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La crisi è diventata un modo di governo

Intervista a Christian Laval e Pierre Dardot

Ci troviamo con le spalle al muro. Non ci resta che una cosa: sognare, inventare, ritrovare il gusto dell’agire comune

euro 76019 1920Siamo in stato di emergenza. Non nel senso in cui lo intendono François Hollande o Charles Michel. No, per Christian Laval Pierre Dardot, autori di Ce cauchemar qui n’en finit pas, Comment le néolibéralisme défait la démocratie (La Découverte, 2016), “viviamo un’accelerazione decisiva dei processi economici e sicuritari che trasformano in profondità le nostre società e i rapporti politici tra governanti e governati”. “Siamo prossimi ad un’uscita definitiva dalla democrazia a vantaggio di una governance espertocratica sottratta a ogni controllo”, affermano il sociologo e il filosofo. Nemmeno le crisi non sono state in grado di segnare una rottura capace di obbligare a una svolta. Al contrario “la crisi stessa è diventata un vero e proprio modo di governo delle società”.

Ma non tutte le speranze sono finite.

Secondo gli autori di Commun (La Découverte, 2014), il risveglio dell’attività politica democratica “dal basso” tra i cittadini è il segno che lo scontro politico con il sistema neoliberale è già cominciato. [1]

* * *

Voi scrivete che viviamo un’accelerazione dell’uscita dalla democrazia. Chi spinge oggi sull’acceleratore?

In primo luogo le forze politiche di destra dappertutto in Europa e nel mondo. In questo momento lo si vede in Francia e in Brasile. Anche la sinistra, quando è al governo, spinge sull’acceleratore, ad esempio attraverso la Loi travail in Francia o il Jobs Act in Italia. Da molti anni la cosiddetta sinistra di governo si è allineata al neoliberalismo. Per un po’, dopo il 2008 le cose sono rimaste in sospeso. Allora si ragionava in termini di regolazione o moralizzazione del capitalismo.

Ma dal 2009-2010 questa grande coalizione neoliberale di destra e di sinistra partecipa all’accelerazione dell’uscita dalla democrazia. Non bisogna dimenticare nemmeno l’oligarchia economica e finanziaria che spinge verso la flessibilizzazione e la deregolamentazione, in particolare attraverso il sabotaggio sistematico della Tobin Tax. Tutto ciò avviene in nome della concorrenza ad oltranza e della competitività. Questa logica infernale impedisce ogni cambiamento nel corso delle cose. Ma questa accelerazione esiste anche perché i freni non funzionano più. La logica neoliberale distrugge o indebolisce tutto quello che potrebbe opporvisi: i sindacati, l’azione dei cittadini, le mobilitazioni. Si registra anche uno sgretolamento del legame sociale.

 

Quali mezzi utilizza il neoliberalismo per distruggere i freni?

Il neoliberalismo è una logica normativa globale che tende a divenire un sistema e che ha per principio la messa in concorrenza degli Stati, delle istituzioni e degli individui tra loro. Ad esempio si registra una messa in concorrenza dei servizi di trasporto, educativi, sanitari. Ciò prova che questa logica va al di là del mercato. La concorrenza è un modo di organizzazione della società, direi anche un modo di organizzazione dei poteri pubblici. Questa logica divide e isola le persone, condotte da ciò a non potere più agire collettivamente. Tuttavia questa azione collettiva è stata storicamente necessaria per regolamentare il capitalismo, per adattarlo alla vita sociale. Questa atomizzazione dei collettivi, e questa loro messa sotto accusa, mina la democrazia nella sua forma più classica, rappresentativa o “liberale” come si dice. L’esempio del processo agli informatori in Lussemburgo è rivelatore di questa impotenza di fronte alle logiche economiche. Essi rischiano la prigione per aver messo in luce il saccheggio delle risorse fiscali di altri paesi da parte del Lussemburgo, mentre i responsabili politici lussemburghesi ne escono senza problemi[2].

