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Spunti di riflessione e proposta sulla politica economica, finanziaria e fiscale in Europa e in Italia

di Alfonso Gianni

I più acuti tra gli analisti economici di vario orientamento dottrinario e politico ci avevano avvertito che questa crisi mondiale sarebbe stata lunga. Si era detto che non sarebbe durata meno di sette anni. Sette anni di vacche magre, come nella Bibbia. Quindi, dato che le prime manifestazioni della crisi finanziaria si sono prodotte negli Usa nell’agosto del 2007, non siamo che a mezza strada. Solo che da allora la crisi si è rovesciata sull’Europa e le misure fin qui adottate non sono state in grado di invertire la situazione. Gli interventi dei governi per salvare le banche sono stati ingenti come mai è accaduto. Il principio di autoregolazione dei mercati, uno dei pilastri del pensiero neoliberista, ha manifestato tutta la propria inconsistenza e illusorietà. Ma l’enorme quantità di liquidità immessa nel mercato, se ha impedito a molti istituti finanziari di fallire, dopo il clamoroso default della Lehman Brothers, non è stata in grado di rilanciare l’economia. Infatti la liquidità si è fermata negli istituti finanziari e non si è trasformata in una coraggiosa apertura di credito. Ma soprattutto le politiche economiche nonhanno cambiato di segno. Non si sono creati nuovi sbocchi produttivi in settori innovativi non sottoposti alla crisi di sovrapproduzione che è invece presente in quelli maturi – come nel caso del mercato dell’automobile -; conseguentemente la disoccupazione e la precarietà sono continuate a crescere (in Italia nell’anno passato la percentuale nelle nuove assunzioni di contratti atipici, cioè a termine, ha superato il 75%!).

Quindi non si è risollevata la domanda, mentre l’inflazione accenna a risalire con il rischio , per quanto essa sia ancora bassa in Europa (il 2,5%), di tornare alla stagflazione tipo anni settanta, ovvero alla compresenza di inflazione, ristagno produttivo, elevata disoccupazione e bassi salari, vista la continua discesa del valore reale delle retribuzioni in tutto l’Occidente (al contrario dell’Oriente, ove, come in Cina, il combinato disposto di una nuova stagione di lotte operaie e popolari e la migliore comprensione della necessità di risollevare la domanda interna da parte delle autorità politiche, ha portato a aumenti retributivi percentualmente anche molto consistenti).

La vecchia locomotiva dell’economia mondiale è ritornata sugli antichi binari, solo che a una velocità prossima allo zero. La finanza ha ripreso vigore dopo che i governi sono corsi in suo soccorso. La liquidità anziché trasformarsi in investimenti produttivi si è indirizzata nuovamente verso la speculazione. Nuove bolle finanziarie sono in arrivo e rischiano nuovamente di scoppiare, con conseguenze ancora più deflagranti che nel passato, visto che la quantità dei titoli over the counter, quelli cioè trattati “sottobanco”, è più o meno tornata ai livelli del 2008, quando il loro valore complessivo era pari a 12 volte il Pil mondiale. Intanto la speculazione finanziaria si è indirizzata sulle materie prime, diventando una delle principali cause – assieme ai disastri climatici – dell’aumento del prezzo delle materie prime alimentari, come il grano e il riso, che hanno giocato una parte non piccola nel creare quell’esasperazione popolare che sta alla base delle sollevazioni in atto nel nord Africa.

Nel 2009, annus horribilis per l’economia globale, l’incremento del Pil mondiale – che, per quanto sia un indicatore rozzo e del tutto inadeguato, resta l’unico strumento di misurazione condiviso nelle statistiche ufficiali – è stato negativo come non accadeva dagli anni della seconda guerra mondiale. Quel dato non è stato migliorato in modo significativo e certamente la sciagura del terremoto-tsunami-disastro nucleare in Giappone influirà ancora più negativamente sui consuntivi del Pil mondiale dell’anno in corso. Le riprese produttive più volte annunciare qua e là sono sempre state di modeste dimensioni e molto fragili. Laddove vi sono state, non hanno invertito la tendenza all’aumento della disoccupazione e della precarietà, a dimostrazione che ciò che si profila è al massimo una jobless recovery, ovvero una ripresa senza occupazione, confermando così quel dato di più lungo periodo che già vedeva la rottura del nesso fra la crescita economica e quella occupazionale.

