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Neoliberismo goliardo: Keynes VS Friedman

di Cesare Del Frate

Gli economisti sapientoni assomigliano sempre più a tifosi da stadio che inneggiano al mercato, e i manager rampanti a bambini capricciosi che vogliono tutto e subito: quando cominceremo ad affidare l’economia ad adulti maturi e responsabili?

Il neoliberismo contemporaneo cresce abnorme e si divora tutto, spinto dall’inesauribile fame di profitto; eppure, fino a pochi decenni fa, nell’economia trovavamo posizioni ben più prudenti e pluraliste, eccone una:

Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non produce i beni necessari. In breve, non ci piace e   stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi (John  Mainard Keynes, Esortazioni e profezie).

I distinguo, le esitazioni, la ricerca di un punto di vista sfaccettato e comprensivo, atteggiamenti tipici di Keynes, stridono fortemente se paragonati alla retorica da stadio del neoliberismo:

dovunque, in ogni tempo, il progresso economico è valso molto di più per il povero che per il ricco.

Bene, potrebbe sembrare l’esclamazione saputella della matricola di economia che vuole farsi ganza nell’aula e davanti al docente, e questi che smorza subito l’entusiasmo e l’esibizionismo riportandolo a più miti consigli, e invece no, non è una goliardata, l’autore della frase è nientemeno che il Milton Friedman di Free to Choose (1980), il padre della contemporanea dottrina neoliberista che ha infine scalzato il keynesismo precedente, nonché l’ispiratore di politici del calibro di Thatcher, Reagan e Bush (in parte anche Clinton e Blair).

Se il keynesismo era un paradigma ponderato e variegato, il neoliberismo al contrario è una dottrina dogmatica e univoca, è la “monocultura della mente”, come lo definisce Vandana Shiva. Quali conseguenze ha l’impoverimento del lessico economico e politico a cui siamo condannati in questi anni?

 

L’euforia del mercato

Ecco un’altra delle esclamazioni di Friedman:

Ringrazio Dio per le inefficienze e gli sprechi governativi. Se il governo fa male le cose, rimane solo l’inefficienza a prevenire che il danno sia ancor peggiore (intervista con Richard Heffner, The Open Mind, 7 Dicembre 1975).

Non c’è bisogno di dire che Friedman non va tanto per il sottile, ama le opposizioni manichee bianco/nero, lo stato è la fonte di tutti i mali e il mercato di tutti i beni, e amenità simili, e adora anche le contraddizioni in termini: “La responsabilità sociale d’impresa è incrementare i profitti” è il titolo di un suo editoriale sul New York Times del 1970.

D’altronde questo è lo stile tipico del neoliberismo, cioè l’estremizzazione, o esasperazione, delle linee di fondo del capitalismo: la ricetta è apparentemente semplice, meno stato possibile, nessuna regola per il mercato, smantellamento del welfare state, precarizzazione del mercato del lavoro, finanziarizzazione dell’economia.

Quando pensiamo all’economista ci immaginiamo il professorone armato di abaco, lavagnetta e statistiche mentre ci istruisce sugli ultimi trend, con tanto di grafici e tabelle, l’oggettività granitica della famosa “scienza triste”; dopo la crisi abbiamo invece capito che non di infallibili previsioni si tratta, ma di vaticini da aruspice, di intuizioni miste ad analisi sempre revisionabili da approcciare con circospezione e buon senso, e non solo, se ci mettiamo a guardare retrospettivamente allo stillicidio di lezioncine indottrinanti impartiteci negli ultimi anni, scopriamo che il professorone con lavagnette e statistiche è solo un paravento dietro cui si cela il goliardo che gioca a chi la spara più grossa, a chi riesce meglio e più acriticamente ad adorare il vitello d’oro del mercato e a deprecare tutto ciò che è comune, pubblico o statale – toh, eccone un’altra sempre del goliardo n.1, Friedman:

La soluzione governativa a un problema è usualmente un male al pari di quello che cerca di risolvere, e il più delle volte non fa che peggiorare le cose (An Economist’s Protest, 1975).


