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È vero che la Germania può fare deficit e noi no?

di Thomas Fazi

Germania Bandierina BorseR439Benvenuti a una nuova puntata della nostra rubrica “Le fake news economiche di Luigi Marattin”. In questi giorni i liberisti de’ noantri si stanno dando da fare per spiegarci perché la Germania – a differenza di noi – si può permettere lo stimolo fiscale da 50 miliardi recentemente annunciato dal governo tedesco. Ovviamente non poteva mancare un contributo del nostro economista preferito.

In un suo post, Marattin ci spiega che la ragione per cui la Germania può – e noi no – è che «la Germania ha “risparmiato” in tempi di ciclo favorevole (portando il debito al 60 per cento del PIL e conseguendo addirittura un avanzo di bilancio), al fine di poter spendere – e spendere tanto – in tempi di ciclo meno favorevole». Prosegue poi Marattin: «Per poter utilizzare la “politica fiscale controciclica” in sicurezza» – si dice anticiclica ma vabbè – «occorre aver fatto anche l’altro pezzo: tenere i conti in ordine quando le cose vanno meglio». Lezione che, secondo Marattin, sarebbe rimasta «sempre inattuata in Italia».

Quanto c’è di vero nell’analisi di Marattin? Ben poco, come vedremo. Tanto per cominciare, come abbiamo visto nelle prime due puntate (qui e qui), in un paese che emette la propria valuta non c’è alcuna relazione tra rapporto debito/PIL – e dunque sull’aver “tenuto i conti in ordine” in passato – e lo “spazio fiscale”, cioè la possibilità o meno di fare deficit; altrimenti non si capirebbe come faccia il Giappone, con un rapporto debito/PIL del 250 per cento, il doppio di quello italiano, a mantenere da più di vent’anni un disavanzo primario – cioè uno stimolo fiscale – permanente nell’ordine del 4-5 per cento del PIL. Altro discorso per i paesi dell’eurozona, che sono sottoposti al ricatto permanente dei mercati e alle decisioni arbitrarie della BCE, ma questo a prescindere dall’entità del loro debito pubblico.

Ciò detto, è vero che la Germania in passato ha avuto un comportamento fiscale più virtuoso del nostro, “risparmiando” più dell’Italia in tempi di ciclo favorevole?

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dialetticaefilosofia

La crisi economica italiana ai tempi del sovranismo

E come provare a invertire la rotta

di Guglielmo Forges Davanzati*

Questa nota è una sintesi del mio intervento al dibattito su “Sovranismo e populismo” tenutosi a Racale (LE) il 30 luglio 2019, nell’ambito del Festival “Filofollia”. Si articola in tre punti, che riguardano: (i) il c.d. declino economico italiano; (ii) l’accentuarsi degli squilibri regionali fra Nord e Sud del Paese, con particolare riferimento all’’autonomia differenziata’; (iii) l’individuazione di misure di contrasto alla recessione1.

populismo conflitto sociale sovranismo1. L’Italia non cresce perché continua a ridursi la produttività del lavoro, in una spirale che dura da oltre venti anni e che segnala valori della produttività quasi costantemente inferiori alla media europea nel periodo considerato. La bassa crescita della produttività del lavoro è imputabile a due fattori: il calo degli investimenti pubblici e privati e la continua riduzione della quota dei salari sul Pil. Proviamo a capire perché ciò è accaduto, a partire da alcune considerazioni sulla storia recente della nostra economia.

Terminato il ‘miracolo economico’ degli anni cinquanta-sessanta e dunque la stagione di una crescita trainata dalle esportazioni, negli anni settanta si registra un imponente ciclo di lotte operaie. Aumentano gli scioperi, diminuiscono le ore lavorate, aumentano i salari monetari, con conseguente inflazione conflittuale e peggioramento del saldo delle partite correnti. Le imprese del ‘triangolo industriale’, nel tentativo di contenere la conflittualità operaia e recuperare competitività di prezzo, avviano processi di decentramento produttivo, spostando la produzione in unità di piccole dimensioni inizialmente nel Nord Est.

Si indebolisce, per conseguenza, il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali e l’inflazione – che negli anni precedenti era estremamente alta anche per il doppio shock petrolifero del 1973 e del 1979 – comincia a essere ridotta. Dopo il picco raggiunto nel 1982 (14.7%), per tutti gli anni ottanta il tasso di inflazione continua a scendere, arrivando al 4.7% del 1987. Ciò è imputabile, da un lato, alla fine della stagione del conflitto dentro e fuori la fabbrica, e dunque all’avvio di una fase di moderazione salariale, dall’altro, all’aumento dei tassi di interesse finalizzato ad attirare capitali speculativi per riequilibrare la bilancia dei pagamenti.