Se le fondamenta teoriche del neoliberismo sono state ampiamente falsificate dalla realtà, se lo stato in molte parti del mondo è tornato ad intervenire direttamente nelle vicende economiche, seppure sotto forma di salvatore degli istituti finanziari too big to fail, troppo grandi per fallire, non per questo le classi dirigenti hanno mutato orientamento. Anzi, anche grazie all’assenza di un’alternativa forte di politica economica che solo una sinistra non in crisi di identità avrebbe potuto proporre, hanno, dopo un periodo di panico e di sbandamento iniziale, ripreso a tessere la loro tela per un’uscita da destra dalla crisi.

Ora siamo di fronte ad una svolta negativa. Lo possiamo vedere particolarmente nello scenario europeo ove la risposta alla crisi delle classi dirigenti si articola con decisione su due terreni: quello delle politiche macroeconomiche finanziarie e fiscali e quello della riorganizzazione del lavoro e della impresa. Quest’ultima si è spinta fino alla delineazione di quella che ormai viene chiamata “la nuova manifattura”, ove viene intensificata l’utilizzazione degli impianti attraverso una contrazione dei tempi del lavoro – la nuova metrica del lavoro del cosiddetto world class manufacturing nel settore automobilistico ne costituisce un esempio eclatante – e l’abbondante uso degli straordinari e dove, conseguentemente, vengono subordinati i diritti dei lavoratori al ricatto del mantenimento del posto di lavoro, viene negata la libera contrattazione, la stessa presenza del sindacato e perfino il diritto di sciopero che nella nostra Costituzione è diritto individuale seppure a indirizzo collettivo. L’essenza del “marchionnismo” è sostanzialmente questa.

In queste note ci limitiamo a occuparci del primo dei due aspetti, ma è bene non dimenticare che essi nella realtà sono congiunti, sono le due facce della controffensiva delle classi dominanti.

Le conclusioni del Consiglio europeo del 24/25 marzo segnano indubbiamente una tappa importante e determinante nella costruzione di una governance economica europea. La Ue da unione monetaria diventa sempre più un soggetto economico. Ma questo avviene all’insegna di una politica economica che ripropone in termini aggiornati e ancora più esasperati i principi del neoliberismo. Negli ultimi mesi si è andato delineando un nuovo quadro che si articola almeno in quattro nuovi elementi:

  1. la fissazione di un nuovo patto per l’euro, ridenominato Euro Plus Pact

  2. la definizione di una riforma del patto di stabilità e di crescita

  3. nuove norme e forme di sorveglianza degli squilibri macroeconomici

  4. l’istituzione di un nuovo Fondo di stabilità finanziaria (Esm nell’acronimo inglese di European Stability Mechanism)

Le conseguenze di queste decisioni – enfaticamente definite come “stimolare la competitività; stimolare l’occupazione; concorrere ulteriormente alla sostenibilità delle finanze pubbliche; rafforzare la stabilità finanziaria” - sono assai rilevanti per l’eurozona e in particolare per il nostro paese e con queste avremo a che fare per un lungo periodo. Qualunque forza politica che ambisce a governare un paese dell’Europa dovrà inevitabilmente scontrarsi con esse.

Il Patto per l’euro non si rivolge solo ai paesi che hanno già questa moneta, ma anche a quelli attualmente esterni all’unione monetaria. Alcuni paesi hanno già annunciato la loro partecipazione (Danimarca, Polonia, Bulgaria, Romania, Lettonia e Lituania). Non a caso si tratta di paesi che prevalentemente, come è il caso emblematico della Polonia (ormai “l’idraulico polacco” non spaventa più nessuno perché ora trova lavoro anche in patria!), vivono nell’orbita economica tedesca. Pensare quindi, come fanno alcuni commentatori, che questa scelta allontani l’idea – e il pericolo – di un’Europa a due velocità è del tutto fuori luogo. Anzi l’intero patto, come vedremo tra poco, tende a rafforzare il primato della Germania e accentuare i pericoli di una frattura fra l’Europa del Nord e quella del Sud, mediterranea in particolare.

