva.

Ci si illuse anche
che cambiare lessico e punto di vista comportasse trasformazioni reali. Che avevano luogo realmente, ma del tutto indipendentemente. Avvenivano sulla base della ristrutturazione dei processi produttivi e nella regolazione dei mercati (del lavoro, delle materie prime, dei capitali) e sulla base di una ridefinizione degli equilibri sociali, politici e «geopolitici». In effetti nel giro di venti-trent’anni (gli ultimi del XX secolo) il mondo è cambiato. La rivoluzione neoliberista (generata a sua volta da precisi rivolgimenti politici e «geopolitici», sociali ed economici; e resa tecnicamente possibile dai progressi verificatisi nei settori della logistica e dell’informatica) ha dispiegato effetti paragonabili a quelli di una guerra mondiale. Il che non significa d’altra parte che, come si suole ripetere, «nulla sia più come prima». In realtà nessun mutamento è, per quanto profondo, totale. Conviene rammentare a noi stessi che sempre di capitalismo stiamo parlando, e anzi di un capitalismo che, nel lanciare un’offensiva tesa a eliminare qualsiasi ostacolo alla piena sovranità del capitale privato, tende a recuperare tratti arcaici, propri della prima modernità, cioè di un’epoca precedente al faticoso compromesso tra capitalismo e democrazia.

Non vorrei sembrare inutilmente polemico, ma credo si possa sostenere che il mutamento di prospettiva attuato, a partire dagli anni Ottanta, dai gruppi dirigenti di gran parte della sinistra politica e sindacale in tutta Europa ha comportato sì trasformazioni reali, ma tutte rovinose per il mondo del lavoro. Ha sancito in primo luogo la mutazione genetica di questi gruppi dirigenti e, a cascata, il riposizionamento delle organizzazioni sindacali e dei maggiori partiti politici della sinistra europea. E ha, nel medio periodo, contribuito efficacemente allo sradicamento di un senso comune critico nei confronti del capitalismo, che l’esperienza storica della Resistenza prima e l’azione politica e culturale delle socialdemocrazie e, in Italia, del Partito comunista poi avevano generato. Il che ha contribuito a rendere ancor più completa la vittoria capitalistica.

Troppo spesso si omette di riconoscere che  i giudizi che formuliamo sul conto della realtà sono parte integrante della realtà stessa, che i nostri giudizi contribuiscono a plasmare. E troppo spesso si rigetta come idealistica la denuncia della responsabilità soggettiva dei gruppi dirigenti, come se i processi materiali non incorporassero anche l’«attività sensibile» dei soggetti. In realtà, se il riposizionamento di gran parte dei gruppi dirigenti della sinistra politica e sindacale non ha di per sé determinato il nuovo corso della storia (che aveva altre basi materiali, sul terreno economico, sociale e politico), lo ha nondimeno favorito, nella misura in cui ha comportato la rimozione di un argine. Ciò ha fatto sì che venissero invece bollati come ostinati conservatori o come dissennati nostalgici quanti persistevano nel considerare il conflitto di classe un dato costitutivo della formazione sociale e nel difendere obiettivi ritenuti ormai vetusti e improponibili come la piena occupazione e valori decaduti come la soggettività del lavoro e la sua autonomia nel conflitto sociale. Così una massiccia offensiva ha assunto le proporzioni di uno sfondamento, anche sul terreno egemonico e nella costituzione delle soggettività.

L’ultimo paradosso riguarda la filosofia della storia, se vogliamo la più ideologica delle ideologie, che naturalmente oggi nessuno ammette di professare. In realtà quanto è avvenuto in questi decenni è universalmente celebrato come un destino, come la realizzazione della ragione e come l’inverarsi di sorti per definizione progressive. Si pensi a come ci si riferisce di norma all’Unione europea e ai suoi stessi Trattati, che nei fatti decidono non soltanto della vicenda comunitaria ma anche dell’agenda politica degli Stati membri, vincolandola alla «rigorosa» messa in pratica dei principi neoliberisti. Chi ancora si azzarda a metterne in discussione il valore è puntualmente redarguito come un selvaggio alieno e come un nemico della civiltà.

