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“Neoliberalismo. Un’introduzione critica”

Recensione

di Piotr Zygulski

Il saggio di Giovanni Leghissa Neoliberalismo. Un’introduzione critica, edito da Mimesis nel 2012, è un libro che si propone di scavare nella pervasività della “condizione neoliberale” per problematizzarla criticamente.

Come si può già intuire dal lessico utilizzato in questa premessa, l’Autore mostra un’esplicita impostazione foucaultiana, che fa ampio uso di concetti quali biopolitica, dispositivo, antropotecnica e govermentalità per analizzare lo scenario presente. Al contempo, egli presta attenzione a non cadere in un impasse “malinconico” che a suo dire caratterizzerebbe il neoliberalismo. Per spiegarci meglio, la “malinconia neoliberale” sarebbe causata dall’impossibilità di separare la sfera politica – ossia l’ambito in cui perseguire la felicità – dalla sfera economica dello scambio di beni.

Le due principali reazioni di “rivolta malinconica” – già delineate in altri termini da Lukács come “onnipotenza astratta e concreta impotenza” in solidarietà antitetico/polare – si manifestano sia in quella “lenta soppressione del sé” (p. 14) che, incapace di scorgere alternative, può portare sia alla depressione e al suicidio dell’individuo, sia in una fuga euforica dal capitalismo, ad esempio con l’elaborazione di utopie che prescindono completamente dalla realtà e risultano prive di qualsivoglia progettualità politica concreta. Si ha in questo caso un “radicalismo a cui non corrisponde più alcuna azione politica” – secondo la formulazione di Walter Benjamin – cioè un radicalismo anticapitalista a parole, spesso e volentieri spettacolarizzato, in sinergia con l’industria dell’intrattenimento, da festival critici e altri appuntamenti culturali della mondanità (semi)colta.

Di fronte a tale “malinconia”, indagata da Leghissa con accenti psicanalitici, la “terapia” da lui proposta si differenzia dalle precedenti. L’Autore non si pone l’obiettivo di ideare un sistema economico alternativo, ma semplicemente quello di “mostrare quanto vi è di intrinsecamente politico nello stesso progetto liberale” (p. 18), con una riflessione sulla trasformazione governamentale della politica, che nel neoliberalismo pare impregnata di una “razionalità economica”, la quale viene a rappresentare il criterio esclusivo per assumere ogni decisione. Infatti, la sfera economica ha progressivamente invaso quella politica e, naturalizzandosi – divenendo quindi non più negoziabile –, ha fatto venir meno non tanto lo Stato, quanto lo spazio del conflitto politico e della gestione politica del conflitto. Questo, grazie alle pratiche di controllo interno del dispositivo neoliberale, viene reso sempre politicamente improduttivo. Si pensi ad esempio all’impegno delle organizzazioni a favore degli emarginati che, pur nelle più nobili delle intenzioni, può paradossalmente farsi “complice della stessa macchina di governo che ha prodotto l’emarginazione” (p. 23), perché, nel tentativo di colmare i vuoti creati dal sistema medesimo, assume un ruolo complementare e nient’affatto alternativo a chi quei danni li ha causati.

Per constatare l’erosione della stessa “possibilità della critica sociale” (p. 25), ovverosia di uno spazio politico in cui discutere modelli di razionalità sociale alternativi, l’Autore del saggio parte da Foucault, in quanto, a suo dire, la pur apprezzabile prospettiva marxiana risentirebbe di un’eccessiva deduzione del politico dalla “struttura economica”. Leghissa invece preferisce la visione opposta, che fa dipendere la sfera economica da quella politico-sociale, richiamandosi al contempo a Karl Polányi e a Frank Knight (cfr. p. 94), due pensatori che a prima vista potrebbero sembrare quasi inconciliabili. Indipendentemente da ciò, si tratta di indagare la “vita come un’impresa che sopravvive perché efficiente” (p. 28), per comprendere in che misura i corpi siano adattabili alla condizione presente e per riconoscere quegli “effetti di verità” esercitati dal neoliberalismo sulla vita dei soggetti. Tutto questo a partire dai luoghi di produzione, ma anche fuori, considerando che l’impossibilità di “distinguere tra tempo della vita e tempo del lavoro […] costituisce la cifra primaria della condizione neoliberale” (p. 118).

