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Il triangolo

Neoliberismo, postmodernità, fine della storia

di Diego Giachetti

Introduzione

Il triangolo no, non l'avevo considerato,
d'accordo ci proverò, la geometria non è un reato,
(Renato Zero, Triangolo, 1978)

Figures-and-Sun-352Nel corso degli ultimi tre decenni sono state introdotte “riforme” impostate secondo il paradigma neoliberista nel sistema socio-economico. Accanto all’erosione lenta ma continua delle norme e dei diritti conquistati a tutela del lavoro e dei lavoratori, è emersa una cultura parallela, nuova e giustificativa del processo in corso, che ha investito i campi del sapere: dalla filosofia all’economia, dalle scienze sociali e politiche alla storiografia. Questa cultura oggi è ideologia di massa, senso comune, che travolge anche il buonsenso. Esso, inteso come pensiero critico, non è scomparso del tutto ma se ne sta, per dirla con un passaggio tratto dai Promessi sposi del Manzoni, «nascosto per paura del senso comune»1 il quale domina l’immaginario odierno con una triangolazione di “idee”: neoliberismo, postmoderno, fine della storia.

Anche chi non crede alle combinazioni astrali, non può fare a meno di notare una sinergia triangolare che si manifesta sul finire degli anni Settanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso. Un vero e proprio “triangolo delle Bermude” dove scompaiono misteriosamente le “vecchie” concezioni del mondo e della storia, inghiottite dalle onde del neoliberismo, del postmoderno e della finalmente finita storia della lotta tra le classi.

Questo novello “triangolo delle Bermude” è così costituito: la scuola neoliberista, la cui roccaforte era stata l’Università di Chicago, raccolta attorno ai suoi guru, Friederich von Heyek e Milton Friedman, entrambi insigniti del premio Nobel per l’economia rispettivamente nel 1974 e nel 1976; la pubblicazione nel 1979 di La condizione postmoderna di Jean-Francois Lyotard e, come conclusione dei due postulati (si sa, la nottola della storia si alza sempre in volo dopo che i fatti sono accaduti) il testo di Francis Fukuyama La fine della storia e l’ultimo uomo del 1992. Apparentemente slegati l’uno dall’altro in quanto opere di economia, filosofia e storia, in realtà esse contengono assiomi condivisi e contribuiscono a costruire quella che Gramsci chiamava l’«egemonia corazzata di coercizione»2, in una forma ideologica culturale coesa e divulgativa.

Nell’operare questo confronto si procede con una metodologia opposta a quella suggerita dalle attuali linee interpretative postmoderne che amano il molteplice, il frammentato, la disaggregazione scompositiva delle “grandi narrazioni”. Infatti si vuole mettere in relazione aspetti del molteplice, trovare le relazioni intercorrenti tra pensiero economico neoliberista, postmodernità e fine della storia. Insomma, si corre volutamente il rischio di proporre un paradigma interpretativo di cui, per altro, si può sempre discutere, mentre della assolutizzazione soggettiva dell’interpretazione, libera da ogni procedura verificabile, no. Quest’ultima opera spesso come un chimico che, pentito dall’aver usato una procedura scientifica, la butta via e compie «esperimenti a caso, mescolando le sostanze più eterogenee. E’ possibile che in tal modo egli finisca, chissà quando, col produrre invenzioni meravigliose -sempre che nel frattempo il laboratorio non sia esploso»3. Le idee propugnate dal triangolo ideologico capitalistico sono penetrate a fondo, sono diventate ideologie dominanti e una miriade di “piccoli chimici” quotidianamente nel loro ambito specifico di lavoro pensano e ragionano con loro: sono appunto diventate “senso comune”.

Come tutte le idee, neanche queste sono sorte spontaneamente nel cervello dei singoli individui: «hanno avuto un centro di formazione, di irradiazione, di diffusione, di persuasione, un gruppo di uomini o anche singole individualità che le ha elaborate e presentate nella forma politica di attualità»4. Si tratta di un processo che ha a che fare con la formazione delle volontà collettive permanenti le quali non sono mai illuminazioni improvvise, bensì sono il risultato di un lavorio di distribuzione di massa di un modo di pensare mediante giornali, libri, dibattiti, pubblicità che si ripetono infinite volte. E’ il punto d’incontro, per dirla con Mario Tronti, «tra intellettualità diffusa e chiacchiera da bar»5.

La storia sarebbe finita, ci dicono. Non andiamo da nessuna parte, viviamo nell’unico mondo possibile, quello neoliberista che avrebbe conciliato l’uomo storicamente determinato con la sua intrinseca natura, liberandoci da tutte le deviazioni utopistiche che nel passato ci hanno illuso circa possibili alternative, finalità e obiettivi. Siamo bloccati in un tempo circolare che rimanda a un eterno presente, un muoversi convulso di azioni e di individui per i quali ben si adatta il famoso assunto di Eduard Bernstein: «il movimento è tutto e ciò che comunemente è stato chiamato obiettivo finale è nulla»6, perché l’obiettivo finale è già stato trovato e, in buona parte, conseguito: è la società postmoderna e neoliberista.

 

Primo lato: neoliberismo

L’assunto che l’individuo venga prima della società e della storia è un postulato classico del pensiero liberale. La società non esiste - disse a suo tempo Margareth Tacher - esistono solo gli individui. L’individuo, agendo secondo i propri interessi, oltre a fare il proprio bene, crea benefici per tutti. Individuo, si badi bene, non gruppi o classi sociali che erano invece il punto di partenza dell’analisi di Marx nella quale i soggetti collettivi fanno la società, la storia e sono l’impulso al suo divenire. Questa impostazione è completamente ribaltata. La storia è concepita come risultante di un’infinità di azioni individuali, gli attori non sono più entità collettive che operano all’interno di una formazione economico sociale storicamente data. L’economia neoliberale proclama che la società è composta da individui e che il loro agire tende ad esprimere una razionalità innata sia nella azioni economiche che in nell’insieme delle scelte di vita.

E’ una concezione del mondo fondata sul movente economico-utilitaristico considerato la base dell’agire individuale, un essere astorico e asociale. E’ la ripresa di quello che Marx chiamava “robinsonate”, cioè l’idea che gli individui vengono prima delle relazioni sociali e siano tutti, come il protagonista del famoso romanzo Robinson Crusoe, condannati a vivere soli su un’isola disabitata. Il fine è quello di promuovere a tutti i livelli l’assioma per cui se gli individui agiscono secondo i propri egoistici interessi, creano benefici massimi per tutti. E’ una filosofia che ritiene la natura umana composta di desiderio, passione, guadagno, piacere e propone un’antropologia guidata dall’interesse individuale.

Questo è il punto filosofico da cui muove per costruire un’ideologia fondata sulla premessa di un mondo ideale, non reale storicamente, per cui le forze naturali del mercato, spontaneamente mosse dalla famosa “mano invisibile”, lasciate libere di operare senza i lacci e i lacciuoli, come si dice nel linguaggio imprenditorial-finanziario corrente, sono in grado di produrre un sistema economico-sociale autoregolantesi nella domanda, nell’offerta, nel consumo, nell’occupazione.

Ora, questa teoria non nuova ma oggi ampiamente condivisa, è stata più volte smentita dalle vicende stesse in cui è incappato il sistema capitalistico passato e recente. Poiché la realtà ha spesso smentito tale assioma, «le teorie economiche liberali hanno trasmesso contagiosamente la convinzione che quando la realtà contraddice la teoria è la prima ad avere torto, non la seconda»7 . Se il sistema presunto perfetto e naturale manifesta nella realtà contraddizioni e crepe, -aumenta la disoccupazione, la crescita diminuisce, crisi economiche lo attraversano -, la causa risiede non nel sistema, ma nella cattiva o imperfetta applicazione della teoria. Il mercato non è abbastanza libero, le norme fondamentali non vengono applicate, quindi occorre insistere, come è stato fatto, con la deregulation del mercato imprenditoriale e finanziario, con le privatizzazioni, -secondo l’assunto non dimostrato ma propagandato e creduto vero, che il privato e più efficiente del pubblico -, con la riduzione delle spese sociali, perché il deficit statale dipende dalla spesa pubblica eccessiva, con la diminuzione del tenore di vita e di status dei ceti sociali, perché siamo vissuti per troppi anni al di sopra delle nostre possibilità. Sono gli elementi ricorrenti della propaganda politica, nascosta dietro l’apparente oggettività del dire economico, riversata continuamente sull’opinione pubblica: dogmi inconfutabili, indimostrabili e spesso smentiti dai fatti. Un atto di fede verso grafici e equazioni econometriche atte a dimostrare che il mercato ha sempre ragione, sovrasta le nostre vite e le decide: quante volte infatti sentiamo dire dai politici a giustificazione delle loro scelte legislative: è il mercato che lo impone.

Più che una teoria scientifica, malgrado il suo ostentato ricorso a modelli matematicifinanziari, ampliamente diffusi e trasmessi al pubblico delle facoltà di economia, il neoliberismo assume tutti gli aspetti di una ideologia e, come tale, si è imposta avvalendosi di risorse finanziarie notevoli per diffondersi attraverso le università (pilotando finanziamenti a borse di studio indirizzate in quel senso, ed escludendo o ridimensionando altri percorsi formativi), attraverso l’uso dei mass media per creare una narrazione divulgativa e congruente. «All’affermazione del neoliberismo -scrive Luciano Gallino - hanno contribuito serbatoi del pensiero, finanziati da gruppi finanziari e corporation industriali in diversi paesi […] che hanno notevolmente influito sull’insegnamento universitario, sui media e sulle politiche economiche dei governi. Inoltre le riunioni periodiche di tali associazioni, dove si incontrano i massimi esponenti della finanza e dell’industria mondiali, con l’ornamento di qualche politico e accademico, servono da decenni per coordinare efficacemente l’offensiva neoliberista in tutto il mondo. Mediante tali strumenti il neoliberismo ha attuato con successo, ma a favore del capitalismo, il concetto di egemonia culturale elaborato da Antonio Gramsci»8 .

 

Neoliberismo all’opera

Oggi il neoliberismo si presenta come l’ideologia realizzata del capitalismo globalizzato. Essa ha avuto origine prima della fine del “secolo breve” presso la scuola di Chicago, Friederich Von Heyek e Milton Friedman sono stati i guru ideologici di questa dottrina economica. La sua ragion d’essere è nata dall’opposizione alle teorie economiche sviluppate da John Maynard Keynes e dalla sua scuola di pensiero nel secolo scorso. Propugnavano un mondo ideale totalmente regolato dalle leggi economiche, senza interferenze da parte dello stato. Riproponevano sostanzialmente un “nuovo liberismo”, un ritorno con qualche aggiustamento a Adam Smith e alla sua teoria della “mano invisibile” e del laissez-faire (nessuna ingerenza dello stato nell’economia e nella società) come la sola ricetta valida per lo sviluppo economico.

La prima grande smentita a questa ricetta miracolosa era venuta dalla crisi del 1929. La grande depressione che seguì obbligò il capitalismo a rivedere i suoi piani. Come contenere gli effetti di una crisi prodotta dalle contraddizioni stesse indotte dal modo di produzione capitalistico? Come fronteggiare il “pericolo” rappresentato dalla lotta delle classi subalterne che reagivano agli effetti sociali devastanti della crisi e minacciavano una rivoluzione socialista? Venne il tempo del keynesismo dal cognome dell’economista britannico Keynes. Il crollo dell’economia americana del 1929 segnò la fine della fiducia nel sistema del libero scambio e la nuova amministrazione di Frank Delano Roosevelt ideò il “New Deal”. Il “nuovo corso” significò grande impegno da parte dello stato per promuovere lavori pubblici, mettere a punto piani di assistenza sociale, sviluppare politiche economiche orientate al progresso in tutti gli aspetti per l’intera popolazione. La Seconda guerra mondiale e le macerie provocate rappresentarono il volano della ripresa economica e il “luogo” in cui si uscì dalla crisi del ‘29. Sancito il fallimento del sistema del laissez-faire e data la necessità di contrastare l’espansione del movimento comunista, tutto l’occidente abbracciò politiche di ispirazione keynesiana. Sul finire degli anni Settanta e poi negli anni Ottanta, tale modello di sviluppo evidenziò contraddizioni sempre più laceranti per l’economia capitalistica che mettevano a repentaglio il dominio stesso della classe dirigente. Occorreva ristabilire il saggio di profitto sceso tendenzialmente per le grandi imprese riprendendosi ciò che si era dovuto concedere alle classi dominate.

Friedman nel suo Capitalismo e libertà del 1962 aveva indicato la sua ricetta che divenne punto di riferimento per le politiche che iniziarono ad essere adottate dagli anni Ottanta a oggi: deregulation del mercato interno e internazionale, ovvero annullamento progressivo di tutte le regole e le norme che limitano l’accumulazione del profitto d’impresa; privatizzazione, cioè sostituzione dei servizi pubblici con servizi privati: dalla sanità alle poste, dalla scuola alle pensioni ai parchi nazionali e via di seguito; riduzione drastica delle spese sociali al fine di ripulire l’economia inquinata dall’attività dello Stato, tagliando i fondi per il sistema pensionistico, l’assistenza sanitaria, il salario di disoccupazione eccetera; riduzione delle tasse e una tassazione fissa per tutti indipendentemente dal reddito. Per la nuova scienza economica non ha importanza se tale credo produce affermazioni e slogan paradossali e grotteschi, purtroppo ampiamente condivisi, diffusi dai mezzi di comunicazione e interiorizzate dagli individui.

I neoliberisti sostengono che i sussidi di disoccupazione, la fissazione di un livelli minimo dei salari favoriscono la crescita della disoccupazione; che l’assicurazione medica obbligatoria aumenta il sovraconsumo di medicinali; che la gratuità degli studi superiori è antisociale perché finanziata dalla collettività senza trarne, se non in minima parte, un beneficio; che tutte le misure prese in materia di sicurezza sociale non favoriscono l’individuo poiché lo pongono in una situazione d’assistito, lo rendono dipendente, gli impediscono di trovare la sua via all’affermazione; che la limitazione della giornata lavorativa a otto ore, il riposo domenicale obbligatorio, lo straordinario pagato di più, la giusta causa in caso di licenziamento, l’obbligo di non pagare un salario sotto la quota minima prevista, siano rigidità normative d’intralcio alla piena libertà economica che va garantita con un sistema di mercato del lavoro flessibile; che un lavoro ben pagato, sicuro nel tempo, frena le persone nella ricerca di un altro posto di lavoro, le indirizza a rifiutare opportunità e altre occasioni di lavoro e di miglioramento; che se le donne non trovano lavoro e sono pagate meno degli uomini è perché questo è ancora un mondo maschilista. In conclusione, occorre eliminare ciò che deresponsabilizza l’individuo, tutto quello che si demanda allo Stato previdenziale: il diritto alla sanità, all’educazione, al lavoro, all’istruzione. L’individuo deve imparare a contare solo su se stesso o sulla sua famiglia: insomma, lo stato previdenziale demoralizza gli individui.