Infatti il testo varato nelle sedi europee insiste sulla necessità di mantenere sotto controllo l’incremento (?!?) dei salari che in ogni caso non deve superare quello della produttività, con un rigido contenimento del costo del lavoro per unità di prodotto; prevede quindi la revisione degli istituti di contrattazione centralizzata, ovvero mette sotto accusa il contratto collettivo nazionale di lavoro, nonché dei meccanismi di indicizzazione delle retribuzioni – quella che per noi un tempo era la scala mobile - che ancora alcuni pochi paesi hanno mantenuto; invita a una maggiore rigidità per quanto riguarda i costi nel settore pubblico, che non solo prelude a tempi duri per i lavoratori del pubblico impiego, ma anche a una nuova ondata di privatizzazioni in coerenza con le decisioni di cui parleremo più avanti. Non manca naturalmente un ulteriore invito all’elevamento dell’età pensionabile, malgrado che questa abbia incontrato una larghissima e vivace opposizione popolare in uno dei paesi guida di questa Europa “carolingia”, cioè la Francia. Il tutto verrebbe condito e forse addolcito da una riduzione del carico fiscale sul lavoro e da norme relative al coordinamento e alla armonizzazione europea della tassazione societaria.

L’ambizione del Patto è però più ampia e più penetrante. L’intenzione è quella di invadere il campo delle competenze dei bilanci nazionali, sia attraverso una interpretazione aggiornata e più rigida degli obblighi derivanti dai vincoli di Maastricht, come vedremo tra poco, sia con la costituzionalizzazione delle regole di finanza pubblica. Queste quindi non sarebbero più oggetto della legislazione ordinaria di ogni singolo paese, ma dovrebbero diventare addirittura parte integrante della loro costituzione. Il ministro Tremonti non ha perso l’occasione di sottolineare positivamente questo aspetto, inserendolo nel progetto già in atto da parte della attuale maggioranza di governo di arrivare a una modificazione sostanziale della nostra Costituzione. Se così fosse, verrebbe cancellata addirittura in Costituzione la possibilità di politiche keynesiane di deficit spending, ovvero verrebbe meno la stessa politica economica tout court, perché tutto sarebbe già deciso dai vincoli di bilancio.

La riforma del Patto di stabilità e di crescita non fa che confermare questo ultimo aspetto. Si tratta di cinque nuovi regolamenti e di una direttiva che sono soggetti alla procedura di co-decisione con il Parlamento europeo, il quale dovrebbe approvare l’intero pacchetto entro giugno. Infatti non solo si chiede ai paesi un brusco rientro dal deficit in ragione non inferiore comunque allo 0,5 per cento del Pil all’anno (il che per il nostro paese comporterebbe una manovra di circa 7.700 milioni di euro), ma si prevede anche l’ulteriore vincolo in base al quale la spesa nominale non può superare la crescita di medio periodo della economia, escludendo così che il miglioramento del saldo possa avvenire solo sul lato delle entrate. In sostanza si impedisce di affrontare il tema del deficit in modo alternativo al taglio della spesa sociale. L’esatto contrario di quanto ha sostenuto quel folto gruppo di economisti italiani che, sia all’epoca del secondo governo Prodi, in polemica con il ministro dell’economia Tommaso Padoa Schioppa, che oggi nei confronti del Ministro Tremonti, ha chiesto e chiede la stabilizzazione del debito, sviluppando una intuizione del grande economista italiano di scuola keynesiana Luigi Pasinetti.

Non contenti di tutto ciò i tecnocrati e i ministri europei hanno deciso di spostare l’attenzione dalla riduzione del deficit a quella del debito. Infatti si prevede che il rapporto fra debito e Pil debba ridursi annualmente di un ventesimo della distanza tra il rapporto debito/Pil di ciascun paese e il famoso parametro del 60 per cento sul Pil fissato a Maastricht. Il tutto verrebbe pesantemente sancito in caso di inosservanza, poiché si prevede che le sanzioni comminate dalla Commissione europea potranno essere evitate solo se due terzi dei governi nazionali vi si opporranno. La prima verifica, che dunque è stata anticipata rispetto alle previsioni, scatterà nel 2015 sulla base di quanto è stato fatto nel triennio precedente in materia di aggiustamento. Nel caso italiano si può calcolare che nel triennio 2012-2015 saremo chiamati a ridurre il rapporto debito/Pil di circa 8 punti percentuali. Né ci salveranno le cosiddette concessioni che Tremonti sbandiera come un successo personale. Infatti se è vero che chi ha un più elevato debito privato dovrà più rapidamente procedere a mettere in ordine i conti pubblici, non è affatto stato stabilito che la cosa possa avvenire in senso contrario, ossia che chi ha un debito privato più basso – come nel caso dell’Italia – possa giovare di tolleranza rispetto agli alti livelli del proprio debito pubblico.