Uno dei punti centrali del saggio è che il neoliberalismo, sebbene possa presentare alcune varianti, abbia una prospettiva “governamentale” e “biopolitica” pressoché unitaria. La governamentalità è un’“arte di governo” (p. 68) che, nel caso del neoliberalismo, si mostra assai duttile e flessibile, in quanto è capace di assumere al proprio interno qualsiasi tipo di critica. D’altro canto, la biopolitica è la politica concepita quale controllo del corpo e della corporeità; essa è anche “estrazione di valore dalla vita” e, nel neoliberalismo, trova la propria giustificazione nel discorso economico.

Il neoliberalismo viene fondamentalmente inquadrato da Leghissa come una risposta alla crisi permanente del liberalismo, combattuto tra la logica dell’interesse economico e quella del desiderio di una vita buona, senza tuttavia cercare una armonizzazione dei due aspetti. Si ha quindi una mera estensione illimitata della razionalità economica, consentendo solo a essa di fondare l’azione individuale, più o meno consapevolmente. Qui si potrebbero fare innumerevoli esempi, dal calcolo dei costi/benefici in ogni aspetto del quotidiano, all’investimento sulla propria vita, passando per la mercificazione di ogni bene e l’“aziendalizzazione delle istituzioni pubbliche” (p. 60), ottenuta, si badi, per via endogena, radicalizzando le finalità biopolitiche interne alla governamentalità stessa. Si hanno conseguenze pure sul sistema giuridico, che viene completamente svuotato dall’interno.

Nel neoliberalismoglobalizzato” la sovranità statalein ogni caso non viene meno, ma assume forme diverse, focalizzando la lotta sul campo delle rappresentazioni collettive per espandere il proprio raggio di influenza. Leghissa porta come esempio il riutilizzo creativo della forma Stato in alcuni paesi dell’Africa Sub-Sahariana, che costituisce una sorta di “laboratorio biopolitico” (p. 78) per la governamentalità neoliberale, giacché permette la penetrazione di agenti esterni ai quali viene consentito di sfruttare ogni risorsa possibile – compresa la “necropolitica” (p. 80) della carne umana – in cambio di enormi vantaggi, proporzionali alla velocità di adattamento ai flussi economici globali, che vengono poi spartiti dalle élite dominanti in modo clientelare.

La sovranità pertanto non è più rappresentata dalla gestione del territorio e dei confini, ma dalla possibilità di creare spazi in cui possano coesistere anche molteplici forme di cittadinanza; si ha una forma flessibile di sovranità, che possa adattarsi ai flussi di merci, capitali e individui, perimetrando anche gli spazi di eccezione. Si pensi ad esempio alla gestione dell’immigrazione, che può consentire da un lato pieni diritti all’élite finanziaria cosmopolita e alla manodopera altamente specializzata, dall’altro una semischiavitù e restrizioni di libertà per i lavoratori non specializzati. L’esempio portato dall’Autore è quello di Singapore, ma in varie misure si assiste a tale “segmentazione” dello spazio sovrano, con la creazione di “spazi di eccezione” (p. 81).

Il modello universitario statunitense è uno dei principali veicoli della cultura neoliberale che promuove il multiculturalismo, inteso quale agilità nel muoversi tra differenti culture per inserirsi meglio in nuovi mercati. Si ha, di fatto, una cultura globale unica che, secondo Leghissa, costituirebbe la negazione del cosmopolitismo kantiano. Un altro esempio ci è dato dalle cosiddette organizzazioni non governative che necessitano di un capitale internazionale per poter esercitare le proprie attività e che, per questo motivo, rappresentano un “tipico prodotto della globalizzazione” (p. 82). Esse si propongono programmi specifici che si inseriscono negli interstizi tra stati e mercati, ma non possono svolgere alcuna azione politica incisiva in grado di mettere in discussione rapporti di potere.