L’idolo

Il pensiero neoliberista è questo, è la costruzione di un edificio teorico imponente e labirintico di formule e ricerche e ipotesi e simulazioni, tomi su tomi astrusissimi che tormentano le notti degli studenti, però tutto l’edificio, l’idolo d’oro che reclama adorazione in ginocchio e cieca fede, si basa banalmente e semplicemente su una manciata di opposizioni manichee giusto/sbagliato, sulla filosofia spicciola che allinea dalla parte del bene, sempre e comunque, l’impresa privata, l’egoismo economico, l’individualismo, la razionalità del mercato, la finanziarizzazione di qualsiasi cosa, il profitto, mentre allinea dalla parte del male, sempre e comunque, i beni comuni, il pubblico, lo stato, la regolamentazione, il welfare state, le tutele collettive.

Bene, il neoliberismo è riuscito a trasformare in certezza, in dogma di fede, quella filosofia spicciola di infantili bianco/nero, egoismo economico rocks! VS gestione pubblica del bene comune cattivona e inefficiente, che sta alle fondamenta dell’idolo eretto da teorie e modelli e previsioni. Kuhn parlerebbe di un paradigma di riferimento, ogni scienza ne ha uno, la differenza sta nel grado di perentorietà e intransigenza con cui viene presentato o imposto, nonché nel livello di sofisticazione e apertura dello stesso.

Prendiamo uno dei dogmi più strampalati, quello della crescita: il PIL deve aumentare ogni anno, se no suicidio rituale collettivo degli operatori di borsa, il PIL è ormai la formula alchemica in cui è cifrato il nostro destino, è i resti del caffè in cui presagire la sciagura o la salvezza, e se qualcuno osa dire che siamo già ricchi e straricchi, il problema non è la crescita ma la distribuzione dei beni e delle risorse, senza contare che la crescita illimitata ci porta dritti verso la catastrofe ecologica, come mostra la sapienza della corrente della decrescita felice, non sia mai! Taci comunista, Marx redivivo, anarchico, ecologista abbraccia-alberi, corvaccio del malaugurio, black block!

 

Friedman goliardo

La questione è: dovrebbero i manager, nei limiti della legge, avere responsabilità altre dal far fare più soldi possibile agli azionisti? La mia risposta è: no, non devono (Intervista contenuta in Chemtech, Febbraio 1974).

In questa elementare affermazione, in tale bravata travestita da profondissimo pensiero da snocciolare in pillole al volgo, c’è riassunto e condensato il nocciolo duro del neoliberismo: profitto a tutti i costi, quel che costi (agli altri). Certo, già Marx aveva lucidamente individuato nella sete di profitti sempre crescenti il meccanismo che muove il capitalismo, il motore immobile che fa andare la baracca, eppure per quasi due secoli tale priorità è stata bilanciata da altre finalità concorrenti o persino contrapposte. Pensiamo all’etica della parsimonia dell’imprenditore weberiano, improntata alla prudenza e alla laboriosità, o all’orgoglio di Ford, la cui ambizione era che tutti i suoi operai potessero permettersi le macchine che costruivano. Le lotte operaie per la conquista di diritti e libertà. E poi il welfare state, il grandioso e contradittorio patto fra Stato e mercato per creare un equilibrio sostenibile fra il benessere collettivo, l’integrazione sociale e la libertà d’impresa.

Tutto ciò evapora con l’ascesa del neoliberismo, ogni contrappeso o spinta centrifuga rispetto alla sete illimitata di profitto viene cancellato, rimane solo quello e basta, in tempi andati si sarebbe parlato di avidità divorante, una passione che cancella tutte le altre trasformandosi in ossessione monomaniacale.


Keynes e Friedman: dall’uomo maturo al bambino capriccioso

Il capitalismo maturo del keynesismo regredito allo stadio infantile di un bambino capriccioso che non fa altro che strillare, vuole tutto e subito, e ne vuole sempre di più: si potrebbe così riassumere la parabola discendente che punta dritto verso il peggio. Certo, per un po’ di anni se la sono giocata, - ce lo raccontano David Harvey e Naomi Klein rispettivamente in Breve storia del neoliberismo e Shock Economy, -  il tramonto del paradigma keynesiano è stato lento e combattuto, alla fine però, cioè dopo aver incassato il determinante appoggio delle lobby, dei settori della finanza e dell’imprenditoria, dei partiti conservatori, il neoliberismo si è affermato come koinè economica, fungendo da fondamento teorico del capitalismo sregolato e selvaggio che ben conosciamo.

