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orizzonte48

UE-EURSS? No, totalitarismo neo-liberista del mercato 

di Quarantotto

schermata 2014 10 14 alle 10 36 411. Come spesso capita, seguendo una prassi "conservativa", dei commenti più stimolanti, ci soffermiamo sulla questione della "spontaneità" dell'ordine naturale del mercato per arrivare poi a verificare la presunta equiparabilità dell'Unione Europea all'URSS.

Muoviamo dalla notazione di Philip Mirowsky (et al.) suggerita da Francesco:

il Mercato” non fa apparire naturalmente e magicamente le condizioni per il suo continuo fiorire, per questo il neoliberismo è in primis e soprattutto una teoria su come ristrutturare lo Stato al fine di garantire il successo del mercato e dei suoi attori più importanti (…)” [P. MIROWSKI - D. PLEHWE, The Road from Mont Pelerin, Harvard University Press, Cambridge, 2009, 161]".

Non che Mirowsky sia un entusiasta assertore di tutto questo: anzi, egli è uno dei più acuti e ironici osservatori critici di quel paradigma neo-liberista, che controlla saldamente governi nonchè opinione pubblica e di massa, avendo unificato il pensiero politico-filosofico (prima ancora che, ovviamente, quello economico), ormai praticamente in tutto il mondo:

 

"Nel suo libro Never Let a Serious Crisis Go to Waste , Mirowski conclude nel senso che il pensiero neoliberale è divenuto così pervasivo che qualsiasi evidenza ad esso contrapponibile viene utilizzata solo per un ulteriore convincimento dei suoi seguaci circa la sua verità definitiva. Una volta che il neoliberalismo diviene una "TEORIA DEL TUTTO", fornendo una definizione rivoluzionaria del Sé, della conoscenza, dell'informazione, dei mercati e dello Stato, non può più essere falsificata da una cosa così "insignificante" come i dati dell'economia reale".

 

2. Ma tralasciando il pur interessante versante del pensiero di Mirowsky, l'argomento del costruttivismo (auto)occultato dei neo-liberisti è agevolmente ricavabile dal loro originario e peraltro monoliticamente immutabile pensiero: basti vedere, come "concetti di questo tipo vennero teorizzati, nel (tristemente) noto "Colloque Lippmann", da Miksch, e furono ripresi dallo stesso Einaudi in assemblea Costituente; cfr; pagg.97-98 de "La Costituzione nella palude".

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Il "costruttivismo" neo-ordo-liberista è, in realtà, giustificato come restaurazione dell'ordine naturale della Legge (del mercato), e quindi in funzione "anticostruttivismo" statale.

Contraddizione su cui Ruini non mancò di ironizzare nella sua formidabile replica a Einaudi...

Su questa considerazione si innesta l'intervento confermativo di Arturo che ci offre questa ulteriore e significativa fonte:

«La scelta – scriveva Robbins non è fra un piano o l’assenza di piano, ma fra differenti tipi di piano». Correttamente si deve parlare dell’esistenza di un piano liberale, così come si parla di un piano socialista o nazionale. 

«La ‘pianificazione’, nel suo significato moderno, comporta il controllo pubblico della produzione in una forma o in un’altra. L’intento del piano liberale era quello di creare un insieme di istituzioni in cui i piani dei privati potessero armonizzarsi. Lo scopo della moderna (pianificazione) è quello di sostituire i piani privati con quello pubblico – o in ogni caso di relegarli in una posizione di subordinazione».

Su questa base, Robbins fu allora in grado di denunciare il difetto della posizione liberale (e socialista) al livello internazionale. 

I liberali classici avevano sostenuto la necessità di introdurre una serie di istituzioni, come la moneta, la regolamentazione degli scambi e della proprietà, ecc. al fine di consentire il funzionamento del mercato: la mano invisibile è in verità, scriveva Robbins, la mano del legislatore
Ma gli economisti classici, mentre ritenevano indispensabili queste misure di governo all’interno dello Stato, avevano ingenuamente creduto che potesse spontaneamente crearsi un mercato ben ordinato e funzionante anche al livello internazionale, in una situazione di anarchia politica."