Le teorie neoliberiste trovarono una prima applicazione in Cile, dopo il colpo di stato guidato da generale Augusto Pinochet dell’11 settembre del 1973. I militari imboccarono una politica decisamente liberistica, mediante lo smantellamento delle protezioni doganali, l’apertura di vaste opportunità per le iniziative finanziarie straniere, la riprivatizzazione di tutte le società nazionalizzate. Furono altresì restituiti ai precedenti proprietari i latifondi già espropriati e sciolte le cooperative agricole. Profondi tagli alla spesa pubblica eliminarono le riforme in campo assistenziale e sociale varate al tempo di Allende. Si trattava di riforme di chiaro stampo neoliberista. Friedman stesso suoi valenti allievi collaborarono direttamente col regime. Diversi economisti suoi allievi consigliarono il generale nell'attuazione di queste riforme; sollecitato da una richiesta di Pinochet, nel 1975 Friedman gli indirizzò una lettera nella quale dava i suoi consigli neoliberisti e in seguito si recò personalmente a Santiago del Cile. Stesso orientamento economico adottarono pochi anni dopo i generali argentini e i militari in Brasile. All’affacciarsi degli anni Ottanta Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margaret Thatcher in Gran Bretagna, dopo aver vinto le elezioni, introdussero radicali riforme in senso liberista. Era l’inizio del trionfo della Shock economy, ben descritta nel libro così intitolato da Naomi Klein, pronta a dilagare nei paesi occidentali, in quelli orientali dopo il crollo del socialismo reale, nella costruzione dell’unità europea nonché in Cina, sotto l’impulso propagatore dei vertici delle istituzioni finanziarie sovranazionali: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, World Trade Organization (Organizzazione mondiale del commercio): «La controrivoluzione di Chicago voleva indietro le tutele che i lavoratori erano faticosamente riusciti a ottenere, i servizi che ora lo Stato forniva per smussare le asperità del mercato. Benché sempre velata dal linguaggio della matematica e della scienza, la visione di Friedman coincideva esattamente con gli interessi delle grandi multinazionali, che per loro stessa natura richiedono mercati nuovi, vasti e non regolamentati»9 .

Da interpretazione particolare della realtà, il neoliberismo diventa una teoria totalizzante attraverso la costruzione di un mondo a sua immagine e somiglianza, che non ama essere messo in discussione. Ha impegnato risorse notevoli per insediare “milioni di esemplari neoliberisti” «nei governi, negli enti locali, nei partiti, nei media, nelle università», assumendo così la forma della «più grande pandemia del XXI secolo»10 .

 

Cultura neoliberista

Il neoliberismo non è solo una teoria economica totalizzante, detta anche «le politiche meglio idonee, a suo inconfutabile giudizio, al fine di ottenere che la realtà si conformi sempre più alla teoria […] produce attori razionali e impone la ratio del mercato per la presa di decisioni in tutte le sfere»11 in quanto si fonda sul postulato che la dinamica sociale tenda spontaneamente verso un ordine naturale, quello neoliberista evidentemente! Si basa sulla conciliazione presunta dell’individuo, ente naturale e spontaneo, con la società. Lo scopo della conciliazione è decretare la fine della storia intesa come preistoria, un passato caratterizzato da devianze ideologiche, di classe, sociali e culturali, dovute al non rispetto dei fondamenti dettati dall’ordine naturale delle cose. La nuova storia si caratterizzerebbe per la ritrovata armonia dell’ordine spontaneo-naturale delle cose ripristinata, dopo una dura lotta, a cominciare dall’ambito socio-economico nel quale domanda, distribuzione, inflazione, disoccupazione devono poter agire in quanto forze naturali, fisse e immodificabili.

Nella versione neoliberista il mercato si autoregola costruendosi in quanto arena di una lotta incessante tra individui e imprese volte a migliorare la loro prestazione in una competizione perenne. Questa è la molla che ha fatto scattare l’evoluzione storica la quale, attraverso errori, curvature e deviazioni, è giunta al suo punto di miglior funzionamento. Questo stato naturalspontaneo è stato raggiunto o ripristinato con l’applicazione del principio trinitario: deregulation, privatizzazione e tagli.

Costituitosi come ideologia nell’ambito di una controffensiva, diretta dalla classe capitalistica dominante, il neoliberismo ha come obiettivo quello di «cancellare per quanto possibile le conquiste sociali delle classi lavoratrici ottenute nel trentennio seguito alla Seconda Guerra Mondiale»12 . Esso contiene e ripropone una teoria dell’azione sociale fondata sull’individuo concepito come imprenditore di se stesso il quale agisce in base al calcolo strumentale sia in campo economico che sociale in quanto si postula che «l’azione sia dovuta a un attore egocentrico e calcolatore»13 .

E’ il trionfo della ragione strumentale, ovvero di un agire individuale secondo i propri interessi che, nell’ambito della produzione del pensiero in senso lato, conduce a una soggettivizzazione del mondo. Si è venuto così configurando «homo oeconomicus, un essere le cui azioni sono motivate unicamente da un supremo principio normativo consistente nel perseguimento dell’interesse o utilità personale»14 . Esso ha diffuso «il principio totalitario della necessaria quanto utile subordinazione al calcolo economico di qualsiasi azione, in ogni settore del sistema sociale. Il ragionamento economico si è così andata impersonando in una folla sterminata di esemplari di homo oeconomicus, senza tregua riproducentisi»15 .

Quello che era uno degli assiomi fondamentali del liberismo economico, la competitività esasperata fra le aziende capitalistiche, dettata dalle legge del mercato, nella nuova riproposizione neoliberista diventa un presupposto da estendere a tutta la società a cominciare dagli individui. Essi devono essere in competizione l’uno con l’altro, vedere nell’altro non un simile per interessi e posizione sociale, ma un concorrente da superare nella lotta per il posizionamento nel mercato del lavoro e nella vita quotidiana. Si deve diventare imprenditori di se stessi, competitivi non solo nella prestazione lavorativa della realtà capitalistica, ma in tutti gli aspetti della vita poiché occorre estendere l’esempio concorrenza nel mercato del lavoro a tutte le aspettative che si hanno nella vita. Ognuno è chiamato a considerarsi un individuo-impresa e sviluppare il suo capitale umano. Nessuno ti aiuta, aiutati da solo, questa è la filosofia di vita, è l’etica del self help secondo l’espressione inglese che da vari decenni è propagandata da una diffusa cultura sostanziata da libri, conferenze, video-clip, volta a suggerire tecniche per realizzare desideri e ambizioni puntando su se stessi, sulle proprie potenzialità individuali in tutti i campi dell’esistenza sociale: salute, benessere psichico, famiglia, amore, professione, carriera, lavoro.

Quelle che erano considerate situazioni problematiche, difficoltà oggettive, imputabili a distorsioni sistemiche, che si frapponevano alla realizzazione delle aspettative dei soggetti mancanza di lavoro, lavoro mal retribuito, sofferenza psichica dovuta allo stress, carenze previdenziali e sanitarie, preoccupazioni per lo status familiare e per i suoi componenti -, ora sono scaricate completamente sull’individuo. E’ merito suo o colpa sua se tali situazioni permangono o si superano. Tutto dipende dall’individuo il quale deve soprattutto operare su se stesso per cambiare e migliorare la sua situazione: «deve essere costantemente il più efficiente possibile, perfezionarsi in un continuo apprendistato, accettare la maggiore flessibilità richiesta dai cambiamenti incessanti imposti dal mercato. Esperto di se stesso, datore di lavoro di se stesso, inventore di se stesso, imprenditore di se stesso […]. In qualsiasi attività va vista una produzione, un investimento, un calcolo dei costi. L’economia diviene disciplina personale»16 .

Non è più tempo di cambiare il mondo, l’impresa, la società al fine di migliorare la propria esistenza, ma di “lavorare” su se stessi, adattarsi, mostrarsi capaci di flessibilità e di autovalorizzazione cogliendo opportunità e facendo scelte rapide fondate sul calcolo utilitaristico di costi e vantaggi. Agisci come imprenditore del tuo capitale umano, i tuoi risultati dipendono da te, se fallisci è colpa tua e non ti resta che sperare in un minimo di assistenza sociale, finché ci sarà, poi dipenderà da quali contratti facoltativi di assicurazione hai o non hai stipulato. Hai poche risorse, un reddito basso, sei un ceto medio impoverito o un precario cronico? Sappi che la tua posizione sociale è la conseguenza delle tue scelte, efficaci o fallimentari.

Si tratta di far credere che si ha il mondo nelle proprie mani, mentre siamo in mano al mondo. Se sei sopraffatto dal mondo, non hai un lavoro, sei malpagato, non avrai una pensione, la tua previdenza non è soddisfacente, non riesci a mantenere i tuoi figli negli studi, sei stressato, la tua vita relazionale è insoddisfacente, la causa sei tu, poiché si scarica tutto su un soggetto «pienamente responsabile di quello che gli capita [i vari problemi] si riducono loro volta a problemi psichici legati a un’insufficiente padronanza di sé e del proprio rapporto con gli altri»17 .

Cessi l’individuo di imputare ad altri ciò che è la conseguenza del proprio comportamento. Se sei stressato, per fare un esempio, non dipende da situazioni oggettive di stress, ma da come tu vivi e ti rapporti con esso: insomma sei tu la causa del tuo stress.

Nella lotta della competizione individuale c’è chi ce la fa e chi no, ci sono gli «uomini “rischiofoli”, dominatori coraggiosi, e i “rischiofobi”, dominati piagnucoloni»18 . Questa nuova ideologia capitalistica mira a distruggere la dimensione collettiva dell’esistenza, «non solo le strutture tradizionali che lo hanno preceduto, in primo luogo la famiglia, ma anche le strutture che ha contribuito a creare, come le classi sociali. Si assiste a una individualizzazione radicale per cui tutte le forme di crisi sociale sono percepite come crisi individuali, e tutte le diseguaglianze sono messe in relazione con la responsabilità individuale»19 . Questa concezione del mondo mira a decostruire i legami sociali, la reciprocità e la solidarietà, e a costruire nuovi collanti identitari fondati sull’ “altro da sé” visto come causa o minaccia del malfunzionamento della società. Di volta in volta possono essere i fannulloni, i privilegi di cui godono alcuni strati sociali, la classe politica, gli immigrati, i “bamboccioni” cioè i giovani che non hanno voglia di lavorare, i vecchi e i pensionati in genere che dobbiamo “mantenere” perché oggi si vive troppo a lungo. In questo senso il neoliberismo non è solo distruzione di regole istituzionali e di normative giuridiche è anche costruzione di un nuovo modello di relazioni sociali e di soggettività. Oltre ad essere un sistema di produzione economico è anche un sistema di produzione antropologico.

 

Secondo lato: postmodernità

Postmodernità e decostruzione sono ormai parole più che concetti. Esse hanno invaso il senso comune, intercalano la chiacchiera mediatica: sono attributi generici, d’uso frequente, deboli e forti contemporaneamente. Deboli perché incapaci di definire concettualmente la nuova “epoca”, limitandosi a nominarla come quella parte venuta dopo. Tuttavia, la leggerezza concettuale va considerata non come una debolezza del pensiero postmoderno, non è un rammollimento dei cervelli degli intellettuali, bensì un’espressione dello spirito del tempo. Segnala infatti la debolezza della concettualizzazione, che posa su una debolezza interpretativa del periodo, una mancanza di capacità di osare analisi complessive e di operare sintesi e giudizi. Come è stato osservato, criticare il postmoderno e il decostruzionismo «è come fare a pugni con la nebbia»20 .

Nei concetti deboli e generici tutto sta assieme e tutto si nega, tutto ruota su se stesso e annega in un continuo e eterno presente storico con la pretesa di negare definitivamente la storia. Essa come processo e narrazione è finita, siamo alla post-storia. Aperta la porta al “post” tutto lo diventa: post-capitalismo, post-industriale, nuove guerre post-imperialiste, post-guerra fredda, poststati sovrani nazionali, post-movimento operaio, post-ideologico, post-politica. Il mondo del “post”, cioè del dopo, appare vuoto, un vuoto nel quale galleggiano “cadaveri” ottocenteschi e novecenteschi.

In generale la postmodernità è un «riflesso dell’aria che tira attualmente, una più o meno sofisticata acclimatazione dell’ideologia liberista dominante»21 . Modernità era stato un termine associato alla nozione di progresso e legato alla forma classica del capitalismo durante il suo avvento, la sua fase aurorale. Era moderno e progressista contro la classe aristocratica, decadente, parassita, superata e declinante. L’ideologia post moderna, -che si presenta nella forma divulgativa accompagnata da parole quali dislocazione, cambiamento rapido, incoerenza storica -, riflette la profonda crisi sociale culturale di una società che dovrebbe essere trasformata, ma nessuno sembra capace di sostenere tale compito. Espone dunque il pessimismo dell’attuale capitalismo che, esaurita la sua funzione progressiva, deve giustificarsi in un presente eterno, naturale, senza più divenire storico-sociale e, parallelamente, sancire che le classi subalterne sono incapaci di compiere la rivoluzione, sono cioè classi senza una strategia adatta alla situazione.

In generale la parola “post” indica il carattere approssimato del significato, un concetto a cui non corrisponde un concetto. Diversamente dal concetto di moderno il quale rappresentava le magnifiche sorti progressive del capitalismo, la postmodernità ritiene che il capitalismo sia ormai giunto a uno stadio naturale e come tale insuperabile. Ecco perché ripete ossessivamente che tutte le concezioni storico-ideologiche che ne ipotizzano il possibile superamento sono errate. Quando si sente dire «che è finita l’epoca dei sistemi possiamo essere sicuri al cento per cento di una cosa: chi lo afferma con tanta sicumera vuole in realtà che un solo sistema esista e sia legittimato, il sistema della produzione capitalistica»22 .