Inoltre la riduzione del debito agirà sugli stock e non sui flussi, come invece avviene per la riduzione del deficit, il che comporta l’incitamento a una nuova ondata di privatizzazioni di cose e funzioni dello stato sociale, cui è perfettamente conseguente, come ho già osservato prima, il drastico contenimento della conflittualità sindacale nel settore pubblico.

Le conseguenze per alcuni paesi saranno drammatiche. La Grecia in questo quadro è condannata al fallimento, poiché queste norme si aggiungono a quelle già pesantissime imposte a fronte dell’aiuto ricevuto nei mesi scorsi. Ciò che avrebbe dovuto evitare il default è esattamente ciò che lo provocherà. Ma altri paesi mediterranei sono direttamente minacciati. E’ il caso in primo luogo del Portogallo, il cui presidente del consiglio si è presentato dimissionario al vertice di Bruxelles. Ma la sorte di Spagna e Italia può seguire a ruota. In ogni caso la privatizzazione di altre parti di stato sociale inibisce la possibilità di un intervento diretto dello stato nell’economia e di fare funzionare la soddisfazione dei bisogni e dei diritti dei cittadini come volano di una nuova ripresa alimentata da una sana spesa pubblica. Chi ha osservato che in fondo per il nostro paese le nuove condizioni non sarebbero così draconiane, perché arrivare entro il 2033 all’80 per cento del rapporto debito/Pil non sarebbe impossibile ( essendoci riuscito il Belgio in dieci anni tra il 1997 e il 2007) a condizione che riparta la crescita, non riesce a vedere che proprio quel Patto e le modalità intrinseche di questo modello di sviluppo la inibiscono, cadendo quindi in una contraddizione insolubile.

Sulla questione delle nuove norme in merito alla sorveglianza degli squilibri macroeconomici, va rilevato che il mancato adeguamento di un paese alle raccomandazioni della Commissione potrebbe dare luogo a una “procedura per squilibri eccessivi” in analogia con quanto già avviene in caso di consistenti disavanzi di bilancio. Quindi siamo di fronte ad un ampliamento delle potestà di controllo e di intervento degli organi europei sulle politiche economiche pubbliche dei singoli paesi. Ma ciò che maggiormente desta perplessità - anche se per alcuni economisti questo pare coerente – è che le eventuali multe per squilibri o disavanzi eccessivi vadano a finanziare il fondo di stabilità finanziaria. Come a dire chi ha rotto le regole imposte dai patti deve sostenere in prima persona quei fondi che dovrebbero correre successivamente in suo aiuto. Ma allora dove sta l’aiuto solidale se in realtà ogni paese lo paga in proporzione crescente al bisogno che ne ha?

Una delle novità più rilevanti delle decisioni assunte il 24 e 25 marzo è certamente costituita dalla creazione del nuovo Meccanismo di stabilità europeo (European stability mechanism, ESM). Questo dovrà entrare pienamente in funzione dal giugno del 2013, assorbendo le funzioni che sono ora di competenza dell’Efsf (European financial stability facility) e dell’Esfm (European financial stabilisation mechanism). L’organo di governo del nuovo fondo sarà di carattere politico, ovvero sarà costituita da un Board of Governors, formato dai ministri delle Finanze dell’eurozona. I suoi compiti saranno essenzialmente quelli di concedere prestiti ai paesi in difficoltà, condizionati all’intervento sugli aggiustamenti di bilancio, ed anche acquisire titoli di stato emessi da questi paesi ma solo sul mercato primario. L’esclusione del mercato secondario, quello cioè dei titoli già in circolazione, ha sollevato diverse polemiche. Da un lato la soluzione adottata appare logica poiché è attraverso il mercato primario, come nelle aste, che avviene il finanziamento diretto degli stati. Dall’altro appare debole, perché in questo modo il salvataggio avverrebbe quando ormai un paese è sull’orlo del burrone, come è avvenuto nel caso dell’Irlanda, mentre si può ragionevolmente supporre che la possibilità di acquisto anche sul mercato secondario avrebbe avuto una funzione stabilizzatrice del medesimo.