L’aumento dei tassi di interesse ha però effetti di segno negativo sulla dinamica degli investimenti privati, non compensati da significativi aumenti degli investimenti pubblici. Negli anni ottanta, l’aumento della spesa pubblica è prevalentemente dovuta a un aumento della spesa corrente (che passa dal 35% del 1980 al 45% in rapporto al Pil del 1990), finalizzata a neutralizzare – definitivamente – i residui di conflittualità ereditati dal decennio precedente.

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lantidiplomatico

Tutte le Fake News di Marattin sull'Europa

di Thomas Fazi

0f030e0266e6b9dcad1d71cc4b8b4dc5Benvenuti alla terza puntata di “Le fake news economiche di Luigi Marattin”, la rassegna in cui analizziamo le “video lezioni di economia” che da qualche settimana a questa parte il consigliere economico del PD sta pubblicando sul suo profilo. Qui trovate le prime due puntate, dedicate rispettivamente al debito pubblico e al finanziamento monetario della spesa pubblica:

https://www.facebook.com/thomasfazi/videos/2341908382568953/

e

https://www.facebook.com/thomasfazi/posts/2351892221570569

Nel suo ultimo video (https://www.facebook.com/LuigiMarattinPD/videos/740118099768418/) Marattin si propone di spiegare nientedimeno che gli enormi benefici che l’Italia avrebbe tratto dall’ingresso nel mercato unico (UE) prima e nell’euro poi e perché, dunque, «non è vero che se uscissimo dall’Europa e dall’euro ci libereremmo di tutte le nostre catene». Come al suo solito, Marattin ricorre ad un classico argomento fantoccio, in cui si confuta un argomento proponendone una rappresentazione volutamente distorta e macchiettistica: nessuna persona ragionevole, infatti, ha mai posto la questione in questi termini. Ma passiamo oltre.

Secondo Marattin, «il vantaggio principale che abbiamo dal partecipare all’Unione europea, al mercato unico europeo, è quello di poter vendere le nostre merci [in Europa] senza pagare dazi doganali e senza restrizioni commerciali e quindi di poter creare occupazione e investimenti in Italia». «Basta chiederlo a ogni imprenditore che esporta», aggiunge, col tono di chi la sa lunga. Questa affermazione è problematica per numerosi motivi. Tanto per cominciare, dalle parole di Marattin ci si aspetterebbe che l’ingresso dell’Italia nel mercato unico abbia fornito un forte stimolo alle nostre esportazioni rispetto al periodo antecedente (e, di conseguenza, che un’uscita dall’UE e/o dall’euro sarebbe una rovina per l’export italiano).

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lantidiplomatico

Tutte le fake news di Marattin sul "finanziamento monetario"

di Thomas Fazi

11c003abdbb2209f2e1c69b2e4f1550dBenvenuti alla seconda puntata di “Le fake news economiche di Luigi Marattin” (la prima puntata la trovate qui).

Oggi prendiamo in esame l’ultima “video lezione di economia” di Marattin, in cui il consigliere economico del PD si propone di rispondere «ad una domanda che va molto di moda tra ciarlatani e finti economisti vari, cioè perché non possiamo semplicemente stampare tutta la moneta che vogliamo?».

La risposta è semplice: perché altrimenti faremmo la stessa tragica fine di tutti quei paesi i cui governi «hanno ceduto alla tentazione di stampare soldi», con il risultato che si sono ritrovati «l’inflazione al miliardo per cento» [sic] e «l’economia in rovina». Gli esempi portati da Marattin sono, ça va sans dire, i soliti noti cari agli amanti del genere “piaghe d’Egitto da iperinflazione”: la Repubblica di Weimar, lo Zimbabwe e il Venezuela. O, come si dice in gergo tecnico, lo Zimbabweimaruela.