 

Postmodernità nuove e vecchie

Postmoderno è un termine che compare negli anni Trenta del Novecento per diffondersi negli anni Cinquanta nella cultura anglosassone, nell’ambito degli studi estetico-letterari; esso trovò poi una più precisa codificazione in architettura e nelle arti, compreso lo spettacolo, prima di entrare nel linguaggio filosofico a partire dal 1979, anno in cui Jean-Francois Lyotard pubblica La condizione postmoderna. Di formazione marxista, l’autore negli anni precedenti era stato un militante politico nelle file della rivista «Socialisme ou barbarie», un qualificato gruppo di minoranza della sinistra francese. La partecipazione ai movimenti di contestazione del ’68 e alle speranze rivoluzionarie di cui erano portatori, hanno in seguito contribuito a dare alle sue riflessioni postmoderne il significato di una autocoscienza generazionale conseguente la delusione per la mancata rivoluzione sociale e politica. Man mano che il futuro, il divenire rivoluzionario, si faceva incerto e labile, la storia pregressa e l’esperienza personale vissuta entro essa si presentavano come ossessione, un conto da regolare nella forma della rivisitazione del passato. Il passato li aveva “traditi” in quanto non aveva realizzato i loro “desideri”. Invece di dire “peggio per i desideri”, affermarono perentoriamente: “peggio per la storia”. «Tu, storia, non hai realizzato i miei desideri e allora peggio per te, mi volto dall’altra parte e ricerco una nuova storia», più compiacente con i desideri che, nel frattempo sono cambiati. Si trattava di una reazione, spiegabile ed umanamente comprensibile, da parte di coloro i quali si ritraevano delusi dalla sconfitta delle loro speranze coltivate precedentemente. Era la razionalizzazione del loro disincanto. La rivoluzione cui puntavamo era fallita, perché? Per colpa del soggetto agente che non era stato all’altezza della situazione quindi, deducevano, il mondo è intrasformabile, lo si può solo sopportare. La sconfitta stava nell’aver desiderato ciò che non era desiderabile. Quello che si era fatto non aveva senso, quello che si fa neanche, perché non c’è un senso e ogni strategia che cerchi di dare un senso al fare politica è una pia illusione.

E’ una filosofia che ben si adatta all’idea di un capitalismo considerato un’entità sociale naturale, non trasformabile, tipico dell’epoca della flessibilità e della precarizzazione. E’ infatti la filosofia della precarietà, del frammento contro l’intero, la potenza dell’individuo contro il soggetto collettivo sconfitto. Il tempo in cui si apprestavano a vivere era identificato come il luogo nel quale la modernità aveva segnato la sua fine, spalancando le porte radiose alla postmodernità. Le grandi narrazioni emancipative dell’umanità, le prospettive filosofiche e ideologiche che, a partire dall’Illuminismo, avevano ispirato e condizionato le credenze e i valori della cultura occidentale erano terminate. I racconti del processo di emancipazione degli individui dallo sfruttamento, del progresso come infinito miglioramento delle condizioni di vita, della dialettica come legittimazione del sapere in una prospettiva assoluta, si rivelavano falsi e illusori. Svincolata da questi miti totalizzanti, l’età postmoderna si caratterizzava per la pluralità dei discorsi pragmatici che pretendevano soltanto una validità strumentale e contingente, un “pensiero debole” secondo l’accezione del filosofo Gianni Vattimo col quale definisce l’atteggiamento filosofico che ha preso atto della dissoluzione delle certezze e dei valori assoluti, dissoluzione che non porta a una totale negazione del passato, ma piuttosto a un sentimento di pietas nei confronti dei valori e degli ideali della tradizione, che appaiono come un immane insieme di rovine archeologiche. Le rovine, come il passato, non possono essere annullate, possono essere visitate o rivisitate, similmente al nomadismo di massa che conduce serpentoni di turisti a passeggiare fra “resti” archeologici ormai incollocabili nel tempo, nello spazio e nel significato che ebbero nel contesto in cui furono prodotti.

L’atteggiamento postmoderno verso quelle “rovine” conduce a percorre la storia come se essa fosse una enorme banca dati, simile a quello che il navigatore di internet trova sul proprio computer. Un insieme caotico di fatti, eventi, interpretazioni, suggestioni, elencati secondo l’ordine del disordine, alla rinfusa, frammentati, separati l’uno dall’altro, senza spazio temporale, geografico. Internet esemplifica l’impossibilità tipica della postmodernità di connettere, tramite una griglia interpretativa, i vari settori della conoscenza e dell’azione, ormai frantumati in una molteplicità di giochi differenti.

Oggi, una moltitudine di individui, qualcuno li ha chiamati la nuova plebe, privati per ora di una prospettiva di riscatto attorno a una ricostituita progettualità politica, è portata a pensare al passato come un tempo che per fortuna è passato, nel quale dominavano idee e interpretazioni totalizzanti del mondo. Oggi la parola totalità, usata nella chiacchiera divulgativa, assume la veste ripugnate e negativa di totalitarismo, ovvero comunismo, fascismo, nazismo. Quali erano gli assiomi totalitari che dominavano la modernità e che, per fortuna, il pensiero postmoderno ha svelato, decostruito e demistificato? Erano appunto la tendenza a credere in visioni totalizzanti del mondo, l’Idealismo, l’Illuminismo, il Marxismo e, prima ancora, il Messianismo cristiano, tutte capaci di legittimare processi di conoscenza e di azione del e nel mondo. Era la concezione dialettica portata a pensare in termini di superamento-avanzamento quale forma di risoluzione delle contraddizioni. Era la percezione della storia quale luogo del processo di emancipazione del genere umano dallo sfruttamento, dall’asservimento alla natura.

Il pensiero postmoderno critica e sfiducia le interpretazioni omnicomprensive del mondo, toglie significato ai fatti sociali, economici, storici, sostituisce a quelle che con disprezzo chiama le grandi narrazioni forme deboli e instabili di senso per di più moltiplicati, contingenti e dipendenti dalla miriade di dislocazioni locali in cui accadono. Al paradigma dell’unità antepone quello di molteplicità. Difende la differenza in quanto elemento insostituibile della frammentazione del molteplice, del polimorfo e dell’instabile. Indica alla politica il compito di favorire l'adattamento alla molteplicità e alla differenza. Ad un mondo per molti versi intollerabile propone la consolazione della tolleranza verso ciò che è difforme, meno forte, ineguale, differente negli stili di vita, nel sociale, nell’economico e nel politico, nella pratica religiosa. All’impossibilità di superare le diseguaglianza sociali ed economiche, ridotte per altro a caratteristiche antropologicheindividuali, propone la legittimazione di esse attraverso i diritti umani estesi a tutela dello status dei cittadini più deboli. Non ha fiducia nel “nuovo”, nel superamento, perché nega il concetto di divenire quindi non crede più alla politica come strategia e costruzione per la trasformazione del presente. Si caratterizza per una disincantata rilettura della storia, tradita dalle grandi narrazioni “messianiche”, che vuole definitivamente sottrarre a ogni finalismo. Non c’è più finalità e senso nell’agire perché si è decretata la morte del soggetto agente collettivo, sostituito da un soggetto frammentato, deprivato di ogni storicità, incapace quindi di una visione storico-retrospettiva che è il presupposto per suscitare lo sguardo verso il futuro inteso come superamento del presente.

Non stupisce quindi che i postmoderni affermino che siamo alla fine delle ideologie. Non a caso un (a suo tempo) marxista italiano, Lucio Colletti, nel 1980 pubblicò un libro significativamente intitolato Tramonto dell’ideologia. A onor del vero la sua non era un’affermazione così fresca e nuova. Già nei decenni precedenti tale concetto trovò una sintesi nell’opera del sociologo liberal e conservatore statunitense Daniel Bell, pubblicata nel 1960 e intitolata La fine delle ideologie, nella quale sosteneva che nelle società industriali avanzate le vecchie passioni ideologiche, le esaltanti controversie fra scuole di pensiero diverse, erano spente. Già allora il sociologo radicale Wright Mills affermò che la fine delle ideologie non era la vittoria di un pensiero su un altro, rispecchiava un dato strutturale e cioè il consolidamento al potere delle élites politiche, capitaliste e militari nelle società a capitalismo avanzato. La classe dominante appariva forte e consolidata, l’antagonismo, la lotta di classe, in difficoltà. La fine delle ideologie era la narrazione imposta dalla classe dominante al fine di cancellare nell’uomo la speranza illuminista di poter fare coscientemente la storia.

Parlare di fine dell’ideologia era per Mills non solo un vezzo, un pettegolezzo culturale del momento, era la costruzione di un nuovo concetto interpretativo che descriveva bene qual era la funzione politica e culturale che intendevano svolgere quelli che definiva «gli intellettuali della Nato»23, i nuovi mandarini, i liberali della guerra fredda. In questo senso era una forma di falsa coscienza, perché sostenere che si era alla fine dell’ideologia era «essa stessa un’ideologia, un’ideologia frammentaria o forse anche solo uno stato d’animo. La fine dell’ideologia è, in realtà, l’ideologia di una fine» 24 .

Nella declinazione comune il bersaglio polemico della fine dell’ideologia era il marxismo e il socialismo. A ben vedere la fine dell’ideologia, scriveva, «si basa su una polemica con l’impegno per il socialismo in qualsiasi forma concreta. E’ il socialismo a rappresentare sempre l’oggetto del loro discorso» 25 . L’ideologia della fine dell’ideologia trovava già in quel frangente una dato strutturale sul quale poggiare, rappresentato dalla crisi in cui versava il movimento operaio negli Stati Uniti. Assolutizzava questa dato per negare allora e per sempre la possibilità dell’esistenza di un agente collettivo in grado di produrre mutamento storico. Di fronte alla difficoltà sorta dalla crisi dei tradizionali agenti del cambiamento occorreva reagire -secondo Wright Mills -con un pensiero critico vigoroso non appiattirsi sul pettegolezzo o sul lamento della fine delle ideologie, ma osare l’utopia, cioè praticare quel mondo di speranza ragionevole di poter cambiare lo stato di cose presenti, sfidando il pensiero comune dominante che definiva utopia qualsiasi critica e prospettiva diversa dal presente.

 

Nella postmoderna vecchia caverna

Le nuove ideologie sono proiettate sul muro della caverna di cui ci racconta Platone in La Repubblica, all’interno della quale sono rinchiusi i nuovi prigionieri, bloccati, come i vecchi, in modo che gli occhi possano solo fissare il muro dinanzi a loro. Alle loro spalle, separata da una strada percorsa da molteplici figure (oggi reti televisive ed edicole che diffondono l’informazione neoliberista) arde l’immenso fuoco della società strutturata dai rapporti di produzione e riproduzione del capitale. Quelle figure, illuminate dal fuoco, proiettano la loro ombra sul muro della caverna così che i prigionieri, non conoscendo cosa accade realmente alle proprie spalle e mancando di conoscenza del mondo esterno, sono portati ad interpretare le ombre come la realtà. L’incantamento del mondo che ne consegue è potente quanto l’incatenamento reale che costringe gli uomini della caverna a vedere le ombre. Le figure stesse, la cui ombra è proietta sul muro, sono talmente assuefatte e assorbite nella fabbrica del consenso costruita dalla classe dominante, che si pensano come parte della realtà che invece proiettano. Se uno o più prigionieri sono liberati e costretti a guardare verso l’uscita della caverna, i loro occhi, abbagliati dalla luce, provano dolore e le figure proiettate sulle strada sembrano loro meno reali delle ombre che erano abituati ad osservare sul muro della caverna. La sofferenza provata nel fissare la luce induce i prigionieri a rivolgersi nuovamente verso le ombre. Se costretti ad uscire dalla caverna, rimangono accecati e non riescono a distinguere alcunché. Provando disagio e sofferenza si irritano per essere stati portati in quel luogo nuovo. Dovendo abituarsi alla nuova situazione cominciano a distinguere pian piano le ombre delle figure e, solo col trascorrere del tempo, riescono infine ad osservare gli oggetti stessi, cioè la realtà. A questo punto vogliono ritornare nella caverna per liberare gli altri prigionieri, per strapparli dall’incantesimo e dall’incatenamento. Operazione non facile. Si tratta di convincere i prigionieri a essere liberati. Dovendo ritornare nella caverna, abituato l’occhio alla luce, devono riabituarlo alla penombra. I prigionieri hanno facile gioco a dire che l’uscita dalla caverna ha rovinato loro gli occhi, quindi non vogliono abbandonare la caverna perché, a loro dire, non varrebbe la pena subire il dolore dell'accecamento e la fatica della salita per andare ad ammirare le cose dai liberi descritte.

Qual è la conclusione? Siamo più attaccati alle idee, alle rappresentazioni, alle immagini soggettive, che alle cose. Diamo più valore alle nostre idee che alla realtà. I dubbi e le critiche all’apparenza generano sofferenza, ci inducono a rifugiarci nel comodo mondo dell’incanto, quello del regno degli idoli di Bacone, frutto di errori di percezione dovuti alla soggettività dell’osservatore; errori di percezione che l’ideologia contribuisce a sistematizzare con rappresentazioni “recitate” e “teatrali” che si interpongono alla realtà rendendone difficile la comprensione. Ecco perché comprendere ciò che accade equivarrebbe già a una mezza vittoria.

 

Decostruir m’è dolce

Il decostruzionismo è un’operazione intellettuale intrapresa in Francia di critica allo strutturalismo. Lo strutturalismo aveva imprigionato la liberà dell’individuo nel potere e nelle forze dominante delle strutture, occorreva liberare il soggetto da quelle “metafisiche” per ridargli energia, forza e volontà di potenza creatrice. Bisognava liberare la soggettività individuale dall’oppressione esercitata dai soggetti collettivi, ritrovare l’immagine di un mondo senza soggetti unificati, desoggettivizzato, mosso solo da differenze libere, non vincolate a nessuna forma aggregativa di interessi collettivi e di subordinazione. Misero in discussione il concetto di realtà e con esso quello di senso storico, significato, conoscenza. Realtà altro non era che una costruzione linguistica, un’attribuzione di significato individuale. Idee, pensieri, sogni, testi scritti erano la realtà, non viceversa.

Ma qual era ed è il succo di tanta volontà decostruttiva? Giungere a una nuova-vecchia proposizione secondo la quale la realtà sociale, politica, economica, storica altro non è che una costruzione sociale, un’interpretazione soggettiva e come tale molteplice e manipolabile, che rende inutile la nozione di verità e di realtà, in quanto non ci sono più fatti ma solo interpretazioni. E’ singolare a proposito che tra le varie tecniche consigliate di governamentalità, intesa come arte di governo in senso lato, di cui parla il neoliberismo, si trovi il seguente consiglio: «non si tratta di distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è. Si tratta di chiedersi quale sia il modo più efficace e costruttivo di comunicare con qualcuno» 26 .