La dotazione dell’Esm a pieno regime sarà di 700 miliardi di euro con una capacità di erogazione di 500. Però i paesi ne sborseranno solo 80, in cinque rate annuali, essendo il resto costituito da callable capital, quindi capitale non versato, e da garanzie offerte dai paesi partecipanti all’euro. Siamo di fronte a una dotazione chiaramente insufficiente e tardiva, visto che salvo eccezioni l’erogazione partirà dal 2013. Too little, too late, troppo poco e troppo tardi. Non si capisce infatti cosa può succedere da qui al 2013, quando invece si sa che diversi sono i paesi a rischio e che, se consideriamo il fabbisogno finanziario del settore pubblico, ovvero il debito in scadenza aumentato del deficit, tra il 2011 e il 2013 di paesi come il Belgio, la Grecia, l’Irlanda, l’Italia, la Spagna, il Portogallo, esso ammonta a 1758 miliardi di euro!

Inoltre i salvataggi avranno luogo solo se tutti i paesi saranno d’accordo. Ma come si sa il principio di unanimità equivale a livello pratico a quello di veto, con evidenti possibilità di facilitare le manovre di un paese contro l’altro. Infine possono facilmente determinarsi fenomeni come quello attualmente in atto in Portogallo, ove le previsioni sull’eventualità di un fallimento aumenta la richiesta da parte dei mercati di rendimenti più alti sulle emissioni pubbliche accelerando quindi, come un cane che si morde la coda, la crisi di insolvenza.

Nella discussione di Bruxelles è ricomparso il ruolo delle agenzie di rating. La Merkel avrebbe addirittura voluto differenziare gli obblighi dei singoli paesi a seconda del numero delle “A” attribuite dalle agenzie di rating. Il che avrebbe significato di fatto consegnare ciò che resta della sovranità nazionale degli stati direttamente nelle mani delle agenzie di rating, le quali peraltro non hanno mai brillato per capacità previsionale, come si è visto nella recente crisi economica, e sono sede, data la loro natura privatistica, di fin troppo evidenti conflitti di interesse.

A completare un quadro già difficile vi è l’imminenza della decisione della Banca centrale europea di procedere ad un aumento dei tassid’interesse, a partire da un quarto di punto che verrà probabilmente deciso fin dalla prossima riunione dei suoi organi dirigenti. In questo modo si prevede che l’attuale tasso, fermo da tempo all’1%, dovrebbe essere gradualmente portato a 2,5%. Il tutto di fronte a un aumento modesto dell’inflazione attualmente situata attorno al 2,5%. Come sappiamo quello di tenere sotto controllo l’inflazione è il compito principale della Bce, priorità che come vedremo più avanti dobbiamo mettere in discussione e cambiare. Ma in questa situazione, ove non si vedono segni consistenti di ripresa e l’inflazione stessa rimane tutto sommato a livelli bassi, una simile scelta appare ingiustificata e foriera di conseguenze gravi di tipo recessivo. Chi ha bisogno di prestiti o di accendere un mutuo è avvisato.

D’altro canto il sistema creditizio e bancario privato non vive certamente un momento di grande floridità. Le preoccupazione rispetto alle conseguenze dell’entrata in vigore degli accordi varati dai Governatori delle Banche centrali nel settembre del 2010, denominati Basilea 3, sono diventate generali, particolarmente forti nel nostro paese, la cui economia dipende strettamente dal credito bancario – un sistema “banco centrico” il nostro – e malgrado che il nostro sistema bancario abbia retto gli urti della crisi meglio che altrove. Le nuove norme di Basilea 3 diventeranno operative in modo molto – troppo – graduale. Infatti il nuovo sistema sarà a regime non prima del 2020, visto che il gradualismo partirà solo dal 1 gennaio 2013, con lentezza esasperante voluta espressamente dai banchieri per trovare il tempo di irrobustire i patrimoni dei loro istituti.

Al di là delle complesse tecnicalità dell’accordo, queste norme impongono in buona sostanza alle banche di avere, a parità di impieghi, una quantità di capitale maggiore o di migliore “qualità”. Quindi gli istituti bancari dovranno scegliere: aumentare i patrimoni per mantenere invariate o addirittura accrescere attività considerate rischiose, oppure il contrario, cioè diminuire drasticamente il volume dei prestiti per non aumentare il capitale. Per le banche italiane la prima strada è tutta in salita, come dimostra il tonfo in Borsa di Ubi Banca dopo avere recentemente annunciato una ricapitalizzazione di circa un miliardo di euro.