«I tutti questi casi – dice Marattin – la molla che ha fatto scattare tutto questo è il governo che aveva bisogno di soldi e ha pensato di stamparli», facendo schizzare l’inflazione alle stelle. Marattin passa poi a spiegare il meccanismo economico, ahem, alla base di questo di questo fenomeno: «La moneta sottostà alle normali leggi di domanda e offerta di qualunque altro bene. Prendiamo i cellulari. Se il mondo fosse inondato di offerta di cellulari il prezzo di questi si ridurrebbe fino ad arrivare a zero. Per la moneta è la stessa cosa. Se chi controlla l’offerta di moneta – cioè la banca centrale – comincia a stamparne in quantità molto elevate, quindi ad aumentare l’offerta di moneta, il valore di quella moneta va rapidamente a zero».

Tutto questo spiegherebbe perché «la leggenda per cui se a un governo servono i soldi basta stamparli e tutto risolve è una leggenda che nell’ultimo secolo ha portato distruzione, danni permanenti all’economia ed è una pericolosa illusione che viene spacciata da chi non ha idea di come funzioni un sistema economico».

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scenarieconomici

La crisi di governo e i bisogni degli italiani: mancano 100 miliardi di euro l’anno

di Davide Gionco

Gialloverde sadMentre l’Italia, ovvero molti milioni di italiani (non un concetto generico, ma persone, con le loro famiglie, il loro lavoro) continua ad essere immersa nei suoi gravi problemi sociali ed economici, ecco che ci ritroviamo in una crisi di governo, da cui francamente si fa fatica a vedere degli sbocchi positivi, che possano garantire una situazione “meno peggiore” di quella precedente.

Naturalmente è già partito il teatrino di tv e giornali sulle possibili nuove elezioni o sulle possibilità che venga formata una diversa maggioranza politica in Parlamento.

I vari partiti non perdono occasione di dire di non avere timore di presentarsi alle elezioni, proponendosi agli elettori come alternativa seria all’attuale ex maggioranza politica. 

Per favore, scendiamo dalla giostra della “politichetta”!

Non stiamo giocando il campionato di calcio, dove l’importante è che la nostra squadra vinca la partita, per poter poi sventolare la nostra bandiera.

L’Italia continua ad avere milioni di persone in povertà assoluta ed altri milioni di persone a rischio di cadere in povertà.

L’Italia continua ad avere milioni di disoccupati e molti milioni di persone che tirano a campare, con lavoretti part-time, con datori di lavoro che li sfruttano, con l’Agenzia delle Entrate sempre pronta a tartassare le nostre piccole e medie imprese portandole senza remore al fallimento, con le poche aziende che sono riuscite a sopravvivere puntando sulle esportazioni e che ora devono fare i conti con le guerre dei dazi ed il calo di domanda dei vicini paesi europei, causato dalle politiche europee di austerità. Una tassazione da record mondiale, unita a servizi pubblici sempre più scadenti e inaccessibili.

I servizi pubblici vanno verso lo scatafascio: la sanità ridotta ai minimi termini dai continui tagli, al punto che mancano medici ed infermieri per curarci, per la manutenzione degli edifici pubblici ridotta al punto che molti edifici sono inagibili, per investimenti nelle infrastrutture (non solo nei trasporti, ma anche nelle telecomunicazioni, nella formazione professionale, nella ricerca, nell’energia…).

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economiaepolitica

Ancora su alcune false convinzioni circa il debito pubblico

di Davide Cassese

debito pubblico falsi mitiE’ stato pubblicato, su Il Foglio, un contributo dell’economista Gianpaolo Galli. L’articolopubblicato è parte di un capitolo, scritto da Galli, di un nuovo libro, edito dall’Istituto Bruno Leoni, dal titolo “Noi e lo stato: siamo ancora sudditi?”.

I punti su cui Galli si concentra sono sostanzialmente tre: la relazione tra debito pubblico e tassazione; l’idea per cui l’emissione di debito pubblico non troverebbe ostacolo, dato che i contribuenti non sono consapevoli che, in periodi futuri, verranno aumentate le tasse; l’onere che il debito rappresenterebbe per le future generazioni. Questo articolo intende controbattere alle tesi esposte da Galli, opponendo ad esso argomentazioni alternative.

 

1. Se emettere debito pubblico significa tassare

Nella parte iniziale dell’articolo Galli sostiene che poiché, prima o poi, il debito deve essere ripagato un aumento di debito di un certo ammontare oggi corrisponda ad un aumento delle tasse domani. Stando alle parole di Galli il debito sarebbe “tassazione differita”, e su questo Galli sostiene che vi sia “sostanziale consenso tra gli economisti”.