 

3. Ora Lionel Robbins è importante perché ebbe una non trascurabile influenza sulla visione economica e "federalista"  del "secondo" Einaudi (anzi del "terzo", dopo quello, inizialmente socialista, della gioventù): parliamo di quell'Einaudi che, dopo averlo appoggiato, prende le distanze dal fascismo, per divenire oppositore delle teorie keynesiane e sostenitore della riduzione "in polvere" degli Stati nazionali in nome dell'ordine internazionale dei mercati, un concetto trasmesso e trasposto come soluzione irenica nel manifesto di Ventotene

Di conseguenza, per quella naturale trasmissione osmotica del pensiero che nel neoliberismo raggiunge uno dei massimi livelli di efficacia e di compatto conformismo, Robbins ebbe anche un'influenza moral-scientifica sulla stessa costruzione europea

Ecco che si spiega come e perché egli stesso sostenga qualcosa che risulta in perfetta assonanza con l'ordoliberista Miksch.

Il problema è che Einaudi e Robbins, e Monnet, e Adenauer e i suoi consiglieri (Roepke, Erhard, Eucken, etc.), sono perfettamente coscienti che l'attivismo interventista del neo-Stato (bello), neo-liberista, distruttore dello Stato sociale nazionale, orientato al "sezionalismo" (cioè alla considerazione e tutela della posizione dei lavoratori...), deve proiettarsi, in un processo a fasi successive, nella graduale costruzione di un organismo sovranazionale detentore di ogni residua sovranità ammissibile, sottratta agli Stati e in parte concentrata, in parte "naturalisticamente" dispersa/soppressa in tale sede superiore.  

Come appunto teorizzava meglio di tutti Hayek.

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4. Il punto è se tale "processo"- condotto in modo che il cittadino dell'ex-Stato nazionale (e democratico) non si accorga della distruzione progessiva di sovranità democratica-, possa non divenire un inevitabile cammino verso un nuovo totalitarismo: cioè, parafrasando l'ipocrisia della rivendicazione libertaria oligarchica di Hayek, un cammino "verso la schiavitù" dei popoli soggetti a questa costruzione dell'internazionalismo neo-liberista.

Per risolvere questo problema, dobbiamo dunque tornare all'enunciato di Robbins sopra riportato.

Sì, perché risolto il problema della pianificazione nel senso che essa ben possa (anzi: debba) essere "neo-liberista" e promercato, una volta portato il sistema alla sua (intrinseca) internazionalizzazione, ne deriva la difficoltà di individuare QUALE INTERESSE PRIVATO debba ritenersi prevalente.

Infatti, a livello nazionale, ciò risulta relativamente semplice, seguendo le indicazioni intrinseche nel sistema del mercato (marshalliano e marginalista), quali esplicitate da Hayek sul piano politico.  

Egli compie un'implicita ridefinizione della stessa soggettività e capacità giuridica generale delle persone umane, in base ad una (neo)eguaglianza formale, restrittiva persino rispetto alle formali enunciazioni del liberalismo ottocentesco; e cioè, quella di una "piena" capacità condizionata al ricorrere della titolarità dei beni patrimoniali essenziali: capitale industriale e finanziario. 

In funzione della titolarità di tali beni si individuano gli interessi prescelti e da perseguire (quanto appena detto è agevolmente desumibile anche dalle istituzioni essenziali affidate alla creazione del legislatore-mano invisibile dalla predicazione di Robbins: "introdurre una serie di istituzioni, come la moneta, la regolamentazione degli scambi e della proprietà, ecc" ).

 

5. Ma a livello internazionale, e lo nota lo stesso Robbins, riscontrandosi una società (o comunità sociale) composta da Stati, cioè tra persone giuridiche sovrane, manca un assetto sociologico comparabile a quello nazionale, suddiviso in proprietari-capitalisti e "minus-habentes" (cioè tutti gli altri) che sia idoneo per risolvere il conflitto distributivo mediante lo stesso criterio utilizzabile all'interno dei singoli Stati.

Si pone allora il problema di quale interesse statale, tra quelli dei vari protagonisti della comunità internazionale o di una comunità "federativa", possa incarnare, a preferenza di altri, l'interesse privato privilegiato (proprietario e capitalista) in base a cui indirizzare la pianificazione dell'intera società (composta dal substrato sociale di più Stati, appunto, "federati"). 

E poi come giustificare la qualificazione di interesse privato a cui asservire gli interventi dell'autorità sovranazionale neo-liberista, mantenendo la facciata coerente della pianificazione pro-mercatista, se ogni soggetto dell'ordinamento internazionale si presenta come l'entificazione di un'organizzazione per definizione pubblica?