Nel mostrare la “natura tutta politica” – e nient’affatto destinale – della progressiva liberalizzazione dei capitali avvenuta negli ultimi decenni, l’Autore accoglie l’impostazione del noto trilemma di Dani Rodrick, secondo il quale possono coesistere solo due elementi tra: iperglobalizzazione dei flussi finanziari, politica democratica, stati nazionali. Sopprimendo il primo si avrebbe una regolamentazione dei mercati finanziari, il regime “keynesiano”, per intenderci; eliminando il secondo si ha la situazione verso cui stiamo tendendo, con un mondo sempre meno democratico; senza il terzo elemento si potrebbe avere invece una governance globale anche dei “diritti”. Quindi l’alternativa all’attuale scenario può essere data o da spinte dal basso per la creazione di strutture democratiche globali oppure da una “nuova Bretton Woods” per regolamentare i mercati finanziari, scenario che Leghissa ritiene che sia lontano dal profilarsi all’orizzonte. A prescindere dall’opzione caldeggiata o maggiormente praticabile, egli ritiene che sia “urgente tornare a considerare la scienza economica come una scienza sociale” (p. 93). Ma cosa sta all’origine dell’attuale naturalizzazione dell’economico?

Il liberalismo classico, teorizzato dalla cosiddetta “Scuola Austriaca” (von Hayek, von Mises, Menger, Kirzner, ecc.), pone aristotelicamente la felicità – non misurabile economicamente – come scopo dell’agire individuale, distingue la sfera politica da quella economica e dichiara irrinunciabile il diritto alla libertà del singolo, anche nelle scelte per decidere il modo migliore di perseguire la felicità, perciò considera importanti le capacità individuali. Inoltre ha dei presupposti antiutilitaristici, cioè respinge i tentativi di spiegare ogni azione umana con il perseguimento del piacere egoista, che è solo una delle tante motivazioni possibili.

È invece la “Scuola neo-liberale di Chicago” (della quale l’esponente principale può essere identificato nel premio Nobel Milton Friedman) a ritenere che tutti i desideri siano misurabili e calcolabili, presentando una impostazione utilitaristica e behaviorista. Se l’individuo descritto dai liberali è una sorta di “imprenditore morale”, quello che emerge dalla teoria neoliberale – considerata, spesso indebitamente, erede della tradizione precedente – è invece un “imprenditore economico”, che non è in grado di distinguere i valori dalle merci (cfr. 100).

Nel suo complesso l’impianto teorico neoliberale può essere considerato, foucaultianamente, un “dispositivo” molto efficace dal punto di vista biopolitico, alla cui base, secondo Leghissa, vi sarebbe la Rational Choice Theory (Teoria della scelta razionale), fondata sull’assunto che ogni individuo sceglierebbe, di fronte ad una molteplicità di alternative, il corso di azione che secondo lui condurrà con maggiori probabilità al risultato migliore. Da tale teoria – che si pone come oggettiva e descrittiva, ma in realtà ha fortissime ripercussioni normative – derivano alcune conseguenze. Innanzitutto, lo spazio sociale e quello dei mercati tendono ad identificarsi, poiché l’oggetto di una contrattazione risulta indifferente. Inoltre, non essendoci un’idea di bene comune superiore agli interessi dei singoli, il conflitto viene gestito con l’unica finalità di minimizzare i costi di un possibile conflitto tra interessi in contrasto. Un ulteriore effetto di tale individualismo metodologico è l’insensatezza di possibili cambiamenti dell’assetto sociale.

Un approccio simile è quello dei meno noti pensatori ordoliberali tedeschi, che concepivano l’azione di governo finalizzata alla produzione di soggetti adatti ad agire sul mercato, evitando le possibili distorsioni “irrazionali” del sistema. L’Autore nota altresì che “tutte le possibili critiche alla teoria della scelta razionale altro non sono che tentativi di aumentare la sua efficacia” (p. 108) perché possono evidenziarne, anche empiricamente con studi di economia sperimentale, alcuni limiti descrittivi, ma non sono in grado di inficiarne la normatività, anzi, qualora gli individui non siano sufficientemente “razionali”, possono addirittura prescrivere la creazione di un contesto istituzionale più ottimizzante.