 

Comunque esistono sacche di resistenza collettiva. Ci torneremo. Per il momento proseguiamo in questo quadro molto fosco. Anche le crisi,  che dovrebbero marcare dei momenti di rottura, non possono farci sperare in cambiamenti secondo voi.

Per molto tempo le crisi hanno giocato un ruolo di “segnalatore”. Hanno spinto verso nuovi quadri regolativi, verso nuovi equilibri sociali, etc. Torniamo indietro nel tempo. Le crisi capitaliste del XIX secolo hanno dato nascita ad alcuni sindacati. In seguito i partigiani del laisser faire sono stati messi in discussione, quando alla fine del XIX secolo hanno preso forma un liberalismo sociale riformatore e l’espansione del socialismo. La crisi del 1929, dal canto suo, ha dato luogo all’estensione della sicurezza sociale. Lo vediamo, le crisi hanno storicamente generato delle riforme del capitalismo. Oggi niente affatto! Dagli anni Settanta le crisi danno forza alle cause della crisi, alimentano il neoliberalismo. Bisogna rendersi conto di questa realtà storica originale. La crisi è diventata un modo di governo. La classe dirigente raccomanda un’uscita dalla crisi attraverso una politica che spinge ancora di più alla concorrenza e alla competitività. E, in nome di una simile strategia, si assiste allo smantellamento dello Stato sociale. Sopprimendo i supporti sociali, si va verso un disastro sempre maggiore.

 

Il caso della  Grecia, a cui consacrate un capitolo del libro, è l’esempio più flagrante di questa “politica attraverso la crisi”?

Se si guarda al caso greco con la lente di ingrandimento, si vede bene che la logica di impoverimento e di precarizzazione della popolazione mira a disfare il legame di fiducia degli elettori verso i loro eletti e a spingere nella direzione di un approfondimento di ciò che ha causato i problemi sociali. Mi spiego: chiunque sa che la Grecia non potrà rimborsare il suo debito. L’austerità che le si impone aggrava la situazione. Anche se Yanis Varoufakis (Ministro delle Finanze del governo di Alexis Tsipras – Syriza -, che ha dato le dimissioni il 5 luglio all’indomani della vittoria del No al referendum sulle proposte dei creditori di Atene, ndr) ha ragione di evocare una politica “irrazionale”, “folle”, noi parliamo dal canto nostro di una logica normativa nella quale i dirigenti politici sono intrappolati. Hanno paura di allentare la pressione su Atene perché temono di doverla allentare poi ovunque, come in Spagna o in Portogallo. La Troïka fa della Grecia un esempio. La Grecia è anche il simbolo di questo governo attraverso la crisi, nel quale la crisi è un mezzo, uno strumento al servizio di poteri esercitati da governanti reclusi in una prigione dogmatica e istituzionale.

 

Il debito è anche uno strumento di governo

Siamo in molti ad aver mostrato che i fenomeni economici come il debito o il deficit non dovevano essere più considerati indipendentemente dalla politica. Bisogna analizzarli come strumenti di governo. Dopo la crisi dei debiti pubblici, il debito è diventato il primo strumento di ricatto e un mezzo di potere sulle popolazioni. A questo riguardo la Grecia è un esempio-tipo, ma non bisogna dimenticare l’America latina. Si sono strangolati gli Stati americani per condurli verso questa politica neoliberale. Ciò che là è stato fatto dal FMI trent’anni fa, oggi viene messo in pratica in Europa.

 

Secondo voi i responsabili vanno individuate in una oligarchia neoliberale. Come si è costruito questo blocco.

Noi non alludiamo ad una presa del potere sotto forma di complotto. Questo blocco composto dall’oligarchia governamentale, dagli attori finanziari, dai grandi media e dalle istituzioni universitarie si è costruito a poco a poco tramite alleanze di interessi che potevano essere differenti ma che sono diventati sempre più convergenti. È sufficiente vedere fino a che punto i responsabili politici sono oggi legati al mondo economico.