In questo senso davvero un ciclo storico è giunto a compimento. Il pensiero che si limita a registrare i fatti sancendoli come necessari regna, oggi, pressoché incontrastato. L’interiorizzazione dell’ideologia neoliberista non ha soltanto trasformato la soggettività dei gruppi dirigenti e la funzione delle organizzazioni politiche e sindacali, decretando in tutta Europa, come ha osservato qualche anno fa Giuseppe Berta, l’eclissi della socialdemocrazia. Il punto di vista critico si direbbe ormai sradicato dagli stessi corpi sociali, di modo che il disagio, pure dilagante, non trova altre strade che la protesta e un ribellismo sussultorio e di corto respiro. Diritti, garanzie, tutele, persino esigenze vitali del lavoro sono ormai considerati come privilegi e come lussi anacronistici. Guardati con indifferenza o con ostilità. Le lotte osservate con estraneità e fastidio, come riti residuali e come intralci. Non c’era bisogno delle recenti sortite di JPMorgan per comprendere che è questo il quadro «intellettuale e morale» dell’incoercibile pulsione a riformare in senso privatistico (tecnocratico e oligarchico) una Costituzione come quella italiana, concepita a suo tempo come antidoto contro la tendenza autocratica immanente nel rapporto sociale e nell’impresa capitalistica. Anche questo è, a ben guardare, un effetto rilevante dell’americanizzazione delle società europee. È illusorio parlare di una crisi di egemonia, per il solo fatto che il consenso è in larga misura inconsapevole o passivo e non si esprime in forme positive. L’egemonia vive anche dell’assenza di punti di vista critici coerenti e consci delle proprie finalità.

In questo quadro la situazione italiana mostra talune specificità. C’è oggi e da un buon quarto di secolo un nuovo «caso italiano» di segno opposto rispetto a quello degli anni Settanta. Tra i paesi forti della zona euro l’Italia vanta molti record che configurano una situazione peculiare. E che dovrebbero essere tenuti in considerazione quando si parla del Pil italiano e delle sue deludenti performances. Sempre che si intenda capire e non semplicemente turlupinare il prossimo.

Vantiamo il record della disoccupazione (soprattutto giovanile e femminile, soprattutto nel Mezzogiorno) e della pressione fiscale sul lavoro dipendente; dell’evasione e dell’elusione fiscale (con annessa esportazione illegale di capitali all’estero); il record dei bassi salari e dei bassi investimenti in formazione, ricerca tecnologica e sviluppo; il record delle ore di lavoro pro capite e del più basso tasso di utilizzo degli impianti; il record dei trasferimenti pubblici a fondo perduto a beneficio dei privati (metà della capitalizzazione della Fiat è costituita da capitale pubblico), delle privatizzazioni e delle delocalizzazioni; il record della precarietà del lavoro (anche grazie alle 46 fattispecie contrattuali e all’articolo 8) e delle disuguaglianze; dell’immobilità e dell’ingiustizia sociale; della gerontocrazia e della trasmissione ereditaria delle posizioni patrimoniali e sociali; il record della corruzione, quello dell’incidenza delle mafie sul governo del territorio (sempre più dissestato e inquinato), delle istituzioni e dell’economia, e quello della quota di reddito bruciata nel gioco d’azzardo. E via annoverando.

Un elenco così, disordinato, può dare l’idea di un’accozzaglia casuale. Ma, a suo modo, quello italiano è un modello coerente. Che cos’è un paese in cui l’ambito pubblico va in rovina mentre il privato prospera a sue spese (in Italia il debito privato, di famiglie e imprese, si attesta sul 42% del Pil contro il 51 della Francia, il 63 della Germania e il 103 del Regno Unito)? Che cos’è un paese che manda in malora (o svende) la propria industria e sacrifica le proprie migliori risorse umane e materiali (taglieggiando i redditi da lavoro e riducendo la base occupata senza uno straccio di politica industriale) pur di remunerare il capitale privato a dispetto del suo mancato concorso allo sviluppo dell’apparato produttivo nazionale? Che cos’è un paese siffatto e che cos’è la classe dirigente che ne compromette in tal modo le sorti?