Concetti come “verità”, “realtà”, “oggettività”, “realismo”, “accertamento” sono poco graditi, derisi, abbandonati, in nome di uno scetticismo di fondo, di un relativismo assoluto dove tutto è solo è ciò che mi pare o preferisco sia. E’ il mondo del disincanto, senza più appigli reali, sostituiti dal sogno e dall’immaginazione. E’ la fine della società intesa come totalità che lascia il posto alla molteplicità dei frammenti sociali e culturali. Affermando il primato indiscusso dell’interpretazione si giunge a una sorta di scetticismo pluralistico, una «dittatura delle opinioni» 27 . L’individuo decostruito ritiene che il mondo sia riducibile alla sensazione che egli ricava dalla realtà, ciò che ritiene che sia coincide con ciò che è, è l’essere che diventa trasparente a se stesso.

I ragionamenti postmoderni producono un «delirio dell’interpretazione» e contribuiscono a dissolvere «la realtà effettuale in un insieme di proiezioni fantasmatiche del soggetto: il mondo interno aspira integralmente il mondo esterno, lo risucchia, la realtà psichica finisce per sovrapporsi alla realtà tout court» 28 . Prendendo spunto dal centenario della pubblicazione dei Miserabili di Victor Hugo ci si può chiedere «perché oggi nessun autore italiano o occidentale, può scrivere qualcosa che gli somigli. Lo sguardo complessivo alla società che Hugo mise in campo, non esiste più. Al centro del racconto contemporaneo, dei romanzi e dei racconti, c’è il signor Io, una sorta di ipertrofia dell’io narrativo che incarna lo spirito della nostra epoca» 29 .

Come sia possibile interpretare senza fatti, cioè senza nulla da interpretare, è un problema irrisolto poiché per produrre interpretazione è necessario ci sia qualcosa da interpretare. Si confonde quello che c’è -e non dipende dalle nostre interpretazioni -e quello che si sa, che invece dipende dalla strumentazione concettuale che si mette in campo. Si sopprime la realtà, quella capace di smentire aspettative e desideri dell’individuo, a vantaggio della rappresentazione della realtà. Il sogno diventa la realtà, e la realtà diventa sogno, cioè un mio desiderio. «Il mondo è la mia costruzione -dicono-non posso forse cambiarlo quando voglio? O è una costruzione di altri: motivo in più per decretarne l’irrealtà» 30 . Non basta desiderare, sognare o interpretare diversamente il mondo per trasformarlo: «ciò che ci sta di fronte non può essere corretto o trasformato attraverso il mero ricorso a schemi concettuali, diversamente da quanto avviene nell’ipotesi del costruzionismo» 31 .

Se il confronto relativo al modo di trasformare il mondo slitta via dall’esistenza dura, concreta e “oggettiva” della realtà sociale, e si posa nell’olimpo vacuo delle idee e delle interpretazioni slegate da ogni riferimento a possibili accertamenti veritativi, allora non può che esserci la prevalenza della volontà di potenza, cioè l’imposizione delle idee più forti. La ragione del più forte, della classe dominante è sempre la migliore, quella che prevale.

Non si tratta, come potrebbe sembrare a prima vista, di un’astrusa questione per filosofi perditempo, è un modo di “immaginare” il mondo, è una concezione culturale che ha profonde ricadute sul modo di rappresentare la società e, conseguentemente, l’organizzare dell’azione sociale e politica. E’ un capovolgimento totale: niente più relazione di dipendenza delle strutture ideologiche e di pensiero dalle loro determinazioni reali, materiali, sostituite invece dalle rappresentazioni del mondo che si danno della realtà. Le strutture socio-economiche, i rapporti di produzione e riproduzione della vita materiale non sono più considerati come elementi che interagiscono con la cultura, il linguaggio e i costumi degli individui, gli stili di vita. Anzi, è l’opposto. E’ ciò che chiamano cultura in senso lato, lo stile di vita, che definisce l’appartenenza e colloca l’individuo nella società e lo distingue dagli altri, non più lo status economico e/o la classe sociale. Essere donna, nero, extracomunitario, proletario, borghese, ricco, povero, occupato, disoccupato, perde ogni riferimento a condizioni socio-economiche a vite materiali determinate poiché appartenere significa condividere idee, interpretazioni, comportamenti, stili di vita, valori correnti. Si ha così l’immagine di un mondo variegato, riccamente articolato di bla-bla-bla come fosse uno spettacolo televisivo a più voci, dove ognuno parla per sé e poco gl’importa di quello che dicono gli altri: una polifonia di soggetti incapaci di riconoscersi se non in sé stessi.

In questa luce i postmoderni movimenti sociali e culturali sono inscritti in una dinamica individualistica, secondo la quale, per citare Tocqueville, l’individualismo è quel «sentimento che spinge il cittadino ad appartarsi dalla massa dei suoi simili e a tenersi in disparte con la sua famiglia e i suoi amici: cosicché dopo essersi creato una piccola società per conto proprio, abbandona volentieri la grande società a se stessa» 32 . L’individualizzazione, opposta alla socializzazione e alla estensione del movimento e del conflitto, comporta l’apatia politica, l’antipolitica come si dice oggi, frutto dell’atomizzazione della società. La decostruzione dei soggetti portatori di conflitto sociale, attorno a interessi generali e comuni condivisi, in individualità, destruttura la possibilità di una dialogo autentico fra le diverse componenti sociali in grado di pensare le proprie differenze all’interno di una comunità d’interessi condivisi. Abbandonato questo terreno di confronto, il campo resta libero all’esacerbazione delle differenze individuali e gli “altri” diventano individui a me estranei, differenti. La pluralità delle differenze non è lo scioglimento e il superamento di esse. Due possono essere le soluzioni: invocare la tolleranza per le reciproche differenze oppure scatenare forme d’intolleranza verso le differenze altrui.

E’ il ribaltamento del ragionamento svolto da Marx. Qui l’individuo ha annientato il soggetto, esso viene dato prima e “fuori” da ogni cosa, mentre invece gli individui, le persone, altro non sono che «la personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classe»; i postmoderni invece rappresentano l’individuo, come il responsabile «di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi» 33 .

 

Addio alle classi

Superato questo inciampo marxiano, la conclusione proposta dai costruzionisti sociali postmoderni è il dissolvimento delle classi sociali. Essendo composte da individualità differenti per stili di vita, religione, preferenze sessuali, ecc., sono un sacco vuoto, prodotte dalla mania classificatoria di certa sociologia nonché dei vetero marxisti ottocenteschi e tardonovecenteschi. A differenza del recente passato novecentesco, il dibattito caro ai postmoderni non verte più sulla definizione e sull’indagine delle classi sociali, ma sulla negazione della loro esistenza. Conclusione alla quale giungono dopo un processo di scomposizione in individui delle classi e della società così rappresentata: siamo tutti assieme, ma ognuno separato dall’altro. Nella società postmoderna: «i conflitti non sono più quelli tra classi sociali, tra ricchi e poveri o tra altri gruppi caratterizzati in senso economico, bensì tra gruppi appartenenti ad entità culturali diverse» 34 , perché non si definiscono più su basi socio-economiche e politiche, ma cedono il passo a divisioni e ricomposizioni dettate da variabili di appartenenza culturale: etnica, territoriale, di genere. In questo nuovo mondo non si tratta più di rispondere alla domanda «da che parte stai?» nello schieramento della lotta tra le classi, ma ad un’altra «chi sei?» 35 .

Tutto questo gran parlare di classi o di non classi, di individui versus soggetti, non ha a che fare unicamente e con il gran ballo delle idee, è parte costitutiva della lotta di classe stessa. Il dibattito sulle classi sociali, svolto e propagandato al fine di negarne l’esistenza, va a tutto vantaggio di quelli che dalla lotta di classe contro le altre classi traggono beneficio, cioè la classe dominante che si rafforza, si riproduce e consolida la propria egemonia sul piano economico, culturale e propagandistico. La vivace lotta che si svolge nel mondo delle idee va considerata e rapportata alla dinamica della lotta di classe che trae fondamento dalla realtà storica e sociale di un determinato periodo. E’ questo il corollario da cui bisogna partire, altrimenti la storia in generale, e quella del Novecento in particolare, appare come una lotta tra romanzi diversi, tra scelte narrative opposte e via via superate da nuove invenzioni e tecniche espressive di altre idee, in un turbinio infinito.

In questa nuova configurazione del mondo e del sociale, le classi sociali e l’antagonismo che ne derivava sono definitivamente scomparsi? Sì e no. Sì in quanto manca un modello rappresentativo della lotta di classe, che è la conseguenza della crisi che ha investito il movimento operaio indebolendo le forme istituzionali, organizzative e ideologiche, sotto le quali si è formato, autorappresentato e unificato. No, perché di crisi ideologica e di modello soprattutto si tratta e non di scomparsa del dato strutturale rappresentato dai lavoratori salariati e dell’antagonismo stesso che sorge nel rapporto di produzione e riproduzione della società. Questo dato però è occultato dalla colonizzazione dell’immaginario da parte della cultura dominante. Il capitalismo non solo produce e riproduce la sua base economico sociale, contemporaneamente produce e riproduce una sua cultura la quale, in primo luogo, esige che si rinneghi nel passato le forme esistenti di anticapitalismo, quindi celebra la fine del movimento operaio e con esso della speranza, la quale deve, per poter esistere, fondarsi su «un fondamento materiale», in quanto «non basta che il pensiero tenda a realizzarsi, le realtà deve tendere se stessa verso il pensiero» 36 . Tagliate le gambe al fondamento della speranza ecco che appare inutile aggrapparsi alle vecchie grandi illusioni narrative dell’emancipazione, meglio occuparsi e limitarsi, postmodernamente, «a racconti singolari come la lotta delle donne, dei gay, dei neri, degli indigeni. […]. Viva dunque il grido improvviso, l’istantaneità senza durata, e viva il presente assoluto alleggerito dal fardello del passato e dalla preoccupazione dell’avvenire!» 37 . E’ l’elogio postmoderno ai diseredati ai quali non appartiene il passato né il futuro.

Il decostruzionismo non risparmia critiche a Marx e al marxismo, alle sue presunte “mitologie” e grandi narrazioni che poggiano sui concetti di modo di produzione, rapporti di produzione e conflitto di classe. La filosofia del potere sviluppata da Foucault, ad esempio, è una costruzione sociale rappresentativa di questa critica. Secondo l’autore il potere, sia esso politico o economico, risiede in luoghi indipendenti dalla politica e dall’economia, non ha origine nei rapporti di produzione e di forza dati dalle classi sociali e dallo Stato. E’ questa un’impostazione troppo strutturale, macrofisica, che Foucault non intente seguire e alla quale contrappone l’idea di una microfisica del potere, tesa a svelare l’esistenza di esso in più luoghi e frammenti della società, a iniziare dalle relazioni minute e quotidiane fra gli individui. Il potere non ha più un luogo e una residenza, si configura come una rete diffusa, sparpagliata e multipla che pervade tutta la società, a cominciare dai corpi, dalla sessualità, dalla famiglia, dai saperi e dalle tecniche. Non vi sono più divisioni unilaterali tra dominanti e dominati, sfruttati e sfruttatori perché l’individuo (soggetto e vittima del potere) appartiene sia all’uno che all’altro dei campi sociali. Il potere è in ognuno di noi, non solo nei capitalisti o in chi dirige gli apparati statali. La resistenza al potere avviene ovunque; non è tipica degli sfruttati, dei dominati, ma riguarda i comportamenti nella vita relazionale quotidiana, più ancora che le classi sociali. E’ nella quotidianità, negli stili di vita, che si esprime la resistenza decentrata al potere. A questo punto, osserva criticamente Daniel Bensaid, la rivoluzione contro il potere sfocia in «una rivoluzione delle tecniche e dello stile di vita», non più in un progetto politico, essa diventa «uno stile, un modo dell’esistenza con la sua estetica, il suo ascetismo, le sue particolari forme di relazionarsi a sé e agli altri. La rivoluzione allora non deve più avere come obiettivo la conquista del potere» 38 .

Spogliato di quest’aspetto, tolto di mezzo il Marx comunista, l’altro può anche piacere seppur con opportune messe a punto e correzioni -al paludato accademismo. C’è una ripresa d’interesse, soprattutto professoral-accademica, per Marx, ma è un Marx senza comunismo, senza trasformazione dei rapporti sociali, che accantona quello che lui stesso diceva: già troppi hanno interpretato il mondo (e lì si sono fermati), si tratta invece di interpretarlo per cambiarlo. Il postmodernismo marxisteggiante propone un marxismo a basso tasso “alcolico” di classe, che rinuncia alle grandi narrazioni dell’emancipazione «favore delle sovversioni micrologiche e delle liberazioni in miniatura» 39 : al posto dell’insieme la contingenza, invece della totalità il frammento. Un Marx decostruito, frammentato in una “piccola” narrazione, un brav’uomo un po’ maschilista, un intellettuale rispettabile con un grande difetto: la politica e il comunismo. Un Marx disinnescato della sua spinta rivoluzionaria e sovversiva e sostenuto ecletticamente da abbondanti cure ricostituenti a base di linguistica, di psicoanalisi, di filosofie postmoderne, di biopolitica e un po’ di decostruttivismo. Marx è indubbiamente uno degli autori più citati, ma anche il peggio citato e il più aggiornato dai cultori delle varie discipline. Non si può certo impedire questo, ma si dovrebbe avere la compiacenza, dopo aggiunte e riconsiderazioni, ad opera di «Pinchi pallini» vari di «professare pinconpallinismo e non marxismo» 40 .

 

Terzo lato: fine della storia

La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
[...] non è prodotta
da chi la pensa e neppure
da chi l'ignora. [...]
La storia non è poi
la devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte, buche
e nascondigli.
(Eugenio Montale, La storia, in Satura, 1971)

La storia è finita! Affermazione forte e tale deve essere vista la perentorietà con la quale vuole rivelare al mondo una nuova verità. Quand’è finita? Come? Perché? Le risposte sono diverse ma la sostanza è sempre la stessa. E’ finita la storia intesa come preistoria, alla quale segue un presente tondo e immutabile, in cui l’ordine economico, sociale e culturale, in questo caso il neoliberismo e la postmodernità, coincidono con l’ordine naturale e, quindi, cessa di essere un contraddittorio e antagonistico prodursi di situazioni conflittuali che sono il motore della storia. Se la storia è finita, l’esistente è intrasformabile. Questa è la verità, sottesa o esplicitata della tesi.

Che la storia fosse al tramonto, date le premesse precedentemente esposte, era prevedibile. Lyotard, dopo aver espresso tutta la sua sfiducia e delusione nei confronti della varie storie di emancipazione, chiamate i grandi racconti, configura il tempo presente nella post-storia, collocandolo oltre la concezione della storia che ha caratterizzato la modernità. Già nel 1967 Arnold Gehlen, nel suo libro La secolarizzazione del progresso, aveva usato il termine posthistoire per definire le società contemporanee caratterizzate da una seconda e più profonda secolarizzazione, che aveva investito la fede laica nel progresso. In tal modo la storia cessava di essere propulsiva e il pathos del nuovo, svuotato di ogni significato concretamente emancipativo, era riservato solo più al campo estetizzante delle arti, al punto che si poteva ormai parlare di fine della storia intesa come progresso e superamento.