Su questo tema viene fatto un esempio in cui si suppone che lo stato decide di ridurre le tasse di 1.000 euro per ogni cittadino e di finanziare il mancato gettito emettendo un titolo con scadenza annuale e con cedola del 5 per cento. Secondo Galli “lo stato dovrà pagare 1.050 euro a ogni detentore del titolo, il che significa che ogni contribuente ottiene una riduzione di tasse di 1.000 quest’anno e un aumento di 1.050 l’anno prossimo.” Questo dovrebbe far presupporre un peggioramento della condizione della collettività. A parere di chi scrive questa conclusione è erronea per due ordini di ragioni.

Primo: Galli implicitamente sostiene che il debito pubblico debba essere azzerato. A meno che non si tratti di casi molto particolari, che rappresenterebbero un’eccezione e non certo la regola, non sembra esserci evidenza su fenomeni di azzeramento del debito pubblico da parte di un Paese tramite politiche di rientro. Si possono registrare, certo, fenomeni di riduzione del debito in rapporto al PIL ma non si registrano episodi in cui un Paese abbia azzerato il suo debito.

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la citta futura

Il salario minimo legale

di Ascanio Bernardeschi

Un’analisi sul terreno della teoria economica del salario minimo ci dice che esso non può sostituire la lotta di classe e il compito storico di superare il capitalismo

9691a5b021752577710a332a46a30f63 XLSe ci vien fatto di dimostrare che la carità legale,
applicata secondo questo principio,
può essere utilmente introdotta nelle società moderne,
noi avremo tolto al comunismo i suoi più formidabili argomenti,
e segnata la via a migliorare le sorti delle classi più numerose,
senza mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’ordine sociale

Camillo Benso Conte di Cavour

Già Carla Filosa ha trattato l’argomento del salario minimo su questo giornale, esaminando le diverse proposte di PD, 5 Stelle e Leu ed evidenziando gli inganni ideologici che vi stanno dietro. Federico Giusti dal canto suo ha colto le opportunità e i rischi derivanti da questo istituto. Nel presente articolo mi propongo di farne una lettura con le “lenti” delle tre principali scuole di teoria economica, quella monetarista, quella keynesiana e quella legata alla critica marxiana dell’economia politica.

I monetaristi, da bravi liberisti, sono contrari a ogni forma di ingerenza statale nel “libero” mercato del lavoro. Per loro esiste un livello “naturale” dei salari, che viene raggiunto nel gioco fra domanda e offerta. Quindi non è opportuno che con provvedimenti di legge si alteri questo equilibrio. Esiste anche, per i seguaci di questa scuola, un livello ottimale della disoccupazione, denominato Non-Accelerating Inflation Rate Of Unemployment (Nairu). Come si intuisce dalla denominazione, si tratta del livello di disoccupazione al di sotto della quale si genera inflazione. Infatti, per questa scuola i profitti non hanno origine dal plusvalore, dal lavoro non pagato, ma sono un ricarico, un “mark up” in gergo, che i capitalisti applicano ai loro costi di produzione per determinare i prezzi. Se diminuisce, per effetto di una politica statale espansiva, la disoccupazione, diminuisce l’offerta di braccia da parte dei lavoratori in confronto alla domanda di forza-lavoro da parte delle imprese. I lavoratori disporranno di un maggiore potere contrattuale, i salari aumenteranno e, dato il mark up applicato, aumenteranno i prezzi. L’aumento dei prezzi farà scendere i salari reali al livello precedente i provvedimenti statali e con ciò la domanda reale.

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economiaepolitica

Bilancia dei pagamenti e squilibri nell’eurozona: cosa occorrerebbe fare

di Rosaria Rita Canale

Abstract: In this article the divergences within the euro area are examined in the light of balance-of-payments imbalances recorded in the TARGET2 balances of the individual countries. It emerges that countries with positive values ​​of the target balances (surpluses) have lower interest rates than the Euro area average and countries with negative values ​​(deficits) have higher than average rates. Furthermore, an inverse relationship also emerges between balance of payments balances and poverty. The centralized measures of monetary policy and quantitative easing, together with fiscal restrictions for countries in deficit seem not to have resolved these differences and a new strategy is proposed to reduce divergences. This strategy, inspired by the post-war Keynes plan, should include expansionary measures for the creditor countries, such as: 1) fiscal expansion; 2) increase in money wages and 3) direct foreign investment in countries in difficulty.