 

6. In realtà si tratta di problemi irrisolvibili, essenzialmente perché si pretende di negare l'affermazione autoritaria, e quindi "pubblicistica",  delle forze del mercato, che  si contrappongono alla "libertà" di un'ampissima sfera di interessi privati "esclusi": insomma si limita fortemente, in funzione di un'oligarchia, l'interesse generale dei popoli e lo si vuol dissimulare in un'utopica e pretestuosa ricerca della pace. Ce lo spiegò la stessa Rosa Luxemburg, qualche decennio prima delle visioni di Hayek e Robbins, con icastica lucidità:

«Il carattere utopico della posizione che prospetta un’era di pace e ridimensionamento del militarismo nell’attuale ordine sociale, è chiaramente rivelato dalla sua necessità di ricorrere all’elaborazione di un progetto. Poiché è tipico delle aspirazioni utopiche delineare ricette “pratiche” nel modo più dettagliato possibile, al fine di dimostrare la loro realizzabilità. A questa tipologia appartiene anche il progetto degli “Stati Uniti d’Europa” come mezzo per la riduzione del militarismo internazionale. [...]

L’idea degli Stati Uniti d’Europa come condizione per la pace potrebbe a prima vista sembrare ad alcuni plausibile, ma a un esame più attento non ha nulla in comune con il metodo di analisi e con la concezione della socialdemocrazia. [...]

...Che un' idea così poco in sintonia con le tendenze di sviluppo non possa fondamentalmente offrire alcuna efficace soluzione, a dispetto di tutte le messinscene, è confermato anche dal destino dello slogan degli “Stati Uniti d’Europa”. Tutte le volte che i politicanti borghesi hanno sostenuto l’idea dell’europeismo, dell’unione degli stati europei, l’anno fatto rivolgendola, esplicitamente o implicitamente, contro il “pericolo giallo”, il “continente nero”, le “razze inferiori”; in poche parole l’europeismo è un aborto dell’imperialismo.

E se ora noi, in quanto socialdemocratici, volessimo provare a riempire questo vecchio barile con fresco ed apparentemente rivoluzionario vino, allora dovremmo tenere presente che i vantaggi non andrebbero dalla nostra parte, ma da quella della borghesia. Le cose hanno una loro propria logica oggettiva...".

7. E, d'altra parte, Lenin, ben conoscendo come i "federalisti dell'ordine internazionale dei mercati" potessero intendere le cose in un solo modo, aveva anticipato le pseudo-soluzioni e gli esiti di un federalismo europeo guidato dai liberisti (trionfatori nella lotta di classe proprio grazie al federalismo):

Ripassare non fa mai male: Lenin, 1915

In regime capitalistico, gli Stati Uniti d'Europa equivalgono ad un accordo per la spartizione delle colonie

"Ma in regime capitalistico non è possibile altra base, altro principio di spartizione che la forza. Il miliardario non può dividere con altri il "reddito nazionale" di un paese capitalista se non secondo una determinata proporzione: "secondo il capitale" (e con un supplemento [l'aumento di produttività a favore dei profitti!, ndr], affinché il grande capitale riceva più di quel che gli spetta). Il capitalismo è la proprietà privata dei mezzi di produzione e l'anarchia della produzione [ovvero privatizzazioni e anarco-liberismo, ndr]. Predicare una "giusta" divisione del reddito su tale base è proudhonismo, ignoranza piccolo-borghese, filisteismo. Non si può dividere se non "secondo la forza". È la forza che cambia nel corso dello sviluppo economico."

 

8. Dunque, i problemi di "pacifica" (id est. "razionale") individuazione degli interessi da perseguire nell'interventismo neo-liberista internazionalizzato, sono irrisolvibili: e lo sono all'interno degli stessi interessi comuni delle elites "parti" dell'accordo, - che rimangono pur sempre divise dalle diverse origini e strutture nazionali del capitali. A decidere può essere sempre e solo la "forza": e ogni finalità di pace è solo una simulazione di facciata.

Ma date le premesse dei neo-liberisti federalisti, questi problemi in definitiva sono una false flag: a nessuno veramente importa che non ci sia un criterio, nell'ambito del diritto internazionale, per stabilire quale gruppo di capitalisti debba essere privilegiato, a scapito di altri, nella regolazione pianificata della società sovranazionale regolata dal mercato: cioè, appunto, una Grande Società dove piuttosto prevale come valore, l'obiettivo della unificazione federalista, che risolve(rebbe) ogni problema in una saldatura degli interessi di classe che le elites capitaliste mettono, in qualche modo, in comune

Una classe transnazionale di oligarchi della finanza e del capitale industriale (finanziarizzato), si coagula per stabilire regole cogenti e irresistibili che ridurranno a miti consigli le rispettive classi sociali contrapposte; in particolare i lavoratori, "controparte" di mercato indebolita dall'apertura delle economie nazionali.  

