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effimera

Rottamare il sapere. Spunti per una rivoluzione culturale

di Paolo Vignola

prima elementareNell’androne del palazzo dove vivo ho trovato un volantino dell’amministrazione comunale con le istruzioni per la raccolta differenziata porta-a-porta, in cui si chiama il cittadino a impegnarsi nell’adempimento dei suoi diritti/doveri e nel contribuire alla riuscita dell’operazione. L’amministrazione a guida Partito Democratico, nel volantino, tiene a sottolineare che si tratta di una vera e propria “rivoluzione culturale”. Niente di strano o di perverso in sé, se non fosse che lo stesso giorno sentivo la ministra dell’istruzione Giannini parlare in termini analoghi, se non identici, a proposito del concorsone degli insegnanti abilitati per la loro messa in ruolo: il governo si sarebbe fatto promotore, a detta della ministra, di un’autentica rivoluzione culturale il cui fine sarebbe quello di realizzare l’apice umano della buona scuola assegnando le cattedre a chi veramente preparato. Le parole della Giannini, come noto, sono da intendersi come una risposta altezzosa di fronte alle numerose e pesanti critiche mossele da quell’ esercito di riserva degli insegnanti precari delle scuole medie superiori che, sebbene abilitati, sono stati respinti ancor prima di passare alla prova orale – i giornalisti hanno parlato, tra l’altro, di “strage degli innocenti”. In particolare, l’anomalia da segnalare immediatamente per far comprendere la misura del problema risiede nel fatto che in molte regioni d’Italia e in molte classi di concorso, sebbene praticamente tutti i partecipanti avessero in precedenza conseguito l’abilitazione (TFA: tirocinio formativo attivo), già gli ammessi alla prova orale erano ben meno dei posti dichiarati disponibili dal ministero – così come del resto, almeno è l’opinione comune, i posti reali sono ben meno di quelli precedentemente dichiarati.

Come dire, l’esercito di riserva… resta di riserva. Anzi, diciamolo meglio: l’esercito di riserva, per quanto abbia servito la scuola magari anche per decadi come supplente, o comunque si sia abilitato con corsi e tirocini qualificanti e fortemente impegnativi, indetti e certificati dallo stesso ministero, viene declassato a esercito di resti, di scarti (in questo caso indifferenziati), poiché l’ideologia della buona scuola ha immediatamente coniato, da un lato le parole d’ordine petalose per autocelebrarsi – una “rivoluzione culturale” e uno “sbarramento necessario”, finalmente il “merito”, ecc. – e dall’altro lato le motivazioni denigranti per azzerare il dissenso – candidati ignoranti, impreparati o comunque non all’altezza di questa rivoluzione. Così, i professori precari che hanno partecipato al concorsone, dopo non averlo passato, non solo sono chiaramente rimasti precari, ma sono stati descritti in modo denigratorio, al punto di essere trattati come una sorta di lumpen-professori, di sotto-professori, dei professori diversamente idonei o diversamente abilitati, senza nemmeno il diritto di far valere le proprie ragioni di fronte a un concorso già bollato come iniquo da più fronti e nella maggior parte dei casi inutile ai fini delle reali necessità all’interno del mondo della scuola, dato che sovente i quesiti a cui rispondere erano distanti anni luce da ciò che poi si sarebbe insegnato in classe e che spesso le metodologie richieste nelle prove non collimano con i metodi di intervento che appunto occorrono nelle aule reali.

Sorge allora una prima considerazione rispetto a quella che l’ideologia piddina definisce come “rivoluzione culturale”: di rivoluzionario ci sono solo gli effetti collaterali, ossia gli esclusi o i combattuti dalla rivoluzione, su cui i giacobini del Mercato si accaniscono. Qual è allora la prassi “rivoluzionaria”? Semplice: trattare la realtà del lavoro come immondizia e quando comincia a sentirsi la puzza spruzzarci sopra qualche parola petalosa.

Ma sarebbe davvero una rivoluzione, per giunta culturale, se avesse solo questi due generi di resti, di avanzi da imballare nei termovalorizzatori del disgusto o del dis-senso? Assolutamente no. La rivoluzione è qualcosa di grande, di sistematico. Non è un caso del resto che tutto sia nato con la rottamazione, altra forma di trattare i resti, e non è un caso che i rottamati, almeno all’inizio, dovevano essere i vecchi detentori del potere – per gli altri, per tutto il popolo di esclusi dai potentati, non c’era che da stare sereni. E invece, ad essere rottamato, come si sa, è stato innanzitutto l’articolo 18 e con esso la salvaguardia dei diritti e delle tutele dei lavoratori (“tutele crescenti”, altra parola d’ordine della rivoluzione culturale). Nel caso della scuola, così come dell’Università, invece, è soprattutto il sapere ad essere rottamato – non solo il cosiddetto sapere critico, ma il sapere e i saperi in tutte le loro dimensioni ed estensioni. Viene rottamato lo stesso sapere impartito dai corsi del TFA (che di critico non ha assolutamente nulla), dal momento che il concorsone lo ha calpestato sistematicamente e di fatto azzerato. In poche parole, chi ha sacrificato un anno della propria vita col TFA e ha già lavorato come supplente magari per molti anni, ha acquisito un sapere, o varie forme di sapere, che lo renderebbero idoneo all’insegnamento. E invece no, l’evento del concorsone ci dice che quel sapere è un non-sapere, è ignoranza, almeno per le commissioni di valutazione e a fortiori per il ministero (che lo aveva letteralmente spacciato come sapere innovativo).