Bilancia dei pagamentiDalla crisi economica ad oggi si sono registrati all’interno della zona Euro squilibri preoccupanti fra i paesi che sembrano non poter essere colmati dalle straordinarie misure espansive di politica monetaria condotta a livello centralizzato dalla BCE. Come è noto poi la politica fiscale – che è affidata ai singoli stati -non può essere usata come strumento di stabilizzazione, se non da quei paesi che rispettano le regole fiscali imposte dai trattati e che quindi non ne hanno un gran bisogno.

Queste differenze fra i singoli paesi sono evidenti negli squilibri della bilancia dei pagamenti. La zona Euro è assimilabile ad un insieme di paesi legati fra loro da un tasso di cambio irrevocabilmente fisso. Tuttavia, dal momento che esiste solo una moneta, in alternativa all’acquisto e alla vendita di riserve in valuta estera è stato concepito un meccanismo di compensazione di nome TARGET[1] – evolutosi nel novembre 2007 in TARGET2 (T2). Con T2 i paesi con un surplus della bilancia dei pagamenti ricevono, attraverso la banca centrale nazionale, il credito netto derivante dal deficit della bilancia dei pagamenti degli altri paesi. Il costo del debito dei paesi in deficit è rappresentato dal tasso di rifinanziamento sulle operazioni principali fissato attualmente dalla BCE allo 0,25%. Perciò questo meccanismo di compensazione agisce come una sorta di linea di credito concessa ai paesi che stanno vivendo una crisi della bilancia dei pagamenti che rende l’Eurozona più resiliente come unione valutaria rispetto al gold standard o ai più tradizionali sistemi di ancoraggio al dollaro (Klein 2017).

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micromega

La disoccupazione giovanile e la proposta di Stato innovatore di prima istanza

di Guglielmo Forges Davanzati

9636 10406 720x478L’aumento della disoccupazione giovanile, secondo la visione dominante, è da imputarsi al mancato incontro fra la domanda di lavoro espressa dalle imprese e l’offerta di lavoro proveniente dai lavoratori. Questi ultimi – si sostiene – ricevono da scuola e Università una formazione generalista, eccessivamente calibrata sull’acquisizione di conoscenze e poco attenta alla trasmissione di competenze. Le competenze – il saper fare – sono (o sarebbero) quelle di cui le imprese, in un’ottica di breve periodo, hanno bisogno. La linea di politica economica che ne discende fa riferimento alla necessità di riformare i sistemi formativi per renderli funzionali alla produzione di forza-lavoro ‘occupabile’.

Il fatto che alcune imprese, in alcuni particolari segmenti del mercato del lavoro, trovino (o denuncino) difficoltà nel reperire manodopera con il livello e la qualità della formazione richiesta non implica che l’intera disoccupazione giovanile in Italia (superiore al 60% in alcune regioni del Sud) dipenda dal mismatch fra competenze offerte e competenze richieste. Per smentire questa tesi, può essere sufficiente considerare che oltre il 40% delle imprese italiane dichiara di non occupare – o non intendere assumere – laureati, a fronte del 18% della Spagna e del 20% della Germania.

La disoccupazione giovanile italiana – da molti anni superiore alla media europea – dipende essenzialmente dal combinato di un calo di lungo periodo della domanda aggregata (calo si è manifestato con la massima intensità a seguito dello scoppio della prima crisi, nel 2007-2008, e che ha avuto impatti anche sulla disoccupazione di individui in età adulta e anche sulla disoccupazione di lungo periodo) e dalla crescente fragilità della nostra struttura produttiva, particolarmente nel Mezzogiorno. La disoccupazione giovanile è aumentata sia perché le imprese hanno trovato conveniente, in una fase recessiva, non licenziare lavoratori altamente qualificati per non dover sostenere i costi della formazione dei neo-assunti, sia per il blocco delle assunzioni nel pubblico impiego.

La teoria del mismatch fa propria una visione della formazione economicistica, funzionalista e di breve periodo: il sistema formativo – stando a questa visione – deve essere sottostare a vincoli propriamente economici.

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soldiepotere

La Germania mal guidata rischia il declino

di Carlo Clericetti

angela merkel 740054 624x406Il grafico è semplicissimo, appena due linee. L’ha pubblicato su Twitter Christian Odendahl (@OdendahlC.), capo economista del Centre for European Reform, accompagnato dalle poche parole caratteristiche del mezzo. Ma è quanto basta per far capire l’assurdità della politica economica tedesca, quella che Berlino e i suoi alleati hanno di fatto imposto a tutta l’Unione europea.