 

Sono tempi bui. Ma voi non siete rassegnati. Registrate un risveglio dell’attività politica democratica da parte dei cittadini, una resistenza che si organizza…

Prima di tutto occorre precisare che non esiste un’omogeneità completa al neoliberalismo. Quello che ci interessa, nelle nostre diverse opere, è mostrare il conflitto. C’è del conflitto, della resistenza che genera logiche alternative, opposte alla concorrenza generalizzata. Siamo in una situazione di conflitto in cui esiste una logica dominante potente e una logica minoritaria molto attiva. Il dominio crescente del neoliberalismo non è assoluto. Può essere contenuto dalle lotte, dai movimenti per una democrazia più reale, dalle forme dell’agire in comune. Comune è oggi il termine chiave nelle lotte.

 

Come vedete il movimento Nuit Debout?

Nuit Debout è la migliore illustrazione possibile di una resistenza che va oltre la resistenza. Questo movimento, partito dall’opposizione a una legge, sfocia in un laboratorio spontaneo nel quale si riflette su un’altra democrazia. Il movimento Nuit Debout è la dimostrazione evidente che non siamo obbligati a subire. Ci troviamo con le spalle al muro. Non ci resta che una cosa: sognare, inventare, ritrovare il gusto dell’agire comune. Combattere il neoliberalismo presuppone la messa all’opera di un nuovo immaginario.

 

Nuit debout non ha ancora veramente trovato una sua grammatica politica. Ma come trovarne una senza ricadere in quella logica dei partiti che voi comunque criticate? Podemos può essere d’ispirazione?

Podemos è un’innovazione politica importante ma ambigua. Bisogna ritornare al normale gioco politico? O serve una nuova forma di organizzazione che articoli i movimenti sociali e le forme del “comune”?

È molto interessante vedere quanto avviene nelle municipalità spagnole, soprattutto con Barcelona en comu (piattaforma di cittadinanza costituita in partito politico di sinistra radicale ed ecologista in vista delle elezioni municipali del 2015 a Barcellona, elezioni vinte da Ada Colau, ndr). Questo movimento articola tra oro il potere politico, le assemblee cittadine di quartiere e le iniziative del “comune” come le cooperative. Non si tratta quindi di un rifiuto del politico come sfera, ma di una articolazione tra azioni sociali e forme alternative di produzione e di consumo, insomma della reinvenzione di una democrazia trasversale che non si limita alla sola sfera politica tradizionale.

Tutto ciò può essere sperimentato anche su più piccola scala. La democrazia si valuta per la sua capacità di dare potere a coloro che non ne hanno. Oggi, con movimenti come Nuit Debout, si tratta di fare in modo che coloro che non hanno nè i beni nè la parola possano impegnarsi nell’azione collettiva e istituire un’altra democrazia.


Traduzione di Alessandro Simoncini

Note
[1] L’intervista, che traduciamo qui con la gentile autorizzazione di Christian Laval, è stata pubblicata il 31 maggio 2016 sulla rivista “Alter Échos”: http://www.alterechos.be/fil-infos/christian-laval-la-crise-est-devenue-un-mode-de-gouvernement/. La traduzione è di Alessandro Simoncini.
[2] Il riferimento è al processo contro due ex dipendenti della società di consulenza PricewaterhouseCoopers (Pwc), condannati per aver fornito alla stampa le fonti documentarie della cosiddetta inchiesta Luxleaks, relativa ad accordi fiscali segreti stipulati tra il 2002 e il 2010 dallo Stato lussemburghese con diverse multinazionali, fra le quali Apple, Amazon, Heinz, Pepsi, Ikea e Deutsche Bank. Su questa vicenda, che ha toccato anche il Presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker, e che ha messo in evidenza l’“aggressiva politica di marketing fiscale” del Lussemburgo e l’ordinaria potenza delle grandi multinazionali di “stabilirsi nel granducato in cambio di accordi vantaggiosi sulle tasse”, cfr. G. P. Accardo, Il caso LuxLeaks dimostra che denunciare il malaffare non paga, in “Internazionale”, 26 aprile, 2016, (Ndt).

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