La distinzione tra liberalismo e neoliberalismo mostrata da Leghissa è feconda, anche perché, oltre a evitare molte confusioni concettuali, gli consente di notare che proprio le teorie etiche ed economiche della Scuola Austriaca, con una forte concezione di libertà individuale, possono decostruire, sullo stesso terreno, la razionalità efficientistica neoliberale. In questa vi è infatti un paradosso apparente, che fa convivere una narrazione retorica della libertà individuale con tecnologie di governo coercitive, finalizzate alla produzione di individui liberi. Siffatto paradosso è apparente perché la biopolitica che si impone con il neoliberalismo è volta a implementare i processi dei soggetti affinché siano resi compatibili con la riproduzione delle logiche di mercato. Tutto ciò senza dover ricorrere a una propaganda esplicita, perché le tecniche di governo riescono a imporsi come naturali e in modo flessibile.

La governamentalità si esprime anche e soprattutto a livello di organizzazione aziendale, perché l’impresa gioca un ruolo fondamentale nella trasformazione antropologica attuata dal dispositivo neoliberale. Leghissa rileva però che sino a ora è mancato un collegamento tra studi critici della teoria dell’impresa neoliberale e critica generale della società, quindi prova a soffermarsi su questo aspetto in un capitolo dal titolo incisivo “Il mondo come organizzazione, ovvero come mettere al lavoro gli individui e trasformarli in imprese”. In esso ha modo di soffermarsi sulla teoria organizzativa di Herbert Simon che attua un mutamento paradigmatico dall’homo oeconomicus all’homo administrativus, regolato da schemi comportamentali organizzativi che pervadono ogni ambito dell’esistenza umana. Simon è il teorico della Bounded Rationality (Teoria della razionalità limitata), la quale contesta che il soggetto possa avere una conoscenza chiara e ampia degli aspetti rilevanti dell’ambiente in cui opera e ritiene che il soggetto non abbia una capacità di calcolo sufficiente per stabilire, tra i corsi di azione disponibili, quello che gli consente di raggiungere un’ottimizzazione nella sua scala di preferenze. Simon è attento anche agli aspetti temporali e al livello di aspirazione del singolo, che spesso in scarsità di tempo a sua disposizione si attiene a un’alternativa che sia semplicemente soddisfacente. Il campo di studi inaugurato da Simon è lo Scientific Management che misura e valuta i processi cognitivi e motivazionali alla base delle interazioni organizzative, esaminando anche i processi di identificazione nel gruppo aziendale.

Tuttavia Leghissa è concorde con Amartya Sen sul fatto che la teoria della razionalità limitata non possa costituire un’alternativa a quella della scelta razionale, perché il soddisfacente della prima può essere ricondotto all’ottimizzante dell’altra, ma soprattutto perché “entrambe condividono la stessa concezione antropologicache sta alla base del neoliberalismo” (p. 126). Poiché l’aspetto normativo è innegabile – in questo caso  “per implementare le performances organizzative” di soggetti concepiti metodologicamente come cyborg – siamo di fronte al medesimo “totalitarismo della teoria” (p. 127).

Il dispositivo neoliberale ha importanti ripercussioni sulla vita quotidiana; per portare due esempi illustrati da Leghissa: l’attenzione ossessiva alla cura del corpo e l’ottimizzazione costante della vita biologica per evitare perdite economiche in caso di malattia. Anche in ambito aziendale le conseguenze sono molteplici, tra cui la flessibilità in ogni ambito, i lavori a progetto, l’accettazione della “cultura d’impresa” e un adattamento al capitalismo giustificato “non tanto nelle teorie economiche, quanto piuttosto nelle retoriche e nelle pratiche manageriali” (p. 141). La stessa critica viene inglobata nel sistema che invita al suo miglioramento con la partecipazione di tutti. La flessibilità del dispositivo neoliberale sta anche nella “capacità di assorbire e di utilizzare a proprio vantaggio le critiche che gli vengono rivolte” (p. 141), come nota l’Autore, richiamandosi al saggio “Le nouvel esprit du capitalisme” di Luc Boltanski e Ève Chiappello, che evidenzia in che modo il capitalismo nella sua terza fase permeata di retorica della “creatività” abbia introiettato la critica antiborghese degli anni sessanta. Essa è volta a evitare il problema centrale, che non viene scalfito, perché si esclude in partenza “qualunque tentativo di riappropriazione della sfera pubblica” (p. 142).