Prima di parlare di questo è bene sapere che questo think-tank britannico, nella sua presentazione, si definisce “pro-European but not uncritical”, europeista ma non acritico, considera l’integrazione europea “largely beneficial” ma ritiene che “per molti aspetti l’Unione non funzioni bene”. Ne consegue che le sue intenzioni sono di fare critiche costruttive, questo centro non è un nemico dell’UE.

Ma torniamo al grafico, che mostra gli andamenti dei tassi d’interesse sul Bund, il titolo tedesco a dieci anni, e degli investimenti pubblici in Germania.

“Buongiorno dalla Germania – scrive ironicamente Odendahl – dove siamo pagati per prendere in prestito i soldi eppure i nostri investimenti pubblici sono all’incirca quanti erano dieci anni fa”. Avrebbe potuto dire venti anni fa, e anche aggiungere che ancora prima, nel 1991, quando i tassi sul debito erano quasi al 9%, gli investimenti pubblici erano stati più alti di circa un punto di Pil.

Gli ultimi dati congiunturali della Germania sono pessimi. Ad aprile le produzione industriale è calata dell’1,9% sul mese precedente e dell’1,8% su base annua, ma quella dell’industria in senso stretto (escluse cioè energia e costruzioni) ha segnato un -2,5. La Bundesbank ha tagliato le stime della crescita di un intero punto, dall’1,6 allo 0,6%, riducendo anche quelle per l’anno prossimo. Se per crescere ci si affida solo alle esportazioni, quando succede qualcosa nel resto del mondo – come ora con la guerra dei dazi – si subisce un contraccolpo pesante. Insieme a questi dati arriva infatti anche quello dell’export, calato del 3,7% sul mese precedente.

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micromega

La guerra dei Minibot: gli scenari della crisi italiana

di Enrico Grazzini

minibot borghi10La battaglia politica sui minibot è sempre più accesa: il Parlamento Italiano ha votato all'unanimità a favore dell'emissione dei titoli fiscali proposti da Claudio Borghi della Lega con il supporto dei 5 Stelle, ma poi PD e Forza Italia si sono schierati contro i minibot. Anche Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea, Vincenzo Boccia, a capo di Confindustria, e il ministro del Tesoro Giuseppe Tria hanno espresso chiaramente la loro contrarietà verso la proposta votata dal Parlamento italiano. Per contro i due vice-presidenti del Consiglio dei Ministri, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, hanno attaccato il “loro” ministro contrario ai minibot. E' scoppiata quindi una vera e propria guerra politica sui titoli di stato con valore fiscale che dovrebbero essere emessi per pagare gli arretrati della pubblica amministrazione alle imprese e ai privati cittadini. La posta in gioco è alta: in futuro l'emissione dei minibot potrebbe perfino mettere in discussione la partecipazione dell'Italia nell'eurozona e quindi provocare anche la rottura dell'euro[1].

Le polemiche riguardano le caratteristiche e gli obiettivi dei minibot: questi titoli fiscali che circolerebbero in Italia anche come contante, sono legali o illegali? Rappresentano o no una moneta parallela? Violano il monopolio della Banca Centrale Europea sull'euro, l'unica moneta legale dell'eurozona? I minibot sono realmente efficaci per ridare liquidità alle imprese? Sono utili per rilanciare l'economia reale? O servono invece solo come espediente per uscire dall'Euro? Aumentano o no il debito pubblico? Esistono sistemi alternativi di titoli fiscali più efficaci nel rilanciare l'economia nazionale, che non aumentino il debito pubblico e garantiscano di essere pienamente rispettose delle regole dell'eurozona?

Queste le domande che attraversano il mondo politico, quello dell'economia e l'opinione pubblica, a cui questo articolo intende dare delle risposte.

Un'avvertenza preliminare: la polemica sui minibot non è di poco conto, è seria ed è, magari anche con diverse forme e contenuti, destinata a durare e a crescere. La questione monetaria non può mai essere trattata in maniera derisoria e superficiale, come hanno fatto molti commentatori paragonando i minibot alle monete false del gioco del Monopoli.

