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alfabeta

L’anima moderna del neoliberalismo

Paolo Godani

thatcher 17 941-705 resizeUna delle idee più nefaste per la comprensione del neoliberalismo è quella che associa il suo programma di liberalizzazione economica al diffondersi di una deregulation morale e di un edonismo generalizzato. Ai molti che (sulla scia, per esempio, di Gilles Lipovetsky) criticano l’ipermodernismo neoliberale perché avrebbe incitato oltremisura gli spiriti animali del capitalismo e demolito le basi morali della convivenza civile, i valori tramandati, i legami sociali (dando luogo a una società liquida individualista, narcisista, nichilista e consumista), bisognerebbe ricordare come il neoliberalismo si sia imposto, tanto nella teoria quanto nella sua realizzazione politica, come un’equilibrata combinazione di deregolamentazione economica e di disciplinamento morale e sociale. E bisognerebbe mostrare come si tratti di una combinazione non casuale, ma necessaria.

A testimoniarlo sarebbe sufficiente considerare come l’avvento di Ronald Reagan e del suo programma neoliberista al vertice della politica statunitense, nel 1981, sia stato reso possibile (lo ricorda David Harvey nella sua Breve storia del neoliberismo) dall’alleanza organica dei repubblicani con la destra cristiana raccolta attorno alla «Moral Majority» del reverendo Jerry Falwell. Liberalizzazioni e crociate antiabortiste, privatizzazioni dei servizi e lotta senza quartiere contro una scuola pubblica laica, globalizzazione economica e nazionalismo culturale «bianco», individualismo e familismo, interessi finanziari e tradizionalismo religioso si alleano non solo perché le politiche neoliberali repubblicane hanno bisogno del consenso elettorale di quel 20% di americani cristiano-evangelici, ma più profondamente per il fatto che la fredda logica economica della concorrenza, temendo di produrre la pura e semplice disgregazione della società, ha bisogno di richiamarsi ai valori «caldi» della morale e della religione.

La funzione di questi ultimi non è affatto sovra-strutturale, dato che proprio e solo la disciplina indotta dai valori tradizionali consente di mantenere stabile un ordine sociale che la logica de-territorializzante del capitale tenderebbe invece a dissolvere.

Se prendiamo l’esempio del Regno Unito sotto il governo di Margaret Thatcher abbiamo una testimonianza dello stesso genere. In un articolo uscito nel 2009 su «New Statesman» e dedicato all’eredità della Lady di ferro, David Marquand dà ampio credito al motto thatcheriano secondo cui «Economics are the method. The object is to change the heart and soul», rilevando come, in effetti, le politiche economiche liberiste andassero di pari passo con un austero ideale tradizionale: «Abstinent, provident, self-reliant and, above all, disciplined. And discipline was learned first in the family, the nursery of self-reliance and the chief bulwark against social chaos».

In sintesi potremmo dire con gli autori dell’Accelerate Manifesto: «Thatcherite-Reaganite deregulation sits comfortably alongside Victorian “back-to-basics” family and religious values». Del resto, che il neoliberalismo economico non si sposi affatto con un’etica libertaria o semplicemente relativista, ma abbia semmai bisogno di un solido arsenale di valori tradizionali, è ciò che già ben sapevano i suoi primi teorici. La dottrina economica del neoliberalismo, battezzata da Alexander Rüstow e sviluppata dai partecipanti del Colloque Lippmann tenutosi a Parigi il 26 agosto 1938 (tra i quali, oltre allo stesso Rüstow, Wilhelm Röpke, Friedrich von Hayek e Ludwig von Mises), si fonda certo sull’elemento strettamente economico della concorrenza – la quale è intesa dai suoi sostenitori come una funzione che, affinché sviluppi il suo rendimento economico ottimale, va preservata da ogni intervento dello Stato; e tuttavia la politica neoliberale, consapevole del fatto che il principio della concorrenza (come nota lo stesso sociologo ed economista tedesco) tende a «dissolvere piuttosto che unire», tende cioè a distruggere i legami sociali e morali tra gli agenti economici, impone la costruzione di un «inquadramento politico e morale» che impedisca il disgregarsi della comunità, garantendo una concertazione tra uomini «naturalmente radicati e socialmente integrati».