Dunque, Giovanni Leghissa intende proporre una “prassi alternativa” (p. 143) a partire dal desiderio, concetto caro agli autori della scuola francese che, con sfumature diverse, lo hanno fatto proprio. Nel tentativo – che arduo è dire poco – di delineare una differenza tra aspirazioni matematicamente calcolabili e desideri che non si lascerebbero “imbrigliare nella forma del calcolo”(p. 24), secondo l’Autore sarebbe forse possibile riattivare tutto quanto eccede il discorso organizzativo, collocandosi tra le decisioni aziendali e il desiderio individuale di realizzazione personale. Al pari delle antropotecniche, anche il desiderio è in grado di attraversare i corpi, ma in questo caso potrebbe emergere una resistenza trascendentale intersoggettiva ad ogni biopolitica. Tuttavia, anche Leghissa sembra intuire che tale impostazione può incontrare non poche difficoltà, perché il dispositivo neoliberale totalitarizza anche la gestione dei desideri, i quali vengono distorti anche nella loro articolazione fondamentale dal “fantasma dell’illimitato” (p. 146) che fa venir meno la legge volta alla gestione condivisa del limite. Alcuni tra i più significativi oggetti fantasmatici ci sono dati dai prodotti finanziari che, sottratti dalla realtà storica, temporale e geografica, offrono a chi li manipola di sperimentare un “senso di onnipotenza” (p. 147), al di fuori di ogni limite. E tale dialettica dell’illimitatezza – come la definiva Costanzo Preve – impedisce che il desiderio possa fondare uno spazio intersoggettivo comune tra gli esseri umani. Di conseguenza, la legge, cui era demandata la regolazione del limite e la garanzia della giustizia, oggi assume un ruolo differente, ossia quello di inserire “ogni atto comunicativo in una catena di operazioni sistematicamente rilevanti per produrre efficienza” (p. 150), riducendo incertezze e costi economici; anch’essa è quindi orientata al proceduralismo dell’efficienza.

In questi passaggi qui sintetizzati è comunque possibile rilevare un nesso contraddittorio dell’Autore, che pare combattuto tra l’esigenza di un recupero del limite e, d’altro canto, l’istanza di rivalutare il desiderio incalcolabile – e, essenzialmente, illimitato – che gli deriva dal codice teorico foucaultiano. Probabilmente se ne rende conto, anche perché nel capitolo conclusivo, per uscire dai paradigmi totalitari neoliberali, Leghissa tende a sviluppare un altro percorso, a nostro avviso migliore. Egli propone – provvisoriamente, ci tiene a rimarcarlo – un innesto della teoria universalistica dei diritti umani, così come formulata da Thomas Pogge, il quale sviluppa una teoria della giustizia che include solidarietà, effettiva partecipazione, riconoscimento reciproco e equa distribuzione delle risorse materiali e immateriali, sulla “concezione sostantiva del bene” (p. 159) indicata da Martha Naussbaum. L’approccio neoaristotelico della filosofa americana è significativo perché, studiando le capacità potenzialmente presenti nell’uomo e le condizioni di possibilità della conditio humana – tra cui integrità fisica, sfera cognitiva e educativa, capacità di relazione, di ridere, di giocare, di partecipare, di avere lavoro e proprietà – può giungere a un criterio assiologico in grado di valutare se una società sia più o meno giusta. Quindi, il compito delle istituzioni pubbliche dovrebbe essere quello di fornire a ognuno i presupposti affinché si possa aprire all’uomo “la via verso una vita umana buona” (p. 160).

In conclusione, Leghissa deve ammettere che anche quest’ultima elaborazione non è priva di una dimensione utopica, ma che senza uno slancio filosofico simile difficilmente si potrà formulare una teorica critica della società capace di affrontare le sfide poste dalla condizione neoliberale.

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