Una mano decisiva all’elaborazione dell’ideologia della fine della storia venne dall’implosione dei regimi a socialismo reale. Francis Fukuyama, economista e politologo americano, sostenne che ormai il processo di sviluppo storico poteva considerarsi concluso con la vittoria, almeno nei paesi occidentali, del modello economico-statale liberaldemocratico. La sua tesi esposta inizialmente in un saggio, The End of History, pubblicato nel 1989, pochi mesi prima del crollo del muro di Berlino quando la situazione nei paesi dell’Est europeo era già in forte movimento, fu ulteriormente perfezionata in un libro successivo, The end of history and the last man, pubblicato nel 1992 e tradotto in italiano quello stesso anno. In sinergia con le tesi neoliberiste della scuola di Chicago, Fukuyama riprendeva l’affermazione di Friedman secondo la quale libero mercato è automaticamente sinonimo di libertà individuale -la prima è più importante libertà da tutelarsi – indipendentemente dal regime politico al governo in un paese: «l’individuo può essere oppresso in un sistema democratico come può essere libero in un sistema dittatoriale. Il valore supremo è dunque la liberta individuale, intesa come facoltà dell’individuo di crearsi un dominio protetto (la proprietà) e non la libertà politica come partecipazione diretta degli uomini alle scelte dei loro dirigenti» 41 . Collegava quindi la libertà individuale d’impresa e di mercato alla libertà politica tout court e sosteneva la congiunzione tra neoliberismo economico e forma di governo neoliberale. Esso era l’apice dell’evoluzione storica, la forma ultima di governo umano. Il collasso dei socialismi reali sgombrava il campo da possibili fraintendimenti e assegnava la vittoria al liberalismo economico e politico, ponendo fine alle ideologie e alla storia. Era la fine delle grandi narrazioni, dell’epica della lotta di classe, delle nazioni, dei popoli: un solo mercato, un solo mondo, un solo impero quello delle multinazionali, una sola ideologia, quella neoliberista.

In questo varco vittoriosamente conquistato si gettarono con entusiasmo i nuovi narratori, nicianamente desideranti di scrivere finalmente la loro fine della storia su pagine nuove e bianche. Le briglie della speculazione si sciolsero alla nuove narrazioni, tutte tese a sviluppare il massimo della interpretazione soggettiva, individuale, personale. Non è forse l’individuo che viene prima di tutto? E con esso naturalmente anche la sua interpretazione e visione del mondo, il quale esiste solo perché c’è un essere che lo pensa e gli dà un significato. Similmente per la storia, essa esiste solo in quello che il pensiero individuale odierno ricorda, dimentica o ricostruisce. Con Fukuyama si abbandonava la dimensione storica per abbracciare un presente reso eterno, in questo senso l’intenzione coincideva perfettamente con la postmoderna condizione del neoliberismo. La storia finiva nel compimento di un processo che aveva condotto al sistema capitalistico, considerato un sistema naturale e non una formazione economico sociale storicamente determinata, quindi superabile.

Il capitalismo promuove se stesso come l’eterno presente. Esso è la realizzazione ultima della storia, il suo destino conclusivo. Finisce l’epoca della disfida di classe, del proletariato e della borghesia. Se finisce la storia e la società capitalistica si naturalizza, si esclude il divenire quale possibilità di cambiamento tramite un’azione trasformatrice. La storia infatti è il luogo del divenire, della possibilità di qualcos’altro, del futuro. Chiusa questa possibilità si eternizza il presente per cancellare l’avvenire.

La fine della storia si presenta come la sintesi in forma ideologica divulgativa di un presupposto reale dato dall’affermazione del capitalismo neoliberista, finanziario e globale. Vuole essere “l’idea” totalizzante e rappresentativa di questo periodo e ha scopi ben precisi. Primo fra tutti «la cancellazione di qualsiasi proposta. L’evocazione della fine della storia voleva dire questo. Nessuno più poteva, e doveva, permettersi di proporre una concezione del mondo e della vita […] alternativa [che andava] distrutta, demonizzata da parte di chi voleva mettere al sicuro, in via definitiva, ricchezza e potere. […]. Una sola forma di vita, quella borghese, all’interno della quale la sola decisione che ti viene concessa è come starci. Non se starci. Al posto dell’oltre, il niente» 42 .

Fukuyama assume una concezione deterministica e necessitante della storia: rimette in ordine tutti gli eventi del passato alla luce del compimento finalistico del presente il quale raggiunge il suo punto d’arrivo con l’affermazione delle democrazie liberali. La democrazia liberale e l’economia liberista sono per Fukuyama la meta inscritta nella storia dei popoli, oltre non si va. Questo procedere unidirezionale della storia ha conosciuto e conosce ancora momenti di scarto, risacche e arretratezze temporali date dalle storie particolari relative alle vicende di ciascun popolo nel mondo, che si muove in questa direzione con più o meno difficoltà, decadimenti e/o regressioni vere e proprie. In conclusione: anche i popoli e le nazioni la cui storia ancora non è finita, tendono al comune destino universale della fine della storia nel traguardo rappresentato dalla società naturale liberal capitalista. Il presentismo di Fukuyama dà un senso al passato e lo conclude dopo averlo spogliato di tutte le sue “impurità” non necessitanti. Così facendo approda a un miope presentismo storico il quale si giustifica dietro la falsa credenza che fa della «storia successiva lo scopo della storia precedente» 43 . Come se la storia possedesse un suo senso filosofico e spirituale. Essa invece non ha un fine, non ha un’anima interna che la guida e la conduce alla redenzione, non fa nulla, «non combatte nessuna lotta. E’ piuttosto l’uomo, l’uomo reale, vivente che fa tutto, possiede e combatte tutto; non è la storia che si serve dell’uomo come mezzo per attuare i propri fini; essa non è altro che l’attività dell’uomo che persegue i suoi fini» 44 .

 

C’è troppo presente nel passato

Chi proclama la fine della storia ha come obiettivo principe il Novecento. La distruzione del passato, ha scritto Eric J. Hobsbawm, vuole recidere i meccanismi sociali che legano l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti: esso «è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi decenni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico col passato storico del tempo in cui essi vivono» 45 . Bisogna intendersi. La storia antica, medievale, moderna è certamente finita, ma «è finita anche quella contemporanea, novecentesca, delle classi e dei partiti? Qui non si può dire che siamo decisamente al dopo, a quel post, che definisce, ogni presenza» 46 . La cautela nel giudizio storico sul recente passato, quella a cui spesso i “vecchi” e navigati professori richiamavano alunni desiderosi di andare impetuosamente oltre, va tenuta in seria considerazione. Quando il passato è prossimo non ci è ancora chiaro ciò che ci interessa trattenere e ciò che non serve più, ciò che è ancora in essere e ciò che è concluso. Cautela quindi e non enfasi iconoclastica futurista. Due suggerimenti in proposito ci vengono da Livio Maitan: quando si giudicano «avvenimenti storici è difficile evitare la tendenza a leggere troppo la storia passata come storia contemporanea» e, simmetricamente, occorre essere consapevoli «che una valutazione esauriente del passato, specie di un passato ancora recente, esigerebbe una conoscenza del futuro» 47 .

La luce del presente può offuscare il passato, lasciare profondi coni d’ombra, frutto della miopia presentista che si lascia travolgere dal cieco potere dell’attualità. E’ il soggetto-individuo che soggettivizza la storia ricercando in essa ciò che giustifica il suo grigio e insignificante presente, la sua impotenza che imputa all’aver creduto a una storia che lo ha deluso. Si tratta di un miope presentismo, di una cultura e di una coscienza che non riesce a vedere nel passato null’altro che gli infiniti riflessi dei propri timori, incertezze e perdita di prospettive.

Così facendo il miope presentista non rende un servizio alla storia, alla comprensione del presente e neanche al suo dramma personale. Il rapporto tra presente e passato è soggetto a una continua tensione. Esso è qualcosa di più dell’esercizio dello storico che guardando al passato deve tener conto che tende ad osservarlo, interpretarlo e giudicarlo, con gli occhi del presente. La tensione sta dentro il soggetto che racconta, perché egli stesso è il presente del suo passato. Questo fa si che si rompa facilmente l’assioma storiografico, consolidato e ripetuto, del presente che interroga il passato. Anche il passato interroga il presente, perché il tempo non è eterogeneo: «quello che per noi è passato, per altri è stato avvenire» 48 .

Il rapporto insomma s’inverte, si rovescia nel gioco continuo fra ciò che è stato e ciò che è, e costringe la comprensione storica a un doppio percorso incrociato tra presente e passato. Il recupero del dialogo col passato è un modo per liberare quel tempo dall’incombenza del presentismo storico, cioè la tendenza a leggere il passato ad uso e consumo pubblico e politico del presente, che non solo impoverisce il tempo che fu, ma lo afferra in un meccanismo necessitante e deterministico per cui è l’oggi che spiega il passato, gli da luce e vita, mentre ciò che non sta nel presente, perché finito, sconfitto, fallito, non realizzato, semplicemente viene cancellato. Il passato è la «preistoria del nostro presente» il quale però non è «la realizzazione di una sola storia, ma viene da un insieme di preistorie» che non avevano un unico fine, ma parecchi 49 . Quel passato è esistito per sé stesso, è inemendabile dal presente, e il suo avvenire era aperto a più possibilità. Si tratta allora di ridare libertà al passato facendo di quella storia il regno della libertà e non della necessità. Non una storia pura giustificatrice del passato, ma dialogo-indagine sulle scelte fatte e quelle possibili, per risalire dalle scelte compiute e dai fatti accaduti «alle alternative aperte nel momento delle scelte e valutarne le forze motrici sia negli interessi, sia negli obiettivi, sia nella capacità di cogliere gli obiettivi in rapporto agli interessi» 50 . No quindi al determinismo necessitante che sfocia nel giustificazionismo altrettanto necessitante e non considera l’importanza dell’agire umano, individuale e collettivo nella storia. Nella lotta tra le classi, il passato non è mai chiuso definitivamente, quella lotta non può fare a meno di riattualizzare le «potenzialità inesplorate e inutilizzate del passato occulto e nascosto. In questo senso, non può esserci una linearità del progresso sociale e un superamento non riuscito senza ripresa di ciò che un tempo non ha trovato la sua convalida» 51 .

Nell’analisi delle circostanze storiche si deve ricorrere all’esercizio pedagogico consistente nel chiedersi: cosa sarebbe accaduto se un elemento non vi fosse stato o fosse stato diverso? Domanda non oziosa per Max Weber, «poiché concerne l’aspetto decisivo per l’elaborazione storica […] se la storia vuole elevarsi al di sopra di una mera cronologia di avvenimenti e di personalità degni di memoria, non le resta altra via che quella di porsi questioni del genere» 52 .

L’attuale approccio presentista invece conduce a una concezione necessitante del processo storico. Il passato è rivisitato come catena di eventi che inevitabilmente, saldandosi l’uno con l’altro, dovevano sfociare nel presente. Tale interpretazione della storia è simile a una versione laica della predestinazione, tipica di un pensiero fatalistico del processo storico. Esprime la psicologia di chi ha perso o ha vinto, è una sorta di sanzione a posteriori che produce l’idea della necessità storica. Un tranquillo e rassicurante modo di pensare: le cose non potevano andare diversamente da come sono andate, rassegniamoci, abbandoniamo il passato e ricominciamo dal presente, da dove e da cosa non è ancora ben chiaro. La storia così diventa una favola per bambini, non conosce scossoni, possibilità, alternative. Non riconosce il ruolo specifico giocato dai conflitti sociali, non contiene più la speranza date dalle possibilità del momento, ignora che ciò che si è realizzato è stato pur sempre conseguenza dello schieramento di forze sociali tendenti a scopi diversi.

Fra le righe dei post-storici emergono aspetti neoidealistici. Il processo storico è rivisitato e trattato come fosse l’arena della realizzazione finale dell’idea, dello spirito: in questo caso il capitalismo globalizzato, neoliberista. L’assunto riproposto si fonda sulla centralità assegnata all’individuo, alla soggettività, all’idea, elementi che si antepongono alla società e la storia stessa. La storia si personalizza, diventa idea che interloquisce o confligge con altre idee dando luogo interpretazioni soggettive che assumono le forme dell’autocoscienza e della critica. E’ il rovesciamento della concezione della storia fondata sulla spiegazione dei processi reali, della produzione materiale della vita, della forma di relazioni sociali ad essa conseguente con le sue creazioni ideologiche, il suo spirito del tempo, la cultura, la filosofia, la morale.

Alla riproposizione di un percorso idealistico-necessitante della storia, come storia di idee in lotta tra di loro, non è sufficiente rispondere con altre idee critiche, perché non sono le idee che cambiano il mondo, ma è il mondo che produce le idee e poiché la società è divisa in gruppi di dominanti e dominati, le idee di chi domina diventano le ideologie dominanti assumendo il nome di coscienza dell’epoca, autocoscienza del soggetto, coscienza dello spirito del tempo. Esse si trasformano in “persone” che le rappresentano, fabbricanti del senso comune, delle nuove idee, della storia. Così facendo si eliminano «dalla storia tutti quanti gli elementi materialistici e si possono allentare tranquillamente le briglie del destriero speculativo» 53 che oggi appare nella forma della soggettivizzazione dell’interpretazione, nel partire dalla coscienza e dalle idee che si dà l’individuo, nella “ricostruzione” del passato e del presente ad uso e consumo di esigenze soggettive le quali consentono di costruire un mondo rappresentato a misura dall’individuo finalmente libero di darsi una sua storia, un suo presente, un suo passato. E’ il trionfo pirandelliano del «così è (se vi pare)», è credere «sulla parola ciò che ogni epoca dice e immagina di se stessa [così la storia finisce] nell’ “autocoscienza” come “spirito dello spirito”» 54 . E’ la concezione della storia tipica della postmodernità, secondo la quale tutto è costruzione sociale, anche la rivisitazione del passato null’altro è che una risoggettivizzazione del tempo perduto che porta, come è stato notato, «al paninterpretazionismo e di lì al negazionismo. Se esiste solo quello che viene conosciuto, allora ciò di cui si sono perse le tracce, non è mai esistito. Una possibile conseguenza di tale tesi è l’inesistenza del passato» 55 .

 

Ricominciamo? Sì! Ma da dove?