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Come ho imparato a non preoccuparmi dei minibot

di Massimo D'Antoni

minibotÈ chiaro che la proposta dei minibot, che larga eco ha avuto in tutto il continente, ha a che vedere con la questione della posizione dell’Italia nell’euro, ma per affrontare il tema cerchiamo innanzi tutto di capire di che si tratta dal punto di vista economico e della finanza pubblica, perché non sempre le opinioni di commentatori più o meno esperti sono state precise e complete a riguardo. Ricapitoliamo dunque. Tra i crediti che i privati possono vantare verso la Pubblica Amministrazione figurano anche i cosiddetti crediti commerciali, che corrispondono a pagamenti non ancora effettuati, e spesso effettuati con molto ritardo, per prestazioni e fornitura allo Stato o (specialmente) agli Enti locali. Per la P.A. sono passività, cioè debiti, e il loro ammontare, non facile da determinare, è stimato tra i 50 e i 60 miliardi. La necessità di ridurre l’ammontare di tali debiti è riconducibile sia al rispetto della normativa comunitaria (l’Italia è stata deferita dalla Commissione alla Corte di giustizia della UE per i suoi ritardi sistematici), sia al fatto che pagamenti più regolari avrebbero effetti positivi sull’attività economica e sull’occupazione.

Partiamo dalla mozione approvata in Parlamento la scorsa settimana.Essa impegna il governo ad accelerare i pagamenti, prevedendo modalità quali la compensazione tra debiti e crediti nonché, qui il punto che ha suscitato tanto scalpore, “attraverso strumenti quali titoli di Stato di piccolo taglio”.

Potremmo descrivere l’idea nel seguente modo: invece di reperire le risorse necessarie sui mercati finanziari con l’emissione di titoli, i titoli verrebbero offerti direttamente ai creditori, su base volontaria (la “base volontaria” non è specificata nella mozione ma è stata ribadita più volta in sede di dibattito precedente il voto). Il creditore potrebbe accettare il titolo, in alternativa all’attesa del pagamento, perché disporrebbe di uno strumento più facilmente liquidabile, presso una banca o sul mercato finanziario.

La prima obiezione sollevata a questa soluzione è che essa determinerebbe un aumento del debito pubblico. È bene chiarire dunque alcuni aspetti della questione dal punto di vista della finanza pubblica. I crediti commerciali sono l’effetto di spese già impegnate dalla pubblica amministrazione, e quindi già contabilizzate in bilancio (e quindi già conteggiate ai fini del deficit di bilancio), ma per le quali le risorse di cassa necessarie alla liquidazione non sono state ancora reperite.

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coniarerivolta

La Lega e la farsa dei Minibot

di coniare rivolta

Prima parte

buonianullaCapita a volte che un fatto insignificante si trovi nel posto giusto al momento giusto, e per questa semplice ragione assurga agli onori delle cronache, diventando questione importantissima. Diventando, quindi, altro. Quando questo capita, può essere interessante concentrare l’attenzione non tanto sul fatto in sé – che resta insignificante – quanto piuttosto sul particolare contesto che in quel fatto ha trovato un riflesso. Guardando attraverso il prisma dei Minibot – come vedremo, un fatto di per sé irrilevante – possiamo inquadrare la situazione politica italiana con molta più chiarezza di quella che ci restituiscono schiere di politologi armati di rumors e flussi elettorali.

Nulla è come appare in questa storia dei Minibot. Inizieremo quindi col chiarire i termini del discorso e gli aspetti tecnici del problema, innanzi tutto per rendere evidente l’insignificanza di questa ultima alzata d’ingegno della Lega di Salvini. Questo ci permetterà anche di concentrare l’attenzione su tutto ciò che ha iniziato a volteggiare intorno a questi curiosi ‘oggetti finanziari’, una fitta trama di interessi politici che ha generato un’impenetrabile maglia di equivoci, utili a tenere in vita un mito: l’idea che la Lega sia un partito di lotta lanciato in uno scontro all’ultimo sangue contro l’Unione Europea. Su questo mito si basa la gestione del potere in Italia oggi. Grazie ad esso, la Lega continua a macinare consensi tra gli sconfitti della globalizzazione, tra le masse di italiani precari, impoveriti, disoccupati, e in cerca di un riscatto da oltre venti anni di politiche neoliberiste, proprio mentre quelle politiche le pratica al Governo.

Cosa sono i Minibot? Questa storia nasce dalla constatazione di un dato di fatto: spesso e volentieri, le pubbliche amministrazioni pagano in ritardo i loro fornitori. Immaginiamo, ad esempio, un Ministero che acquista computer per i suoi uffici e li paga dopo sei mesi dall’acquisto. I motivi del ritardo possono essere i più disparati, dalla goffaggine burocratica ai vincoli di cassa legati alla gestione della liquidità.