Verrebbe da chiedersi allora a cosa sia servito il TFA, a cui i candidati hanno dovuto prima accedere mediante severe valutazioni, poi partecipare attivamente e quotidianamente, sia seguendo corsi che facendo tirocini pagando di tasca propria circa 2000 euro, e infine superarne la prova finale. Sia detto per inciso, ma specie nelle classi di concorso umanistiche, i cosiddetti non preparati all’insegnamento di ruolo, oltre al TFA hanno spesso anche un dottorato di ricerca. Come dire: non buoni per l’Università (sebbene con il titolo internazionalmente valido per la ricerca universitaria, e a volte pure con l’abilitazione scientifica all’insegnamento accademico), e nemmeno per la Scuola (per quanto già supplenti e avendo ottenuto appunto il TFA).

Verrebbe anche da domandarsi che tipo di lavaggio del cervello, o di incantesimo, è stato messo in atto, visto che la promessa era in soldoni questa: con il TFA ci si abilita ufficialmente all’insegnamento e quella sarà l’unica strada per ottenere un incarico di ruolo, dunque dopo il TFA – che già prevedeva una selezione spietata a monte – si avrà una cattedra, questione di uno, due o tre anni. E invece, dopo tre anni, gli abilitati hanno dovuto partecipare al concorsone. Ma attenzione, sta proprio qui l’incantesimo: gli abilitati non hanno solo dovuto partecipare, bensì sono stati spinti a volerlo, a desiderare il concorsone (che ha funzionato come una sorta di giudizio universale senza clemenza o misericordia) in quanto da un lato ormai ben disciplinati all’interno dell’ottica ministeriale e giustamente sicuri di poter lavorare bene, sia durante il concorso che nelle future classi, mentre dall’altro lato spinti dalla necessità se non di un lavoro a tempo indeterminato, almeno di uno stipendio mensile 12 mesi all’anno.

La mossa del ministero è stata infatti un’operazione di sottile psicologia, poiché prima ha creato, mediante il TFA e dunque a pagamento, una generazione di potenziali insegnanti di ruolo iper-preparati dal punto di vista teorico, burocratico e metodologico rispetto alla generazione di docenti reali, poi li ha cucinati a fuoco lento per due o tre anni facendo loro periodicamente intravedere l’orizzonte del concorso, anni nei quali i candidati hanno continuato a lavorare come supplenti e poi contemporaneamente a prepararsi spesso duramente per il concorsone, infine li ha fucilati con quesiti fuori dalle coordinate della reale didattica scolastica e con valutazioni disarmanti per lo zelo. In tutto questo, il sapere accumulato dai candidati, per quanto convalidato dall’ottenimento dell’abilitazione, non è valso nulla, né durante il concorso, né dopo, quando si sarebbe trattato di contestare da dentro ogni aspetto del concorso (tempistica per rispondere alle domande, non pertinenza delle domande, oscuro metodo di valutazione da parte delle commissioni, lampanti favoritismi dovuti alla presenza di professori universitari nelle commissioni e dei loro allievi nelle classi di concorso, ecc.).

Tutto ciò ha creato le condizioni per l’ottenimento di una generazione di cervelli docili, per parafrasare Foucault, ossia sempre più disposti a farsi plasmare e pervertire cognitivamente purché gli si mantenga la speranza di un posto a tempo indeterminato. Ora, se con il desiderio del concorsone si è raggiunto l’apice del dressage, con i suoi esiti nefasti e contraddittori si è forse oltrepassato tale apice, e si è giunti all’umiliazione, una delle tante armi lanciate dal governo nel suo attacco ai cervelli.

Ma è poi vero che queste decine di migliaia di docenti abilitati sono diventati solo dei cervelli docili? Credo e spero di no. Credo che, di fronte al dressage e alla successiva umiliazione, si siano create negli stessi cervelli le condizioni di possibilità per esprimere un dissenso inedito, e far valere la propria intelligenza, a patto che essa sia collettiva. Sì, collettiva, e non c’è niente di meno scontato, perché il concorsone della scuola è stato l’ennesimo dispositivo della precarizzazione volto a frantumare le possibilità di coesione e di complicità tra precari, promuovendo invece, come sempre, l’individualizzazione degli obiettivi – l’etica del mors tua vita mea.

Chiaramente questa storia, se presa per sé, non è così sconvolgente, almeno dal punto di vista politico. Ma è proprio concatenandola con altri fenomeni legati al sapere, alla ricerca e ai lavoratori del terzo settore, che può innanzitutto aiutare a comprendere l’attacco ai cervelli come missione essenziale della “rivoluzione culturale” in atto e permanente. Anzi, le stesse lotte per la libertà della ricerca, e per il lavoro all’interno dell’Università, non avranno mai la presa necessaria sulla società se non si saldano al problema della proletarizzazione cognitiva dei docenti delle scuole. Perché ciò che è in atto è precisamente un processo di proletarizzazione, se non di lumpenizzazione, dei cervelli o del General Intellect, in cui ciò che viene sottratto ai soggetti sono appunto le varie forme di sapere che essi stessi producono, riproducono, trasmettono. Concatenando le lotte per la libertà e l’autonomia della ricerca e contro la sua criminalizzazione, a quelle dei docenti abilitati ed esclusi, a quelle dei lavoratori del terzo settore altrettanto umiliati e sviliti dalle nuove normative, si può allora sperare o persino credere in una riscossa dei cervelli, e non solo continuare a osservare la loro fuga.


Immagine in evidenza: Prima elementare – Anno scolastico 50-51. Tratta dal sito Le foto scolastiche di Termini Imerese in bianco e nero
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