In altre parole, i neoliberali hanno ben presente la necessità che lo Stato e tutti gli apparati di disciplinamento morale e sociale si impegnino a conservare non solo una batteria di valori «caldi», che costituiscano il contrappeso al valore freddamente economico della concorrenza, ma anche una serie di dispositivi sociali capaci di dare corpo a quei valori morali e culturali, affinché l’uomo concorrenziale conservi un legame vivo con l’ambiente naturale circostante, il luogo di lavoro, i tempi di vita sociali, la famiglia ecc. In breve, il neoliberalismo, che non lascia libero sfogo agli spiriti animali del mercato senza compensarne il carattere selvaggio con la costruzione di dispositivi che garantiscano la tenuta morale e sociale della «comunità», mostra come il complesso economico-istituzionale del capitalismo funzioni sempre secondo i due tempi che, con Deleuze e Guattari, chiamiamo «deterritorializzazione» e «riterritorializzazione compensativa».

Della riterritorializzazione, che ha la funzione di compensare le derive immanenti alla società capitalistica, fanno parte non solo i dispositivi culturali atti a garantire la riproduzione di una soggettività tradizionalista (le tecnologie «spirituali» che, conservando i valori «caldi» difesi da Rüstow, consentono il mantenimento della coesione sociale e contribuiscono a scongiurare la disaffezione e il dissenso), ma anche gli apparati del controllo sociale propriamente detto, illustrati nei lavori di Loïc Wacquant, nonché gli stessi dispositivi della regolazione economica sia statuali sia sovranazionali (le banche centrali, il Fondo monetario internazionale ecc.). Ma anche in questo ambito puramente economico (almeno in apparenza) sembra che la morale abbia aperto una breccia, dal momento che il debito si appoggia sempre più di frequente alla colpa, i governi che mirano al pareggio di bilancio sono «virtuosi», la finanza speculativa «ingorda» e così via.

Anche in questo caso non si tratta di mera ideologia. Il gergo morale che le politiche economiche assumono nella vulgata corrisponde esattamente all’esigenza strutturale di una regolazione dei flussi capitalistici. Se, fuori dalla retorica, non è mai esistito un capitalismo liberale, è perché solo l’azione moralizzatrice dei dispositivi di controllo, spirituali o economici che siano, garantisce la sopravvivenza del capitalismo. E se questo è vero, detto en passant, il keynesismo (di nuovo: sia economico sia «spirituale») che ancora oggi sembra attrarre i cuori e le anime delle sinistre mondiali non si distingue, al fondo, dalla logica del neoliberalismo.

Seguendo le analisi che Michel Foucault, nel corso sulla Nascita della biopolitica, dedica al neoliberalismo, si tratta di comprendere innanzitutto che l’antica opposizione marxiana di struttura economica e sovrastruttura ideologica marginalizza tutta una serie di dispositivi culturali, politici e istituzionali che sono invece determinanti per l’esistenza stessa della formazione sociale capitalistica. Anche nella sua versione neoliberale il capitalismo è un sistema non solo economico, ma economico-istituzionale, in cui i dispositivi istituzionali governano la produzione di una soggettività senza di cui l’intero sistema non potrebbe conservarsi. Su questi aspetti sono tornati a porre l’accento Pierre Dardot e Christian Laval nel loro recente La nuova ragione del mondo (DeriveApprodi, 2013), mostrando come i principi della governamentalità neoliberale strutturino non solo l’economia ma l’insieme delle attività sociali, costruiscano una norma di vita retta dalla concorrenza generalizzata e diano luogo a una concezione dell’individuo chiamato ormai a presentarsi e condursi come fosse un’impresa (secondo la logica dei costi e dei benefici). Resta da capire se sia in effetti di questo genere la soggettività su cui si reggono le società neoliberali, o se la riproduzione dell’uomo economico (o concorrenziale) non debba affidarsi a sua volta, come sembra suggerire Foucault leggendo Rüstow e come insegnano i trionfi di Reagan e Thatcher, ai più vischiosi valori della tradizione reazionaria.

Se così fosse, criticare il neoliberalismo ponendosi sul pulpito di chi difende i valori morali e la coesione sociale sarebbe un esempio tipico di eterogenesi dei fini, se non di intelligenza con il nemico. Dovremmo allora cambiare prospettiva, nella consapevolezza che, come scrive Étienne de La Boétie, «la premiere raison de la servitude volontaire c’est la coustume». E in tal caso avremmo bisogno di cattiva volontà, di crudeltà (innanzitutto nei riguardi di noi stessi e della nostra buona coscienza) per costruire disaffezione e dissenso, per rompere con il «bene» che continua a garantire il peggio.

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