Il movimento per un’altra globalizzazione ha presentato la critica più articolata e propositiva agli eccessi odierni, alle speculazioni e alle predazione, ma è solo con la crisi che i dubbi hanno iniziato a insinuarsi anche fra gli economisti stessi, tanto da prefigurare una sorta di nuova corrente intellettuale neo-keynesiana, che ricomprende i premi Nobel Joseph Stiglitz e Paul Krugman.

In particolare, gli attacchi al neoliberismo riguardano principalmente due punti: la finanziarizzazione dell’economia comporta la perdita di visione strategica, tutto è appiattito sulla volontà di ottenere profitti a cortissimo termine, fa niente se ciò porterà al disastro domani. E inoltre, la deregulation dei mercati ha provocato un’ondata di corruzione e scarsa trasparenza, d’altronde cosa aspettarsi quando il controllore e il controllato coincidono? L’idea di un mercato che si regola da solo è una marchiana mistificazione, il mercato fa il proprio interesse, e se nessuno controlla lo farà a discapito di quello dei cittadini.

Naturalmente il neoliberismo nega tutto, nega l’evidenza, e d’altronde già Friedman diceva:

C’è un vecchio detto che recita: “se vuoi prendere un ladro, chiamane un altro che gli tenda una trappola”. La virtù del capitalismo della libera impresa è quella che mette un imprenditore contro l’altro e questo è il metodo più efficiente di controllo.

Con la schiettezza che lo contraddistingue, Friedman sostiene che la trasparenza e l’onestà del mercato sregolato derivano dalla guerra che i ladri-imprenditori si fanno l’un l’altro, in definitiva dal reciproco arginarsi di una banda di malfattori. Evidentemente Friedman non sapeva che i ladri sono fra loro solidali, hanno un codice d’onore omertoso in cui ci si copre le spalle a vicenda spartendosi i campi d’azione, ed è proprio quel che è successo dopo la deregulation, con la costituzione di oligopoli e cartelli nei settori dell’energia, della farmaceutica, del cinema, delle comunicazioni. E ignorava pure il famoso detto “l’occasione fa l’uomo ladro”: non è che le imprese siano di per sé corrotte o predatorie, ma nel momento in cui elimini i controlli e gli metti in mano il coltello dalla parte del manico (vedasi le leggi sul lavoro precario), bhe, crei appunto le condizioni che incoraggiano la corruzione e i soprusi. Dopo la crisi, la situazione è evidente a tutti. La corruzione è figlia dell’assenza dello Stato, cioè di un sistema fatto di garanzie, controlli, trasparenza, quindi l’esatto contrario dello slogan di Friedman:

La corruzione è l’intrusione dei governi nell’efficienza del mercato sotto forma di regolazione.

Forse bisognerebbe riscoprire la saggezza di Keynes, che riteneva i feticci del denaro e della crescita delle superstizioni tali e quali quelle degli spettri e dei lupi mannari:

Quando l’accumulazione di ricchezza non rivestirà più un significato sociale importante, interverranno profondi mutamenti nel codice morale. Dovremo saperci liberare di molti dei princìpi pseudomorali che ci hanno superstiziosamente angosciati per due secoli, e per i quali abbiamo esaltato come massime virtù le qualità umane più spiacevoli. Dovremo avere il coraggio di assegnare alla motivazione “denaro” il suo vero valore (da Esortazioni e profezie, il Saggiatore, Milano, 1968).

Continuare a fare i goliardi che cantano lo slogan “la crescita da sola risolverà tutto!” è ormai ridicolo oltre che ingenuo: a quando il tempo in cui recupereremo un po’ di buon senso, e dell’economia si occuperanno adulti maturi invece di bambini capricciosi?

Leggi anche:

Filosofia della crisi economica

Approfondire:
David Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, Milano, 2007.
Marco Passarella, La scienza triste e la farfalla di Lorenz, Economia e Politica, 16 Luglio 2009.

Joseph Stiglitz, Le colpe di Greenspan, La Repubblica, 10 Agosto 2007.

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