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Debito pubblico, alla ricerca di una via di fuga

di Claudio Conti

Schermata del 2019 06 02 10 23 45 654x300La discussione mainstream intorno al debito pubblico, lo spread, le “letterine” che partono da Bruxelles e le “rispostine” – corrette in corsa – del ministero dell’economia italiano, soffre da sempre di una distorsione evidente e sempre più faticosamente nascosta.

Se uno legge infatti Repubblica o il Corriere, o peggio ancora ascolta Cottarelli e Giannini in tv, è obbligato a pensare che il debito aumenta perché aumenta la spesa pubblica, con governi che non applicano le indicazioni “sagge” provenienti dall’Unione Europea (e specificamente dalla Commissione, ossia il “governo” Ue).

Chi guarda invece i numeri scopre che la spesa pubblica, negli ultimi venticinque anni è stata costantemente ridotta, al punto che da diversi anni presenta costantemente – e sotto qualsiasi tipo di maggioranza governativa – un consistente avanzo primario. Che significa: lo Stato spende ogni anno meno di quanto incassa con le tasse.

E del resto molti governi degli ultimi anni – ma anche quelli di Berlusconi – hanno obbedito più o meno ferreamente agli ordini provenienti dall’alto. In particolare quello dei ferocissimi Mario Monti ed Elsa Fornero, che sono stati protagonisti anche del più brusco innalzamento del debito pubblico in tempi recenti. Sono infatti entrati a Palazzo Chigi con un fardello pari al 120,1% del Pil e ne sono usciti lasciandocelo a 129% (oggi siamo al 132).

Ci troviamo insomma di fronte a un piccolo mistero: più ci si piega alle prescrizioni inscritte nei trattati europei, ribadite con frequenti bacchettate sulle dita, più peggiora la situazione. Lo stesso, e anche peggio, è accaduto alla martoriata Grecia governata direttamente dalla Troika – con Tsipras a fare la “copertura a sinistra” di politiche ferocemente antipopolari – quindi non si può neppure parlare di anomalia italiana.

Gli scostamenti dal percorso operati dal governo gialloverde – quasi soltanto, e molto limitatamente (come ricorda Tria nella sua contestata lettera a Bruxelles), per “quota 100” e “reddito di cittadinanza” – aggravano un po’ la tendenza, ma senza modificarne eccessivamente la direzione.

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soldiepotere

Robin contro l’output gap

di Carlo Clericetti

page 1 thumb largeAltro che Robin Hood, il nostro eroe è Robin Brooks. Che non è un ribelle che vive nascosto, anzi: è – pensate un po’ – un economista mainstream. Laurea a Yale, master alla London school, poi Fondo monetario (8 anni) e Goldman Sachs. E ora è capo economista all’Iif, Institute of International Finance, che magari non è molto conosciuto dal grande pubblico, ma è tra le più importanti lobby della finanza: basti sapere che ha rappresentato le banche nei negoziati sul regolamento di Basilea 3 e i creditori in quelli sul debito greco del 2011-12. Insomma, un personaggio che si muove nelle stanze del potere, il potere vero.

E come mai ci piace tanto? Perché ha iniziato una battaglia contro l’utilizzo, da parte della Commissione europea e del Fondo monetario, dell’output gap, che è uno dei meccanismi infernali utilizzati per dare giudizi sull’economia di un paese e decidere i limiti della sua politica di bilancio. Brooks ha persino coniato un acronimo, CANOO, che sta per Campaign against Nonsense Output Gaps, ossia Campagna contro gli insensati output gaps, e produce grafici che mostrano come questo parametro sia completamente sballato e il suo utilizzo abbia effetti devastanti sulle politiche economiche.

Prima di mostrarveli ricordiamo in breve che cosa sia l’output gap. Quando un paese è in recessione, la grande maggioranza degli economisti, sia pure con varie sfumature, concordano sul fatto che la politica di bilancio debba essere espansiva, ossia che lo Stato debba spendere di più per sostenere l’economia. Negli anni passati non c’era questo largo consenso, ma questa è un’altra storia che sarebbe troppo lungo raccontare. Però siamo solo all’inizio del problema, perché, secondo la teoria economica dominante, la maggiore spesa può avere effetto solo quando il paese in questione è al di sotto del suo prodotto potenziale, cioè quello che si otterrebbe se tutti i fattori della produzione – lavoro, capitali – fossero utilizzati al meglio. Altrimenti, quella maggiore spesa non farebbe altro che far aumentare il debito e scatenare l’inflazione.