Il movimento operaio è finito. Allora che fare? Ricominciamo da capo, da dove tutto è iniziato. Fatta tabula rasa del Novecento, l’Ottocento è genericamente indicato come il secolo da cui ripartire. Ma da dove? La lotteria è aperta: dalla Rivoluzione francese? Dal 1830? Dal 1848? Dalla Prima Internazionale? Dal 1870? Le scommesse sono aperte su un povero passato fatto a spezzatino (decostruito pardon!) che consente di prenderne soggettivamente una parte extrapolandola dal tutto. Serviti e reinterpreta dunque, così che il presente sia cesura netta col passato, un nuovo inizio che operi come censore, inondando di diserbante presentista le “erbacce” del passato, cosicché le nuove forze sociali non siano appesantite da scorie antiche, ma leggere, nette, disponibili ad adottare una nuova modalità di funzionamento per far ripartire la nuova storia. Da qualche parte bisogna pur ricominciare, a meno di non voler eliminare il problema ritenendo che si possa partire da zero, dal niente, dalla pagina bianca, dalla tabula rasa: «Il secolo degli estremi c’è stato. Non è possibile cancellarlo o metterlo tra parentesi. Non si riparte dal 1830, dal 1875 o dal 1917 senza spiegare né saldare i conti» 56 . E non è sufficiente ritenere che il problema si possa risolvere con una spolveratina, approssimata e semplice, tipo Bignami, del senso della storia del movimento operaio. La rielaborazione del passato se si vuole che sia utile alla costruzione di senso e di coscienza storica richiede la sua conoscenza, elemento attualmente maltrattato o non trattato dal furore iconoclastico del presentismo. Solo «la storiografia ci libera dalla storia», diceva Benedetto Croce 57 . La storia bisogna conoscerla per potersene sbarazzare.

Il discorso rischia di ingarbugliarsi troppo, semplifichiamolo: scriviamo un nuovo “libro”, una nuova narrazione partendo da idee nuove versus quelle vecchie. Sulle macerie del Novecento non si ricostruisce e l’Ottocento è troppo lontano per lo sguardo miope del presente. Una narrazione si è chiusa definitivamente e con essa idee, strategie, protagonisti sociali, classi e organizzazioni di classe. La rivoluzione neoliberista ha distrutto tutto: il movimento operaio è stato prima sfiancato e poi è “scomparso” (decostruito, pardon!) sotto i colpi del capitalismo e della fine delle ideologie. Sono finite le grandi narrazioni (altro mantra ripetuto in abbondanza) e con esse si è sbriciolato il significato, la prospettiva storica, il tempo si è accartocciato su se stesso in un presente circolare. E’ diventato una giostra che interpreto e ricostruisco a mio piacere passando da un frammento all’altro come quando faccio zapping davanti al televisore. «La retorica post moderna trae argomento dalle tecnologie della comunicazione, dalla fluidità delle reti, dal dissolversi delle forme di socializzazione tipiche della modernità» 58 e impone una nuova tecnica narrativa-affermativainterpretativa, una nuova costruzione sociale, pardon!.

Un ciclo si è chiuso alle nostre spalle, affermano perentoriamente, quello del movimento operaio e della sua capacità di lotta contro il capitale e uno nuovo si è aperto. Quella storia è finita, proclamano, siamo sul promontorio estremo del secolo: «perché guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell'Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell'assoluto» 59 . Quel passato è dietro di noi -ci ripetono -ma restano ancora le macerie e tra esse i “mostri” da esso prodotti. Chiudiamoli nelle biblioteche, nei musei e nei mausolei, per ora. Eleviamo un pantheon apposito anche per i grandi rivoluzionari del Novecento. Rendiamogli omaggio ogni tanto, come si fa con i morti al cimitero una volta l’anno, ma non gettiamo via il nostro tempo presente che deve essere impegnato nella ricostruzione di idee e soggetti nuovi, aderenti ai nuovi percorsi di soggettivizzazione politica indotti dalla decostruzione della soggettività di classe.

Dovrebbe essere evidente che la decostruzione del passato, il suo non riconoscimento e svalutazione conducono a una «implicita giustificazione della nullità del presente» 60 , difatti si annuncia la nascita di una nuova soggettività ma non si sa indicare dove e quale sia. Si sa solo che non sono gli attuali soggetti in campo e si resta in attesa di invenzioni e capacità di movimento. Dobbiamo ripensare tutto, ripetono come un mantra, ma non sanno come si fa.

Per supportare l’idea della fine del movimento operaio hanno ridotto il concetto marxiano di rapporti sociali di produzione a quelli della fabbrica fordista novecentesca. Poiché quella forma produttiva è in declino, il movimento operaio va scomparendo e con esso la vecchia e antagonista classe operaia, sostituita da variopinte moltitudini, flussi di coscienza e grammatiche dei desideri, sintomi di una «disperazione teorica» che ricerca smarrita «nuove risorse filosofiche (in Deleuze e Foucault in particolare), che hanno portato a prendere distanze crescenti dalla critica dell’economia politica» 61 . Rotto il legame con la critica dell’economia politica, le briglie della ricerca dei soggetti liberatori si sciolgono dai rapporti sociali di produzione e riproduzione.

Chi farà allora la rivoluzione? E’ una domanda da vecchi nostalgici. Non si sa, né si danno possibilità. D’altronde in un presente onnipotente e perfettamente piano non si danno possibilità alternative. Una cosa è certa, ci dicono, non sarà il proletariato perché ormai la contraddizione espressa dai rapporti sociali di produzione ha perso di significato quindi, se mai si riproporrà la questione di chi realizzerà la trasformazione, essa non sarà attribuibile alle categorie correnti dell’analisi di classe. Insomma, si deve capire, anche ricorrendo a un atto di fede, che il modo è cambiato, che non ci sono più le grandi concentrazioni di forza-lavoro, quelle capaci di formare una coscienza in un tempo e in un luogo. Oggi quel processo è spezzato, la produzione investe l'intero territorio non più la fabbrica. E ci risiamo con la lettura fabbrichista fordista di Marx che riduce la sua analisi sul dominio del capitale sulla forza lavoro all’esperienza della fabbrica fordista novecentesca. Il resto sfuggirebbe alla determinazione dei rapporti sociali di produzione che valgono solo per l’impresa. Fuori i soggetti sono liberi e flessibili, il tempo libero, di non lavoro, già si sottrae e sfugge al dominio del capitale. E’ una pia immaginifica visione che non solo fa torto a Marx, ma alla realtà stessa producendo effetti esilaranti: le torme di vacanzieri occidentali in giro per i luoghi esotici del mondo sarebbero esempi di sottrazione al dominio del capitale e i villaggi turistici nei quali si ammassano, isole e città liberate, prototipi e avanguardie di socialismo prossimo venturo.

Visto come sono andate le cose negli ultimi decenni, per ragioni storiche e sociali, si è verifica un indebolimento dell’identificazione del lavoratore con il suo lavoro, non perché il lavoratore si è liberato del lavoro, ma piuttosto perché il capitale per riprodursi ha bisogno di meno lavoratori e di forme di lavoro di nuovo tipo. Non si deve quindi trarre la falsa conclusione, presentata come innovazione teorica, «secondo cui la contestazione dello sfruttamento capitalista si riorganizzerebbe ormai al di fuori dell’impresa come se fino a ora essa vi fosse stata confinata. Se il rapporto di sfruttamento si radica nella produzione, tutta la logica del Capitale mostra che non si riduce a essa. Il rapporto di sfruttamento struttura l’intero campo della riproduzione» 62 e riproduzione. E’ esso che produce le trasformazioni del mondo del lavoro e che, oggettivamente, pone le basi per la riorganizzazione della conflittualità sociale antagonista in tutti i suoi aspetti.

Il delirio poststorico è conseguenza e non causa del capitalismo neoliberista. La controrivoluzione iniziata negli anni Ottanta ha ridimensionato le conquiste della classe lavoratrice, l’ha destrutturata e scomposta materialmente, prima ancora della nuova narrazione. Quest’ultima si è data come compito quello di «cancellare la memoria storica delle più valide esperienze del passato» 63 e tra queste la lotta di classe stessa. Essa è uscita di scena, non a causa di una nuova narrazione, ma perché quelli che la praticano o la dovrebbero praticare, come classi oppresse, hanno meno identità visibile e presa nella società. Da questi presupposti reali si accendono le illuminazioni postmoderne che dipingono il movimento operaio, la lotta di classe, come un mito, cioè un «prodotto dalla teoria, proiettato sulla storia reale dall’ideologia delle organizzazioni operaie» 64 .

I vincitori non si accontentano di scrivere il loro presente, si volgono all’indietro per modificare o cancellare l’immagine che del passato conservano i vinti i quali si sforzano, nei momenti del ripiegamento e della sconfitta, per conservare una memoria lunga: «spesso non hanno che questo. E’ la sola opportunità che resta loro di sfuggire al bottino dei vincitori e di sfidare l’infernale ripetizione delle sconfitte. Solo la loro fedeltà agli antenati sottomessi può ancora invertire il senso dei segni, salvare la tradizione minacciata dal conformismo e dallo stile degli imborghesimenti della moda che è, appunto, uno stile prigioniero del conformismo» 65 .

L’ideologia attualmente dominante ha come scopo quello di disseminare la storia di “bombe” dell’oblio al fine di cancellare tracce e sentieri, avvelenare i pozzi come si dice. Se la memoria non la si può cancellare del tutto pazienza! Che resti ma sia ridotta ad aneddoto individuale, a storia personale di un tempo che fu. L’importante è che quel tempo venga minato nella possibilità di una ricostruzione razionale di quel che è accaduto, dei suoi protagonisti intesi come soggetti collettivi di uno scontro fondato su basi reali di classi volte a difendere e accrescere la loro posizione dominate, oppure a scardinare le ragioni dello sfruttamento, dell’oppressione, delle guerre imperialiste.

Vincitori e vinti sono tutti dentro la storia, ma in modo diverso. I vinti sono quelli che si sono battuti contro la storia che li opprimeva. I vincitori sono quelli che hanno fatto la storia a loro uso e consumo al fine di mantenere l’oppressione sui vinti. Entrambi i soggetti non sono fuori dalla storia e per essere contro la storia bisogna stare nella storia. La storia dei vincitori nella versione postmoderna vuole cacciare i vinti dalla storia. Occorre strappare la trasmissione-dismissionesvendita del passato dalle grinfie della classe dominate, dal conformismo odierno che vuole soggiogarlo cancellando ogni scintilla di speranza e di possibilità presente nei momenti intensi della ribellione e della rivolta. Il presente postmoderno e neoliberista non ha pietà per i vinti, non fa prigionieri e, per dirla con Walter Benjamin, nemmeno i morti saranno al sicuro se vincono loro 66 , se vince l’idea che fa del mercato il centro non solo delle transazioni economiche ma anche delle relazioni sociali in generale.

 

Crisi del soggetto, cuccagna della soggettività

Rubando un luogo comune alla chiacchiera politica, si può dire che anche nella rappresentazione del sociale il vuoto non esiste in quanto, quando esso si crea, viene subito occupato da qualcos’altro. E’ il caso del conflitto di classe e dei legami di solidarietà, d’interesse, di mutuo appoggio e di mentalità che esso ha prodotto delineando un modello interpretativo nei termini di “opposizioni orizzontali” di soggetti sociali, di “campi”: ricchi/poveri, sfruttati/sfruttatori, lavoratori e proprietari dei mezzi di produzione. Un modello che tende a includere differenze di provenienza geografica, culturale, etnica, di sesso, di mestiere e di professione, unendole, trovando cioè il minimo comun denominatore piuttosto che il massimo comun divisore. In questo modo si produce una rappresentazione del sociale fondata sulla solidarietà nel quale la differenza tra i soggetti non è negata, ma la cui valorizzazione in termini di libertà e di espressione, dipende dalla liberazione di tutti i soggetti che a vario titolo, luogo e situazioni sono oppressi. E’ un modello interpretativo che legge la storia e la dinamica sociale alla luce di contrasti e contrapposizioni di interessi di classe a livello nazionale e internazionale, che rompe gli angusti limiti geopolitici e dello Stato-nazione-identità, per cogliere la dimensione di scontro che, pur partendo da assunti storici nazionali, tende a leggersi e a considerarsi parte di una lotta universale degli oppressi contro gli oppressori e i regimi dominanti di turno, per cui la vittoria o la sconfitta riportata o subita in questa o quella parte del mondo, si riverbera, positivamente o negativamente, sugli altri campi di confronto e di scontro.

A questa visione del mondo se n’è contrapposta un’altra, oggi vincente e dominante. La nuova narrazione fa della società un’insalata, un mosaico, un agglomerato multiforme, liberista e mercantil-concorrenziale, di identità distinguibili tra loro, come un piatto d’insalata, appunto, dove le varie verdure, seppur mescolate, conservano la loro caratteristica. E’ del tutto evidente che tale rappresentazione ha come bersaglio polemico le forme di aggregazione sociale fondate sulla coesione e sull’unione di interessi generali comuni. Essa sostituisce quella precedente, più simile, per restare nel tema alimentare, al pudding, alla zuppa, alla torta, dove i vari ingredienti (sociali) si mescolavano amalgamandosi fra loro, producendo soggettività collettive per gruppi di interesse trasversali. Nelle società a mosaico invece la partecipazione avviene per gruppi di affinità locali, etnici, di minoranza, d’orientamento sessuale, professionali, gli uni spesso separati dagli altri, fino alla frammentazione estrema del soggetto in soggettività del singolo, il quale si rapporta “privatamente” con le istituzioni della politica e le organizzazioni, mediante un legame verticale, senza più relazioni con altri, simili per condizione sociale, lavorativa e di classe. Questo modello si è via via imposto a partire dagli anni Ottanta, ha accompagnato non a caso la teoria neoliberista, fornendo una nuova rappresentazione della società, degli individui e dei conflitti. Non è spuntato per caso, non ha origini nel mondo delle idee, è la risultante dell’azione concomitante di fattori sociali, politici, culturali e ideologici che hanno costruito una nuova narrazione del tessuto sociale, inducendo a nuove forme di rappresentazione di esso.