Queste ultime, infatti, permangono come punto di riferimento meramente contabile, e non più politico-sociale, degli equilibri delle partite correnti e delle esortazioni a sopportare i costi della corsa alla "competitività".

Cioè, in pratica, internazionalizzaione dei profitti, e nazionalizzazione dei costi per i lavoratori.

 

9. Tuttavia, nonostante l'accordo di saldatura degli interessi elitari transnazionali, una volta riportata la prospettiva al livello di riferimento nazionale, cioè alle masse non tutelabili per definizione nella privazione progressiva e "non avvertita" della sovranità democratica da parte dei singoli popoli, le elites che danno vita al disegno non escludono una lotta feroce. 

(Il TUE, art.3, par.3, parla di economia (sociale) di mercato fortemente competitiva).

E dunque ha ragione Lenin: non è possibile altra base, altro principio di spartizione che la forza.

Ed è così che ci troviamo, oggi, a fronteggiare, l'arrembante ordoliberismo pianificatore e super interventista della Germania: naturalmente interventista con legislazione pro-mercato, come ben vediamo in occasione della crisi indotta dalla regolazione introdotta con l'Unione bancaria,  ma non solo.  

Solo che l'intervento della pianificazione neo-liberista, come avevano pronosticato 100 anni fa Lenin e Luxemburg, è NATURALMENTE DIRETTO A PRESERVARE E RAFFORZARE LA POSIZIONE DELLE ELITES NAZIONALI CHE, GRAZIE ALLA ISTITUZIONE "FEDERALISTA", HANNO VINTO LA COMPETIZIONE SUL MERCATO

 

10. E la prova di ciò l'abbiamo nella vicenda dell'euro: al principio del processo di pianificazione dell'ordine internazionale dei mercati, le elite si accordano per farne il fulcro della denazionalizzazione della moneta e delle stesse politiche fiscali. Stabiliti i rapporti di forza e di suddivisione dei "dividendi" (di cui tanto si parla, tutt'ora), cioè registrati gli esiti della spietata competizione, i danni sociali a livello popolar-nazionale non trattengono da alcuna ulteriore misura tesa e conservare l'utilità elitaria della moneta unica (controllo del mercato del lavoro e dell'intero conflitto distributivo che l'euro consente). 

Da ciò, senza alcuna resistenza politica nazionale, (almeno in Italia), regole, attuative della più ampia pianificazione mercatista, quali il fiscal compact e l'Unione bancaria, coi suoi "meccanismi di risoluzione", che riducono il perdente della "guerra dell'euro" a quasi-colonia sotto ricatto armato della BCE.

Ne discende una situazione di rapporti di forza in consolidamento e divaricazione: il "centro" vincitore diventa paese imperialista e i paesi perdenti, divenuti periferici, divengono poco più che colonie.

Ecco che, dunque, il disegno federalista dell'ordine internazionale dei mercati, cioè l'unione del "mercato unico" a danno del lavoro,  rivela il suo inevitabile esito totalitario

Ed essendo intollerante, culturalmente e politicamente, rispetto a qualsiasi contraddizione e opposizione, diviene anche inevitabilmente autoritario.

 

11. Che il (neo)liberismo, quale che sia l'alibi dietro cui viene nascosta la inevitabile natura oligarchica e antisociale dell'ordine del mercato, avesse un esito autoritario, ce lo aveva già dimostrato questo post di Bazaar:

"...il totalitarismo non è altro che la fase assoluta a cui tende il sistema capitalistico liberale – senza freni e limiti – nel momento in cui viene mercificato e monopolisticamente prezzato qualsiasi oggetto sensibile, da qualsiasi risorsa naturale, all'uomo, dalle norme morali, ai sentimenti. Sheldon Wolin, il grande teorico politico americano recentemente scomparso, all'inizio degli anni 2000, analizzando la proiezione degli Stati Uniti sul mondo, propose la definizione di “totalitarismo rovesciato”...