Il quadro è limpido. La mancata crescita italiana non deriva dall’incontinente avidità degli operai, ma dalla soffocante manomorta della rendita che si mangia quote crescenti di capitale. La borghesia italiana non ama il rischio, né quello sociale né quello d’impresa. Ama la precarietà altrui, non certo la propria. Per questo viene feudalizzandosi, disinvestendo dalle funzioni produttive per concentrarsi sulla speculazione fondiaria e finanziaria. La condizione del lavoro subordinato in Italia (del lavoro propriamente operaio: dirò tra breve in che senso) si determina in questo quadro. La solitudine e il deficit di rappresentanza del lavoro maturano in questo quadro.

L’avversario ha indubbiamente forze possenti: le basi tecniche, finanziarie, politiche, persino militari della cosiddetta globalizzazione. E tuttavia occorre ribadirlo: senza l’egemonia capitalistica su gran parte dei gruppi dirigenti della sinistra politica e sindacale, prima ancora che sulla società nel suo complesso, la sconfitta del lavoro, consumatasi nel corso degli ultimi decenni, non avrebbe avuto esiti analoghi.

Chiedo scusa se a questo riguardo mi permetto un piccolo ricordo personale, ma credo sia istruttivo riflettere su quanto era dato osservare durante le discussioni in seno alla Commissione Lavoro della Camera nel corso della XV legislatura (stiamo parlando del 2006-2007: oggi non oso immaginare che cosa accade in quelle stanze). Ebbene parlare in quella sede di «precarietà» del lavoro era unanimemente considerato improprio, una caduta di stile, una sgrammaticatura. Il lessico politicamente corretto prescriveva il termine «flessibilità», con la concessione, al più, di un attributo («buona» o «cattiva»). Non c’era da meravigliarsi, considerata la parola d’ordine dell’equidistanza (o dell’equivicinanza) tra lavoro e impresa lanciata dai vertici diessini in procinto di dar vita al Partito democratico. Ma la cosa non va nemmeno sottovalutata, a meno di non considerare il linguaggio uno strumento inerte. Non è così. Le parole che usiamo riflettono i nostri giudizi ma a loro volta contribuiscono a foggiarli. La scelta di un lessico non è solo conseguenza di una scelta di campo, è a sua volta la premessa di una prospettiva intellettuale e pratica nel nostro rapporto con la realtà.