I nuovi soggetti che popolano lo spazio sociale, in parte svuotato dai vecchi soggetti, hanno un fondamento materiale nella produzione ideologica e strutturale dell’uomo competitivo, imprenditore di se stesso, che si autovalorizza nella ricerca dell’affermazione di sé, spesso contro gli altri. Il teatro sociale è oggi dominato in parte da un’idea d’individuo che trasborda dal mondo economico e investe altri campi lontani e diversi della vita e dell’esistenza, come ad esempio la sessualità e l’estetica del corpo. Come è stato rilevato sulla base della documentazione psicologica circa la competitività trasfusa nell’ambito della sessualità, anche i rapporti sessuali «diventano esercizi nei quali ognuno è chiamato a confrontarsi con la norma di prestazione richiesta dalla società: numero e durata dei rapporti, qualità e intensità degli orgasmi, varietà e caratteristiche dei partner, numero e tipi di prestazioni» 67 . Il corpo stesso è continuamente messo al lavoro, deve migliorarsi sempre, non deve rilassarsi, non conosce altra età che quella della giovinezza che si prova ad eternizzare col ricorso alla chirurgia estetica. Il corpo va continuamente messo alla prova, usato nella «ricerca di sensazioni forti, il fascino per l’estremo, il gusto per gli svaghi attivi, superamento idealizzato dei limiti […] di produzione e di piacere» 68 . E’ questo un chiaro esempio di asservimento della struttura simbolica alla «logica economica capitalistica. In altri termini, l’identità è diventata prodotto di consumo» 69 . L’identità, soggetta alla ricerca permanente di se stessa, produce una miriade di possibilità d’identificazione. Sono di volta in volta stimolato a cambiare auto, lavoro, tipo di consumo del tempo libero, partner, sesso, ecc.

Fra le “vittorie” riportate dalle politiche neoliberiste nei decenni trascorsi occorre annoverare anche i successi ottenuti a livello culturale e politico nei confronti delle forme organizzative, istituzionali, ideologiche del movimento operaio e della sua auto rappresentazione in termini di lotta di classe. Scomponendo e destrutturando questo fattore la visibilità del conflitto di classe viene meno, diventa elemento secondario, opaco, “vecchio”. Le lotte operaie si trasformano in conflitti settoriali, marginali, corporativi. La “realtà” che prima era composta e organizzata, ora si frammenta, si scompone a tutti i livelli: dal sociale al politico, dal culturale a quello delle forme organizzate. Identità consolidate e organizzate sul modello di classe sociale sono considerate obsolete, sono solo uno dei tanti frammenti identitari presenti un una società liberale e plurale. Movimenti e conflitti ci sono ancora ma operano dentro una storia circolare, non hanno divenire, cioè possibilità di superamento e di trasformazione dell’esistente. Tutto scorrere, ma non trascorrere, i tempi del cambiamento si abbreviavano, ma il tempo non passa. Nella nuova narrazione del mondo il conflitto di classe lascia il posto a una conflittualità diffusa e multiforme, di tante entità sociali, prive però di quell’agire per il divenire e per il futuro che era stato tipico dei soggetti mossi dall’antagonismo di classe. Si afferma, per dirla con Etienne Balibar, una società più «hobbesiana che marxiana» 70 , fatta di gruppi e al limite di singoli individui, incapaci di comunicare e fare “classe” tra loro, spesso avversi, gli uni contro gli altri. E’ la rappresentazione postmoderna della società. La realtà è ridotta a interpretazione: da una parte i soggetti sono descritti secondo la «formula astratta dell’autocoscienza», invece di considerare i rapporto sociali e materiali di esistenza; dall’altra, messa da parte la natura reale di rapporti sociali realmente esistenti, si ha la «la condensazione di tutte le categorie filosofiche nella formula, di pensieri, idee, espressioni concettuali, rese autonome dal mondo esistente» 71 , ma fondamentali in quanto sovrastruttura ideologica all’esistenza di questo mondo.

 

L’emancipazione non è un piacere solitario 72

Oggi, ci viene detto, siamo tutti assieme, ma ognuno separato dall’altro. Nella “nuova storia” i conflitti più evidenti non sono quelli tra le classi sociali, sono tra gruppi identitari dettati da appartenenze culturali, territoriali, di genere. L’attenzione e la propaganda ideologica si concentrano sull’identità, sulla soggettiva ricerca di identificazione di soggetti smarriti. La critica all’universalismo, fondato sul principio dell’eguaglianza, lascia il posto a «una politica della differenza, volta a salvaguardare la specificità di ognuno sia come singolo che come gruppo» 73 . E’ la deriva sociale e conflittuale di un neoliberismo che scommette tutto sull’individuo, sviluppando il suo egoismo e narcisismo concorrenziale e competitivo basato sul tutti contro tutti. L’emancipazione individuale prevede l’annullamento o l’eliminazione dell’altro in un regime sociale di spietata concorrenza. Così l’emancipazione proposta dal neoliberismo diventa un «piacere solitario», risultato della sovrapposizione tra sfera pubblica e privata, tra il diritto borghese oggettivizzato nella figura del cittadino e la sua subordinazione alle leggi del capitale. Ne risulta una moltitudine indistinta e postmoderna di individui dalla quale emergono nuovi stili di vita, soggettività, nuovi movimenti di liberazione e di emancipazione realizzata con la forza romantica del carattere e della personalità. Sono quelle “nuove” figure che Marx definiva «maschere di carattere», per dire che il sistema si sviluppa alle spalle dei produttori per cui l’apparente «indipendenza delle persone l’una dall’altra si integra in un sistema di dipendenza onnilaterale e imposta dalle cose» 74 . La tanto sbandierata valorizzazione del capitale umano che è in ogni individuo, che la libera iniziativa dovrebbe valorizzare al massimo, trova ancora il suo limite oggettivo nel dover essere adatti e funzionali a un sistema di rapporti sociali e di produzione capitalistici ai quali gli individui dovevano sottostare, al di là di quello che credono di essere.

La persistenza testarda di rapporti sociali e di produzione capitalistici che sovradeterminano la realtà, prima e oltre l’idea che se ne fa l’individuo, spiegano le ragioni della feroce polemica postmoderna contro le “vecchie” identità dettate dall’appartenenza di classe, della solidarietà, della reciprocità, della militanza politica. Esse sono volutamente criticate al fine di dissolverle, cancellando anche la memoria storica. Si vuole indirizzare la ricerca di una risposta al quesito “chi siamo” non più verso la politica solidale a antagonista, fondata sulla classe sociale, ma verso nuove identificazioni che assumono forme interclassiste, basate sulla fede, la lingua, l’etnico, il genere, il territorio, la professione, la generazione. Sulla base di queste ritrovate identità culturali in senso lato si ridefinisce l’agire dei soggetti. I momenti di ritrovata aggregazione soggettiva di appartenenza uniscono e immediatamente separano dagli altri, creando un’immagine di società differenziata culturalmente nella quale convivono identità diverse e multiple, autoreferenziali, separate e divise, non associate ma dissociate in una frammentazione di processi associativi-identitari.

E’ una società che può solo invocare la tolleranza verso gli altri, non certo il dialogo, l’inclusione, la comunicazione che cambia e trasforma i soggetti che comunicano. E’ la rappresentazione di un sociale che tende a conservarsi, non a modificarsi e cambiare, statico, bloccato. L’individuo è un soggetto smarrito, ricerca una soggettività non nell’appartenenza a gruppi di interesse solidaristici e politici, ma in ruoli definiti culturalmente che gli pongono una dolorosa lacerazione tra le sue varie identità: uomo, donna, padre, madre, figlio, religione, territorio, lingua, lavoro, famiglia, tipo di alimentazione, appartenenza politica e sindacale.

La postmodernità ci consegna la narrazione di un conflitto poggiante su «resistenze e soggettività frantumate», la nuova storia ci dice che l’antimperialismo e l’anticapitalismo sono “sentimenti” obsoleti, le resistenze raccolte dietro queste categorie sono di natura «conservatrice se non reazionaria», mentre le nuove virano «verso la necrosi identitaria. L’insoddisfazione diventa commerciale e monetizzabile. La rivolta uno show televisivo» 75 . I nuovi conflitti e la nuova politica si perdono nella congerie delle identità culturali, si passa dalla politica «delle idee alle politiche dell’identità, [è] l’etnicizzazione della politica» 76 e del sociale. Certo le contraddizioni culturali, generazionali e di genere producono conflitti nella società e nelle stesse classi sociali, ma non annullano, come si vuol far credere, la lotta di classe e sono anch’essi condizionati dal dominio del capitale. Senza voler negare la specificità di quelle contraddizioni, solo una ritrovata solidarietà collettiva nella lotta di classe può gettare le basi di una unione tra “persone” atte a realizzare ognuna la propria liberazione attraverso l’emancipazione di tutti. Quando la lotta di classe si indebolisce, perde di visibilità e di mordente, come è accaduto e sta accadendo, ecco che riemergono «chiusure egoistiche e vendicative, clan, branchi, tribù» 77 .

 

La politica nella tempesta magnetica

Non poteva mancare tra i “post” quello relativo alla postpolitica. Tutto concorre a dire che la politica e con essa i partiti sono finiti, dinosauri entrambi di un passato novecentesco, di una storia che è terminata, di una società che ha superato le vecchie conflittualità di classe per addivenire a una competizione libera tra individui modello homo oeconomicus, di una filosofia leggera che ha decostruito le narrazioni di liberazione dei soggetti collettivi e con esse i partiti e le ideologie politiche, intese come strategie di cambiamento della società. Cosa resta della politica in un panorama postmoderno? Molto e poco.

Molto perché la prima trasformazione che subisce la politica intesa come strategia del cambiamento è quella che la conduce a ricadere solo e principalmente nella sua tattica, cioè nella gestione amministrativa e quotidiana del presente ripiegato su se stesso. L’amministrazione del potere politico, il governare per governare, vincere perché non vincano gli altri concorrenti amministratori della stessa politica, diventa l’obiettivo, la ragion d’essere e del fare politica. E’ la trasformazione già segnalata da Max Weber della politica da passione a professione, del vivere per la politica al vivere di politica. Se si pensa che la storia sia finita è difficile d’altronde immaginare per la politica un'altra funzione che non sia quella della gestione del presente. Che altro tipo di politica si può immaginare senza storia, senza invenzione politica del possibile? E’ del tutto evidente che nell’ambito della postmodernità, nel mondo liquido dove tutto scorre ma non trascorre, si manifesti una crisi della ragion strategica, cioè della politica intesa non come scienza dell’amministrazione, né ingegneria istituzionale, «ma un’arte delle congiunture favorevoli e della decisione» 78 .

L’azione congiunta dall’attacco portato dalla trinità (neoliberismo, postmodernità, fine della storia) ha ridotto l’evidenza del soggetto collettivo di classe, ha tolto valore alla prospettiva e all’alternativa, ha rinchiuso l’azione politica dal regno delle possibilità a quello della necessità obbligata: ce lo impone il mercato, dobbiamo rispettare il fiscal compact, dobbiamo ridurre il debito tagliando la spesa pubblica. Poco quindi è lo spazio che la postmodernità lascia alla politica come strategia del cambiamento. Inoltre, nella crisi attuale del sistema economico sociale, attraversato dalle sue contraddizioni materiali, le stesse forze sociali e politiche che ad esso hanno cercato di opporsi, si trovano in difficoltà per cui esse, da elemento potenzialmente risolutivo della crisi, diventano espressione della crisi stessa, naufragano nella tempesta magnetica che si scatena. La permanenza del maltempo, forato da scariche di fulmini e altre perturbazioni, fanno impazzire la bussola che dovrebbe indicare l’orientamento. Nei momenti segnati dalla sconfitta e dall’arretramento della lotta delle classi subalterne, orientarsi diventa più difficile: «L'ago gira follemente sul suo centro e prende a caso tutte le direzioni […] Le stesse avanguardie […] traversano un periodo di smarrimento […] vanno avanti alla cieca, e ogni tanto si accusano tra loro di prendere il davanti per il didietro, lo Zenit per il Nadir» 79 .

Qui sta l’origine della crisi politica e organizzativa delle forze anticapitaliste, non nella forma partito oggi bersaglio polemico particolarmente caro ai movimentisti vecchi e nuovi i quali confondono l’effetto con la causa. La crisi si manifesta infatti nell’indebolimento della rappresentanza e della partecipazione, disimpegno dovuto a fragilità di contenuto e di progettualità politica prima ancora che della forma partito. La crisi è una crisi di strategia politica che fa apparire le organizzazioni e l’idea stesso di organizzazione strutture obsolete, incapaci di rappresentare una spinta progressiva e progettuale. Ribellioni di movimenti, resistenze di settori della classe operaia, non riescono a solidificarsi in progetti politici credibili o efficaci. La radicalizzazione è scomposta, frammentata, ibrida, evidenzia difficoltà a coordinarsi. I movimenti di protesta, critici verso la politica intesa come organizzazione strategica del cambiamento, pongono domande, segnalano sofferenze e ribellioni, quasi mai però sanno organizzare le risposte, le aspettano dai governi, dalla classe dominante, da un ceto politico finalmente nuovo e rinnovato. Hanno difficoltà a individuare le origini e le cause dei problemi e a trovare il luogo e il modo in cui risolvere le contraddizioni, così la protesta diventa la piazza e il web e non va oltre, non si fa progetto politico. Data l’assenza di conflitti politici e di classe, la protesta non diventa altro da sé, non si trasforma in critica dell’economia politica perché ha perso la capacità d’individuare il luogo delle contraddizioni, che è pur sempre, malgrado gli occultamenti mediatici, la dislocazione dei rapporti sociali di produzione tipici di una formazione economico sociale capitalistica. I movimenti attuali di protesta ai quali vanno molti meriti, non sempre sono capaci di ritrovare il nocciolo della contraddizione dato dalla lotta di classe e dal ruolo che le classi hanno nella costruzione della narrazione storica. Sottovalutano, con tratti di ingenuità frettolosa, il progetto politico e la loro la proposta alternativa di organizzazione sociale rimane debole, settoriale, sovente autoreferenziale.

Movimenti anticapitalistici non sono mancati in questi ultimi trent’anni. Sono stati l’espressione sociale di un universo anticapitalista emergente, organizzato in forum, in rete, hanno criticato il parlamentarismo e hanno dimostrato insofferenza verso la cosiddetta politica politicante, ma hanno anche espresso ingenuità profonde, hanno subito sconfitte sul campo e la mancanza si un senso politico progettuale al loro agire li ha congelati, annichiliti. La mancanza di una teoria, di una strategia e di una tattica politica adeguate a un fine, ha condotto l’anticapitalismo a una ribellione che rimane sospesa nell’aria di una società postmoderna, liquida che ruota in circolo su se stessa. Se si perde il senso del divenire storico e si cade nella logica del qui ed ora (poi qualcosa accadrà!), si «rinuncia ad ogni concezione strategica della politica per avventurarsi lungo un percorso sconnesso, [un] improvvisare senza scopo e scagliare frecce al cielo senza mirare alcun obiettivo preciso» 80 .