Vediamo ad esempio C. Friedrich e Z. Brzeziński (1956) sul significato storico di totalitarismo, proponendo già alcuni spunti di riflessione tra parentesi quadre: 

a) un'ideologia onnicomprensiva che promette la piena realizzazione dell'umanità; [tipo il “mondialismo”?]

b) un partito unico di massa, per lo più guidato da un capo, che controlla l'apparato statale e si sovrappone a esso; [tipo il “PUDE”, il “PUO” o il partito unico liberale con a capo il Grande Fratello, ovvero il Mercato?]

c) un monopolio quasi totale degli strumenti della comunicazione di massa;

d) un monopolio quasi totale degli strumenti di coercizione e della violenza armata;

e) un terrore poliziesco esercitato attraverso la costrizione sia fisica sia psicologica, che si abbatte arbitrariamente su intere classi e gruppi della popolazione;

f) una direzione centralizzata dell'economia. [Possiamo chiamare anche questo “monopolio” di un mercato massimamente concentrato che pianifica produzione e fissa i prezzi?]...

Le differenze che trova Sheldon Wolin in forma di attributi di segno inverso nell'attuale totalitarismo sono principalmente tre:

1 – Le grandi imprese sostituiscono lo Stato come principale attore economico e, tramite attività di lobbying, controllano il governo senza che ciò sia ritenuto corruzione;

2 – Non viene più ricercata una costante mobilitazione di massa a fini di propaganda, ma la popolazione viene tenuta in uno stato perenne di apatia politica;[9]

3 – La democrazia viene formalmente rivendicata e proposta come modello al mondo intero".

 

12. Riassumendo: ci pare evidente come, senza neppure ricorrere a tutte le illustri e sofisticate analisi finora richiamate:

a)  un ordine dei mercati proiettato a livello sovranazionale sia, necessariamente, il frutto di un accordo concluso tra elites di operatori economici, proprietari del capitale finanziario e produttivo; 

b) tale accordo diviene il presupposto AUTOMATICO per una intensa pianificazione normativa, di tutela degli interessi e dei RAPPORTI DI FORZA  che si manifesteranno nella competizione;

c) una competizione, però, non assolutamente libera e lasciata a forze naturalistiche, bensì svoltasi sulla base delle regole che sono state stabilite nell'accordo tra elites.

 

13. Questa idea del mercato è intrinsecamente autoritaria, perché geneticamente orientata a perseguire istituzionalmente solo gli interessi delle elites: l'istituzione (moneta, regole del mercato, governance delle relative politiche), detterà norme e applicherà sanzioni a vantaggio di queste elites e PER ASSOGGETTARE LE NON ELITES. 

Questo autoritarismo è la negazione della democrazia e pertanto esige un continuo sforzo di controllo politico-culturale sul substrato sociale delle non elites.

Per esercitare questo sforzo continuo di controllo sociale si sviluppa, appunto, l'istituzionalismo sovranazionale neo-liberista che, come evidenzia Mirowsky, rivendica ormai il ruolo di "teoria del tutto": e proprio come tale il neoliberismo sfocia inevitabilmente in un TOTALITARISMO DEL MERCATO, nella nuova forma che evidenzia Wolin. 

Una forma, cioè che controlla le istituzioni formali in assoluta mancanza di trasparenza e assunzione di responsabilità, distrugge cultura e consapevolezza nella massa di non-elite e predica un simulacro esile, contraddittorio, e spesso ridicolo, di democrazia. 

Ma come ogni autoritarismo totalitario non rinuncia a creare un "uomo nuovo", un essere perfettamente asservito alle esigenze del mercato e della competitività, incapace di avere altra aspirazione che assecondare e massimizzare questi pseudo-valori mercatori, concordati dalle elites e offerti come prospettiva di "pace" e di benessere (!), contro ogni evidenza.

 

14. In questo quadro, nulla risulta più inesatto, se non addirittura grottesco, che fare un accostamento del federalismo europeo, - pianificatore della privatizzazione oligarchica di ogni istituzione e di ogni gerarchia creata dalla spietata competizione- con l'URSS.

L'ipotesi di Vladimir Bukovskji che vi sia una somiglianza con l'URSS, e addirittura una "strumentalità" dell'UE rispetto all'assoggettamento dei popoli europei al dominio "sovietico", è una mera fantasia priva di qualsiasi attendibilità analitica e non corrispondente alla realtà storica e fenomenologica del federalismo europeo, cioè del neo-ordoliberismo istituzionalizzato, di cui abbiamo visti gli esiti inevitabili.