Sulla condizione delle banche in Italia l’autorevole studio Ambrosetti ha suonato recentemente un campanone d’allarme. In una recente ricerca su mercati, banche e imprese verso Basilea 3, coordinata da Paolo Savona, l’European House-Ambrosetti osserva che per raggiungere i livelli migliori previsti dal nuovo accordo il fabbisogno complessivo delle banche dovrebbe essere incrementato di 40 miliardi. Se volessero evitare un simile sforzo, dovrebbero ridurre il volume dei prestiti di ben 436 miliardi di euro, ossia il 24% rispetto al 2009. La stretta creditizia, il credit crunch, che per le imprese sarebbe pari alla metà della cifra citata, è quindi assicurata anche in casi di scenari meno drastici che pure la ricerca Ambrosetti considera. Nel concreto la ricapitalizzazione degli istituti bancari, voluta per rendere più solido il sistema di fronte al ripetersi di crisi – che i banchieri sanno bene essere consustanziali al sistema - finisce per strozzare le possibilità di crescita e quindi per chiudere le vie di uscite dalla crisi. Ancora una volta il cane si morde la coda.

Prima di passare a qualche elemento di proposta, conviene soffermarsi ancora sul quadro delle politiche fiscali in Europa e naturalmente nel nostro paese. Come ha giustamente osservato un profondo conoscitore della materia come Alessandro Santoro, la questione fiscale non rientra tra le cause della grande crisi economica che travaglia il mondo dal 2007, ma certamente il fisco ha, o dovrebbe avere, un ruolo decisivo nella gestione delle politiche anticrisi. Recenti dati Ocse dimostrano una riduzione tra il 2008 e il 2009, ma non in Italia, della pressione fiscale apparente. Quest’ultima è costituita dal rapporto fra le imposte e i contributi nell’anno fiscale e il Pil dello stesso anno e quindi differisce da quella reale perché è al lordo del sommerso economico. Se si esclude questa componente dal Pil, la pressione fiscale diventa assai più elevata. Nel nostro paese, dove è notevole la componente del sommerso, la pressione fiscale reale giunge infatti al 52%. L’utilizzo della leva pubblica nel periodo della crisi è avvenuta, come ben sappiamo, tramite un incremento del deficit e degli stock di debito pubblico, ovvero trasformando il debito da privato in pubblico. Ma proprio per questo bisogna riaprire una discussione sul fisco in Europa, se non si vuole che la riduzione dei disavanzi pesi esclusivamente sui tagli della spesa sociale o sulla vendita del patrimonio pubblico. In altre parole quella del fisco è uno strumento essenziale nella delineazione di una politica economica alternativa agli attuali indirizzi emersi dal Consiglio europeo.

Il tema della armonizzazione fiscale, fin qui accuratamente evitato, dovrebbe diventare argomento centrale di una simile politica. Ed è un tema che in realtà si presenta come alternativo al discorso sul federalismofiscale che è al centro del patto di governo fra PdL e Lega e che trova larga audience anche nel Partito democratico. Il caso italiano è aggravato, rispetto al già non esaltante contesto europeo, da un elevatissimo tasso di evasione fiscale, che anche l’ultima rilevazione fatta con nuove strumentazione da parte della Agenzia delle Entrate ha impietosamente evidenziato, sottolineando anche il fatto che se in termini percentuali la maggiore evasione avviene al Sud, rispetto alla ricchezza lì prodotta, in termini di quantità di entrate sottratte alle casse dello stato il primato spetta ovviamente al Nord. Cosicchè la media dell’evasione raggiunge la ragguardevole percentuale complessiva del 38%, da cui è escluso ovviamente il lavoro dipendente e le rendite da pensione. Ogni discussione sul federalismo fiscale, prima ancora di pronunciarsi sulla giustezza o meno dei principi che lo ispirano, dovrebbe partire da qui, da questo dato sconsolante che ci separa nettamente dal resto dell’Europa.