Vorrei fare, avviandomi alla conclusione, due esempi a questo proposito. Il primo riguarda un tema oggi centrale: la questione del debito pubblico come causa della crisi e quindi – si argomenta – delle politiche di austerità. Noi tutti accettiamo questa rappresentazione che è però falsa e fuorviante per due ragioni. La prima, valida in generale, è che il debito pubblico degli Stati si impenna non a causa della crisi, ma per effetto della decisione dei governi di socializzare il debito privato, di finanziarie, banche e imprese, esploso a seguito dello scoppio delle bolle speculative. Non c’è alcun nesso necessario tra il crollo delle piramidi speculative e la crisi dei debiti sovrani, salvo la volontà politica di far pagare alle collettività il conto dell’irresponsabilità dei manager e dei consigli di amministrazione delle centrali finanziarie, e di consentire a queste ultime di riprendere indisturbate i propri affari. La seconda ragione per cui è scorretto chiamare in causa il debito pubblico per giustificare l’imposizione di sacrifici riguarda in particolare il nostro paese. Perché se è vero che l’Italia ha un debito pubblico elevato, non è meno vero che anche questa circostanza deriva da una precisa scelta politica. Il debito italiano comincia a crescere dai primi anni Ottanta e si decuplica tra il 1981 e il ’95 (passando dal 58 al 121% del Pil). Ma questo non deriva, come si continua a dire, da un presunto eccesso di spesa pubblica, bensì dalla decisione (di governi e Banca d’Italia) di finanziare la spesa ricorrendo al meccanismo dell’indebitamento invece che alla leva fiscale. L’esplosione del debito pubblico si deve all’aumento esponenziale della spesa per interessi, che, crescendo su se stessa, ha comportato in questi trent’anni un esborso di 2141 miliardi di euro, di gran lunga superiore all’ammontare dell’intero debito. Il che spiega perché – come ricordavo in precedenza – in Italia si registri, a fronte di uno Stato superindebitato, il più basso indebitamento privato. In questo senso accodarsi alle giaculatorie sul debito pubblico, invece di puntare il dito sull’iniquità delle politiche fiscali e sulla scandalosa ineguaglianza che la crisi sta esasperando, significa soltanto dare man forte alle politiche antisociali praticate dai governi con l’alibi della crisi. Illudendosi di perorare la causa del cosiddetto «risanamento» (impedito peraltro proprio dalle politiche recessive, che inevitabilmente concorrono a peggiorare la situazione della finanza pubblica), si invocano generiche riduzioni di spesa che non soltanto impediscono allo Stato di farsi promotore di investimenti produttivi, ma puntualmente si traducono in interventi a danno del welfare, nell’aumento della pressione fiscale sul lavoro e in ulteriori tagli all’occupazione nel settore pubblico.

Non molto diverso è, a guardar bene, l’esito di un’altra scelta lessicale che, pure, si è affermata in questi anni anche a sinistra. Dicevo prima «propriamente operai», intendendo il termine «operaio» come sinonimo di «lavoratore subordinato», in quanto operaio non è soltanto chi lavora in fabbrica (la tuta blu), né solo chi è lavoratore formalmente (giuridicamente) dipendente (il salariato), ma chiunque partecipi al processo produttivo concorrendo col proprio lavoro alla valorizzazione del capitale. Il fatto è che intorno a questa parola si è giocata in questi anni (e non solo) una partita decisiva: simbolica, ideologica, quindi politica. Quante volte ci siamo sentiti dire che «gli operai non ci sono più»? Per dedurne che il lavoro vivo è ormai una componente residuale e accessoria della dinamica economica. Con questa tesi à la page il capitale celebra il proprio trionfo. Realizza in teoria quel che non riesce a fare nella pratica, cioè appunto valorizzarsi senza il concorso del lavoro vivo. Quindi ergersi a sovrano assoluto perché autosufficiente. Il lavoro è così reso invisibile, e quindi tanto più facilmente passibile di essere colpito nei suoi diritti.

Ebbene, queste sciocchezze, per usare un understatement, hanno ormai, e da tempo, libero corso anche a sinistra, e recano una responsabilità non trascurabile nella generale rinuncia a qualsiasi serio tentativo di ricomposizione del campo del lavoro in base alla sua oggettiva unità organica (al di là della sua articolazione funzionale) nel conflitto con il capitale. Al contrario, se guardassimo al lavoro in modo corretto, non soltanto partiremmo dall’unità obiettiva della condizione subordinata (il che, rovesciando l’ordine del discorso, ci aiuterebbe nel compito di ricostruire l’unità d’azione del movimento operaio al di là delle diverse condizioni funzionali dei diversi settori del mondo del lavoro), ma comprenderemmo anche che fa parte a pieno titolo dello stesso mondo del lavoro (della classe operaia) pure l’esercito industriale di riserva, l’enorme bacino degli inoccupati alimentato dalla nuova struttura tecnica e sociale dei processi produttivi e impiegato dal capitale nella guerra contro i settori occupati della classe.