La presunta autosufficienza dei movimenti sociali ha dimostrato tutti i suoi limiti e la politica, che hanno voluto cacciare dalla finestra, è rientrata prepotentemente dalla porta tenuta aperta dalla classe dominante e ha potuto innervarsi in movimenti sociali frammentati e sporadici ai quali è data la possibilità di «confinarsi nel ruolo dei gruppi di pressione all’interno di un gioco politico invariato [rivolgendosi] agli sportelli politici disponibili» 81 . Se il sociale non riesce a produrre strategia politica alternativa, i partiti e le forze di governo che vivono di politica, hanno buon gioco a inserirsi e a dare, in mancanza d’altro, le loro risposte a una domanda che non sa rispondersi.

Il sociale può essere trasparente a se stesso? Può fare a meno della politica, oppure tra i due elementi c’è un rapporto che non si può sciogliere per decreto? La distinzione tra movimenti sociali e politica intesa come organizzazione strategica del cambiamento va mantenuta, almeno per una questione di chiarezza espositiva e interpretativa. Come il fisico che studia gli atomi non è un atomo e il microbiologo che studia i microbi non è un microbo, allo stesso modo un’organizzazione politica che partecipa ai movimenti vecchi o nuovi che siano non è un movimento e, viceversa, i movimenti sociali non sono automaticamente partiti. «Tra movimenti sociali e partiti vi è, quindi, una differenza, non di natura ma di funzione. Il loro rapporto può basarsi sulla percezione chiara di questa differenza e sul rispetto reciproco della loro indipendenza» 82 .

Si può, ovviamente credere che non sia così, che l’errore commesso nel Novecento sia stato la non consustanziale formazione, assieme e contemporaneamente, del partito e dell’autorganizzazione dei movimenti. Si può credere che il partito e il movimento siano fatti della stessa sostanza, come si volle imporre di credere al Concilio di Nicea del 325 d.C. rispetto al rapporto divino tra il Padre e il Figlio. Evidentemente non basta affermare un principio perché esso si realizzi. «Se la classe può avere una pluralità di rappresentazioni politiche, è perché tra il politico e il sociale c’è un rapporto e salvo cedere a un fantasma di omogeneità totalitaria, non si può più decretare la dissoluzione (o il deperimento) della politica in un essere sociale trasparente a se stesso» 83 . La politica non riflette direttamente e in modo lineare la classe sociale e neppure i movimenti. Soprattutto se si tratta di classi subalterne e di movimenti d’opposizione al sistema, costretti per di più ad agire in una fase di riflusso e di reazione e non di scesa delle lotte, le loro rappresentanze politiche sono soggette all’influenza della cultura e della politica propria dalla classe dominante. Inoltre, come si ripete continuamente ogni volta che si pronuncia la parola classe, anche i movimenti hanno una loro composizione interna fatta di strati sociali diversi, di differenti gradi di sviluppo e di esperienza, si trovano ad agire in condizioni diverse e, come tali, sono soggetti all’influenza delle altre classi sociali, degli altri movimenti, dei partiti.

Attualmente non c’è un soggetto sociale capace di unificare l’anticapitalismo in una strategia rivendicativa in grado di sintetizzare la miriade di contraddizioni attraverso le quali si manifesta l’insorgenza. Ma da ciò non deve dedursi la rassegnazione «alla frammentazione per gruppi identitari e di affinità della protesta», dimenticando che esiste pur sempre l’elemento unificante rappresentato dal «predominio sistemico dello stesso capitale» 84 e delle classi sociali che esso genera. Se si dimentica che i diversi rapporti sociali sono sottoposti alla sovradeterminazione del capitale, allora di fronte a noi compare una prateria sociale invasa da soggetti autonomi, indipendenti, mossi da una «giustapposizione corporativistica di differenze identitarie» 85 : così, dopo un lungo camminare domandando, nella pluralità discorsiva della post modernità ci ritroviamo punto e a capo col buon vecchio Bernstein: «il movimento è tutto, il fine nulla». Niente più strategia ma una tattica del giorno per giorno che ha come obiettivo la gestione contingente del presente, senza prospettiva.

La libertà a cui punta la politica postmoderna è tutta racchiusa nella possibilità di riconoscere l’autonomia dei vari movimenti, soprattutto di quelli che si distinguono in quanto “nuovi”, dalla classe operaia. In un modo plurale, fluido, dove l’attenzione è posta alla schiuma e non al caffelatte del cappuccino, i nuovi antagonismi ruotano su se stessi senza articolazione fra loro e con le altre contraddizioni espresse dalla formazione economico-sociale: «Lungi dal cercare di combinare gli antagonismi attivi nel campo dei rapporti sociali, puntano a una semplice espansione democratica in cui i rapporti di proprietà e di sfruttamento non sono che un’immagine tra le altre del grande caleidoscopio sociale» 86 . E’ quanto la società liberaldemocratica può concedere, almeno sul piano della sua rappresentazione del sociale. Concede questo spazio perché esso non è eversivo, consente la pluralità del sociale purché si rinunci a uno spazio unico di lotta per la trasformazione che solo un programma politico può dare, capace di rispondere a una crisi storica e di civiltà della società capitalistica.

 

Note
1 Promessi sposi, cap. XXXII. «Il senso comune è un giudizio senz’alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano» (Giambattista Vico, La scienza nuova, Libro primo, Milano, Rizzoli, 1959, p. 84
2 Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, vol. 4, Torino, Einuadi, 1975, pp. 763-764
3 Luciano Gallino, Della ingovernabilità, Milano Edizioni Comunità, 1987, p. 55
4 Antonio Gramsci, Il numero e la qualità nei regimi rappresentativi, in Note sul Machiavelli, Roma, Editori Riuniti, 1975, p. 111.
5 Mario Tronti, Per la critica del presente, Roma, Ediesse, 2013, p. 14
6 I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, Bari, Laterza, 1968
7 Luciano Gallino, Il colpo di stato di banche e governi, Torino, Einaudi, 2013, p. 259. Dello stesso avviso è Naomi Klein: «Se qualcosa va storto all’interno di un’economia liberista l’unica spiegazione possibile è che il mercato non è veramente libero» (Shock economy, Milano Bur-Rizzoli, 2012, p. 63).
8 Luciano Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi, 2011, p. 26 5
9 Naomi Klein, Shock economy, Milano Bur-Rizzoli, 2012, p. 69
10 Luciano Gallino, Il colpo di stato di banche e governi, Torino, Einaudi, 2013, p. 245 e 268.
11 Luciano Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi, 2011, p. 27 8
12 Luciano Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi, 2011, p. 25
13 Luciano Gallino, Il colpo di stato di banche e governi, Torino, Einaudi, 2013, p. 230.
14 Luciano Gallino, Il colpo di stato di banche e governi, Torino, Einaudi, 2013, p. 227.
15 Luciano Gallino, Il colpo di stato di banche e governi, Torino, Einaudi, 2013, p. 232.
16 Pierre Dardot, Christian Laval, La nuova ragione del mondo, Roma, Derive Approdi, 2013, p. 424
17 Pierre Dardot, Christian Laval, id., Roma, Derive Approdi, 2013, p. 437
18 Pierre Dardot, Christian Laval, id., Roma, Derive Approdi, 2013, p. 439
19 Pierre Dardot, Christian Laval, id., Roma, Derive Approdi, 2013, pp. 440- 441
20 Hilary Putnam, Rinnovare la filosofia, Milano, Garzanti, 1998, p. 108 11
21 Daniel Bensaid, Una lenta impazienza, Roma, Alegre, 2004, pp. 460-461
22 Costanzo Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia, Pistoia, Petite plaisance, 2013, p. 517
23 Charles Wright Mills, Politica e potere, Milano, Bompiani, 1970 p. 317
24 Charles Wright Mills, Politica e potere, Milano, Bompiani, 1970 p. 317
25 Charles Wright Mills, Politica e potere, Milano, Bompiani, 1970 p. 316
26 Citato in Pierre Dardot, Christian Laval, La nuova ragione del mondo, Roma, Derive Approdi, 2013, p. 432 17
27 Costanzo Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia, Pistoia, Petite plaisance, 2013, p. 272
28 Massimo Recalcati, in Bentornata realtà, a cura di Mario De Caro e Maurizio Ferraris, Torino, Einaudi, 2012, pp. 193- 194
29 Marco Belpoliti, Oggi potrebbe scriverlo un immigrato cinese, «La stampa», 22 aprile 2012
30 Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Bari Editori Laterza, 2012, p. 62
31 Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Bari Editori Laterza, 2012, p. 48
32 A. de Tocqueville, La democrazia in America, in Scritti politici, Torino, Utet, 1968, p. 589 19
33 Karl Marx, Prefazione alla prima edizione, Il capitale, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 34
34 Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà, Milano, Garzanti, 2008, p. 17
35 Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà, Milano, Garzanti, 2008, p. 177 20
36 Karl Marx, Introduzione alla critica della filosofia del diritto di Hegel, citato dall’introduzione di Cesare Luporini a Karl Marx, Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, Roma, Editori riuniti, 1967, p. LX
37 Daniel Bensaid, Elogio della politica profana, Roma, Edizioni Alegre, 2013, p. 254
38 Daniel Bensaid, Una lenta impazienza, Roma, Alegre, 2004, p. 179
39 Daniel Bensaid, Elogio della politica profana, Roma, Edizioni Alegre, 2013, p. 359
40 Amadeo Bordiga, Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, Milano, Edizioni Il Programma comunista, 1976, p. 465.
41 Pierre Dardot, Christian Laval, La nuova ragione del mondo, Roma, Derive Approdi, 2013, pp. 474-475 24
42 Mario Tronti, Per la critica del presente, Roma, Ediesse, 2013, pp. 141-142 25
43 Karl Marx, Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, Roma, Editori riuniti, 1967, p. 27
44 Karl Marx, Fiedrich Engels, La sacra famiglia, in Opere, vol. 4, Roma, Editori Riuniti, 1972, p. 103
45 Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1994, p. 14
46 Mario Tronti, Per la critica del presente, Roma, Ediesse, 2013, pp. 142- 143
47 Livio Maitan, Anticapitalismo e comunismo, Napoli, Cuen, 1992, p. 119
48 Raymond Aron, Le tappe del pensiero sociologico, Milano, Mondadori, 1974, p. 468
49 Thomas Nipperdey, Réflexion sur l’histoire allemande, Paris, Gallimard, 1992, p. 332
50 Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 145
51 Jean-Marie Vincent, Critique du travail, Paris, Puf, 1987, p. 45
52 Max Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Milano, Mondadori, 1974, p. 208. Il sociologo tedesco portava l’esempio della battaglie di Maratona e Salamina per sviluppare gl’interrogativi su cosa sarebbe accaduto se i Persiani e non i greci avessero vinto la battaglia, al fine di dimostrare come uno o più eventi possono decidere dell’evoluzione della storia (ivi, p. 214-215)
53 Karl Marx, Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, Roma, Editori riuniti, 1967, p. 39
54 Karl Marx, Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, Roma, Editori riuniti, 1967, p. 39 e p. 31
55 Maurizio Ferraris, in Bentornata realtà, a cura di Mario De Caro e Maurizio Ferraris, Torino, Einaudi, 2012, p. 147
56 Daniel Bensaid, Una lenta impazienza, Roma, Alegre, 2004, p. 306
57 Benedetto Croce, La storia come pensiero e come azione, Napoli, Bibliopolis, 2002, p. 38
58 Daniel Bensaid, Una lenta impazienza, Roma, Alegre, 2004, p. 307
59 Filippo Tommaso Marinetti, Il manifesto del futurismo, «Le Figarò», 20 febbraio 1909
60 Antonio Gramsci, Passato e presente, Torino, Einaudi, 1951, p. 102.
61 Daniel Bensaid, Una lenta impazienza, Roma, Alegre, 2004, p. 462. Il termine disperazione teorica riferito all’odierno operaismo è di Mario Tronti, citato dallo stesso Bensaid
62 Daniel Bensaid, Elogio della politica profana, Roma, Edizioni Alegre, 2013, p. 195
63 Livio Maitan, Anticapitalismo e comunismo, Napoli, Cuen, 1992, p. 32
64 Etienne Balibar, in Etienne Balibar, Immanuel Wallerstein, Razza, nazione, classe: le identità ambigue, Roma,
Edizioni Associate, 1990, p. 168.
65 Daniel Bensaid, Una lenta impazienza, Roma, Alegre, 2004, p. 440
66 Walter Benjamin, Sul concetto di storia, Torino, Einuadi, 1997, p. 27 33
67 Pierre Dardot, Christian Laval, La nuova ragione del mondo, Roma, Derive Approdi, 2013, p. 446
68 Pierre Dardot, Christian Laval, La nuova ragione del mondo, Roma, Derive Approdi, 2013, pp. 445- 446
69 Pierre Dardot, Christian Laval, La nuova ragione del mondo, Roma, Derive Approdi, 2013, p. 460
70 Etienne Balibar, Immanuel Wallerstein, Razza, nazione, classe: le identità ambigue, Roma, Edizioni Associate, 1990, p. 170.
71 Karl Marx, Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, Roma, Editori riuniti, 1967, p. 77
72 Daniel Bensaid, Marx istruzioni per l’uso, Varese, Ponte alle Grazie, 2010, p. 70
73 Maria Cristina Marchetti, La contraddizione multiculturale. Identità e identificazione, in La società di tutti.
Multiculturalismo e politiche dell’identità, a cura di Francesco Pompeo, Roma, Meletemi, 2007, p. 207
74 Karl Marx, Il capitale, Roma, Editori Riuniti, libro I, sez, I, cap. III, pp. 139-140.
75 Daniel Bensaid, Elogio della politica profana, Roma, Edizioni Alegre, 2013, p. 267, p. 168 e 310
76 Daniel Bensaid, Elogio della politica profana, Roma, Edizioni Alegre, 2013, p. 289
77 Daniel Bensaid, Marx istruzioni per l’uso, Varese, Ponte alle Grazie, 2010, pp. 61-62
78 Daniel Bensaid, Elogio della politica profana, Roma, Edizioni Alegre, 2013, p. 396
79 Amadeo Bordiga, Bussole impazzite, «Battaglia comunista», n. 20, 1951
80 Daniel Bensaid, Elogio della politica profana, Roma, Edizioni Alegre, 2013, p. 177 39
81 Daniel Bensaid, Elogio della politica profana, Roma, Edizioni Alegre, 2013, pp. 220- 221
82 Daniel Bensaid, Il ritorno del problema “politico”, «Erre», n. 37, febbraio-marzo 2010, p. 42.
83 Daniel Bensaid, Elogio della politica profana, Roma, Edizioni Alegre, 2013, p. 368
84 Daniel Bensaid, Il ritorno del problema “politico”, in «Erre», n. 37, febbraio-marzo 2010. p. 43.
85 Daniel Bensaid, Elogio della politica profana, Roma, Edizioni Alegre, 2013, p. 382
86 Daniel Bensaid, Elogio della politica profana, Roma, Edizioni Alegre, 2013, p. 379

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