Spero che le persone dotate di intelligenza critica e cultura non parlino più di EURSS. E guardino alla ipermanifesta realtà, nella quale il neo-liberismo, con il suo ordine sovranazionale dei mercati, e il suo liberoscambismo istituzionalizzato, teorizza apertamente i suoi esiti "pianificatori" e la sua idea totalitaria e antiumana della società e del "Tutto".

 

ADDENDUM: i termini della questione relativa al totalitarismo come conseguenza insita nelle premesse stesse del neo-liberismo, avrebbero dovuto essere insiti nel post che precede.

Ma, constatata, per vari aspetti, una certà difficoltà a trarre un'agevole schematizzazione critica della questione stessa, prendo spunto da un commento di Bazaar, per proporre uno schema riassuntivo che, spero, risulti chiarificatore.

"1. Riassumo in termini semplificati la questione: il socialismo reale sovietico vuole modificare la struttura sociale ma non l'essere umano nella sua essenza psicologica e antropologica (ciò che è la caratteristica del totalitarismo).

E non considera questa opzione come razionale proprio perché non la considera "reale": si rende infatti conto che tale essenza delle dinamiche sociali è immodificabile; cioè antropologicamente la società tende a produrre delle posizioni di forza politico-economica e delle norme per conservarle. Perciò, per risolvere con "effettività" il problema, sceglie l'autoritarismo, cioè un regime che usa la forza per realizzare il cambiamento sociale strutturale.1.1. C'è un versante utopico e antiumano in ciò?

Sì, perché il "metodo" non solo si rivela (inevitabilmente, direi) non transitorio (id est. delimitato a una fase "instaurativa"), come inizialmente lo si voleva giustificare, ma contiene in sè i germi della strutturazione del potere burocratizzata e anti-libertaria (in senso essenziale: libertà di parola, di stampa, di movimento, di inviolabilità della persona e del domicilio, ecc.). Rosa Luxemburg è chiara su questo punto. Lo ritiene un costo non giustificabile.

2. Il neo-liberismo, a sua volta, muove sempre dalla stessa premessa ma ne inverte il senso valoriale: ritiene che le posizioni prevalenti, economico-politiche, DEBBANO essere preservate istituzionalmente, ma considera tale obiettivo strutturale una "Legge naturale", con pretesa di scientificità: poiché, poi (come hai sempre evidenziato), convidide l'analisi strutturale marxista della società, si rende conto della incessante conflittualità determinata da tale Legge naturale.Perciò teorizza e attua, come prassi politica, un sistema di controllo sociale autoritario del conflitto (in varie forme, di cui le principali, contemporanee, sono il sistema mediatico e quello monetario): questo sistema è funzionale ad una DEFINITIVA MUTAZIONE dell'orientamento psicologico e esistenziale dell'essere umano (cioè vuole invertire la sua autopercezione di essere capace di autodeterminarsi, sia pure entro limiti storicamente "convenzionali"). 2.1. Questa utopia-distopia, ben evidenziata da Orwell, fornisce alla Storia un formidabile paradosso: per strutturare la naturalità (scientifica) delle Leggi del mercato, e le loro conseguenze di gerarchizzazione sociale definitiva (come già nelle teorie teocratiche del medio-evo, da parte dell'aristocrazia terriera che, pure, svolgeva, in origine, una funzione difensiva del minimo di sopravvivenza delle comunità territoriali), il neo-liberismo ritiene indispensabile modificare la "natura" degli esseri umani, rendendoli propensi ad accettare la schiavitù come fatto normativo "fondante" (grund-norm complementare a quella dell'ordine del mercato).Esattamente in questa pars construens consiste il totalitarismo e la differenza insanabile con l'autoritarismo sovietico: l'essere umano deve, senza alternative, riconoscere la colpa di non essere "naturalmente" nel modo in cui gli imporrebbe...la Legge naturale del mercato.2.2. Come dice Hayek, nell'aforisma qui infinite volte citato, per realizzare ciò ogni strumento e ogni fine deve essere riplasmato dall'elite degli eletti."

In questa contraddizione, incentrata sull'innaturalità consapevole della prassi politica predicata - elemento che fa cadere anche la naturalità della premessa (sull'ordine del mercato), (come attestano Basso, Mirowsky, Miksch e via dicendo: cioè chiunque ci ragioni, da qualunque punto di partenza muova)-, è il clou del totalitarismo.

Che è dunque un carattere proprio del liberismo e a cui questo, per questioni di continuità di potere e, quindi, per la sua stessa sopravvivenza, NON POTRA' MAI E POI MAI RINUNCIARE.

 

 

 

 

 

 

 

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