Mi fermo qui, per evitare di debordare oltre ogni misura. Sottolineo soltanto che la rilevanza degli aspetti lessicali e, più in generale, ideologici mette al centro da una parte la questione della formazione culturale del movimento operaio e della sinistra sociale e politica (una questione che lo smantellamento del Pci, per quanto riguarda l’Italia, ha reso tanto cruciale quanto dilemmatica) e, dall’altra, il tema dell’egemonia capitalistica, al quale mi sono fugacemente riferito in precedenza. Sarebbe futilmente provocatorio sostenere che oggi nel nostro paese la libertà di informazione e di opinione si trova in condizioni analoghe, o addirittura peggiori, che sotto il fascismo. Evitiamo qualsiasi paragone, anche se non va dimenticato che la classifica della libertà di stampa nel mondo pone l’Italia al 57mo posto, dopo Capo Verde, Papuasia, Botswana e Niger. Il fatto su cui non si può comunque sorvolare è che, complice un sistema mediatico (pubblico e privato) saldamente presidiato, al grosso della popolazione è preclusa la possibilità di comprendere la realtà nella quale ci troviamo: di capire come mai paesi ricchi si dibattano in una crisi che semina miseria e disperazione, di spiegarsi come mai gli straordinari progressi della produttività complessiva del sistema sociale si traduca non in miglioramenti della qualità della vita ma, per moltissimi, in disoccupazione, povertà e insicurezza.

Non c’è una censura centralizzata, imposta dall’autorità politica, ma il risultato non è diverso (in questo senso tanti anni fa Bertolt Brecht parlò di «fascismo democratico»). Il fatto che in televisione e sui maggiori giornali l’interpretazione della crisi sia sistematicamente affidata a economisti politicamente corretti (seguaci della teoria neoclassica o, per dirla in gergo, «bocconiani») non è casuale né privo di effetti. Anche per quel che riguarda la condizione del lavoro operaio e in particolare la sua debolezza nel confronto politico. E siamo così all’oggi. Dicevo, all’inizio, che si chiude un ciclo apertosi nel segno della pervasività dell’ideologia post-classista. Di fronte a noi si stende un panorama sociale frantumato. Fatto di povertà crescente e di dilagante disoccupazione. Di disagio e di attacchi generalizzati ai diritti e alle garanzie. Di egemonia (obiettiva, benché inconsapevole) del capitale sulle masse popolari e su gran parte delle stesse forze del lavoro. Dire questo non significa certo che ci si debba limitare a prendere atto di questo stato di cose. È sin troppo ovvio – qui, tra noi – che l’analisi della realtà (anche della più problematica) è sempre soltanto una premessa per riflettere sulle condizioni di una lotta possibile per trasformarla in controtendenza. E questo vale anche per noi oggi.

Ma altrettanto ovviamente ciò deve avvenire con la consapevolezza che, proprio perché abbiamo alle spalle una storia non breve di arretramenti e di errori, abbiamo di fronte una lotta difficile e inevitabilmente di lunga lena. Nel documento preparatorio di questo seminario si invitano i partecipanti a riflettere anche sulle possibili vie d’uscita dalla «crisi evidente» dei sindacati quali organismi della «rappresentanza sociale del lavoro oggi concretamente esistente». Io credo che, se vogliamo evitare risposte riduttive e illusorie a questa questione, un terreno non possiamo eludere, e cioè proprio quello – quanto mai impervio oggi per la sinistra e per il movimento operaio – della «battaglia delle idee». Se quanto ho cercato di argomentare ha un senso, ne deriva che non si potrà intraprendere nessuna battaglia non puramente episodica e difensiva – nessuna battaglia per la trasformazione – finché non si sarà ricominciata la semina del nostro campo con i germi della consapevolezza dei termini essenziali del conflitto di classe. Il che implica che un primo passo in questa direzione dobbiamo compierlo cominciando proprio da noi stessi, da ciascuno di noi, nel momento in cui cerchiamo di dare un contributo alla lotta per la dignità e per i diritti del lavoro.
 

* Intervento al Seminario, organizzato dalla Fondazione Claudio Sabattini, sulla Rappresentanza sociale e politica del lavoro tenuto a Bologna, 10 dicembre 2013. Gli atti del seminario saranno tutti pubblicati. Questo testo è quindi una anticipazione.

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