Al contrario se guardiamo a quelle parti già decise nel progetto federalista, troviamo connessioni in negativo con il quadro delle recenti decisioni di Bruxelles. E’ il caso del cosiddetto federalismo demaniale, attraverso il quale viene concesso agli enti locali di svendere, seppure in parte, i beni paesaggistici e artistici per fare fronte al debito accumulato. O del federalismo regionale che sembra muoversi in una logica opposta a quella della convergenza, nella fattispecie riflettendo e aumentando le differenze fra Nord e Sud del paese. Eppure il Partito democratico si è astenuto nella commissione bicamerale dando via libera alla Lega e ricompattando così la maggioranza. Naturalmente una valutazione più precisa e dettagliata potrà essere data quando saranno note le modalità di funzionamento del fondo di perequazione che sono ancora da definire, ma la logica politica fin qui evidenziata muove nella direzione di una frattura del paese.

A questo punto, tracciati i contorni essenziali del quadro economico nel quale ci troviamo a operare, è possibile azzardare linee di fuoriuscita dalla crisi alternative a quelle dominanti, politicamente ed economicamente perseguibili e realistiche.

Per come stanno andando le cose l’unica possibilità per mantenere unita l’Europa, per implementare il grande disegno di un’Europa quale nuovo soggetto sulla scena politica mondiale, fattore di pace e di giustizia sociale, che anima il Manifesto di Ventotene, per noi indimenticato e indimenticabile, è rimettere in discussione radicalmente i vincoli contenuti nei trattati costitutivi. A fine 2010 la Ue è sì la più grande potenza economica in termini di Pil, ma resta un nano politico e sociale, schiacciato dalla supremazia dell’asse franco-tedesco che ne condizionano le politiche e i comportamenti. Lo si vede nell’economia, ma anche nella politica internazionale, come dimostra la vicenda dell’intervento militare franco-inglese, in questo caso, in Libia e l’assenza della Ue come soggetto politicamente attivo nel Mediterraneo.

Sarebbe sbagliato dare adito alle teorie, che, come abbiamo visto, sono già pratiche di fatto, dell’Europa a due o più velocità o alla spaccatura dell’unità monetaria. E’ invece possibile e necessario che in primo luogo i paesi del Sud dell’Europa, che sono quelli più a rischio di default, assumano un atteggiamento comune volto alla ridefinizione almeno dei parametri e dei vincoli di Maastricht. I limiti del 3% e del 60% non hanno alcun senso, se non quello di corrispondere alla condizione di Germania e Francia al momento della loro fissazione nel 1992. Il loro carattere arbitrario e “domestico” è stato dimostrato proprio dal fatto che quei paesi sono stati i primi a valicare quei vincoli quando ne hanno avuto bisogno. I criteri che uniscono il vecchio continente devono essere altri, primi fra tutti la ricerca dell’incremento dell’occupazione – verso una prospettiva di piena occupazione -, naturalmente non solo nel campo del lavoro dipendente; la convergenza e l’incremento delle retribuzioni, che permetterebbe un aumento della domanda interna, visto che si insiste tanto sul cosiddetto mercato unico interno; la difesa, l’ampliamento e l’universalizzazione del welfare state che non solo soddisfa i nuovi bisogni dei cittadini , ma è storicamente dimostrato essere un formidabile volano per lo sviluppo economico. Che non si tratti di richieste utopiche o impossibili lo dimostrano le stesse decisioni recentemente assunte dal Parlamento europeo in tema di salario minimo garantito, quale forma di contrasto della povertà e di ricerca di un lavoro decente e dignitoso (decent work), che ora si cerca di trasformare in direttiva cogente per gli stati membri attraverso la raccolta di un milione di firme in almeno cinque stati dell’Unione.

Una politica di questo genere non richiede solo il superamento di vincoli alla possibilità di spesa pubblica, ma strumentazioni sovrannazionali e misure efficaci a condurla. Ovvero una effettiva governance economica la cui direzione però sia trasparente, democratica e controllabile dal voto dei cittadini.

In particolare bisogna modificare il ruolo e la mission della Bce. La lotta all’inflazione non può essere la sua preoccupazione fondamentale o unica. Deve invece diventare strumento che facilita il raggiungimento degli obiettivi di cui sopra. Il che richiede la rimessa in discussione dell’assunto, così tipico del pensiero neoliberista, dell’indipendenza assoluta della banca centrale dal potere politico democraticamente eletto. Senza proporre e tantomeno pretendere che i politici si sostituiscano ai banchieri, ma soprattutto per evitare che succeda il contrario come in effetti avviene oggi, l’azione della Bce dovrebbe essere sottoposta a linee di indirizzo , seppure a maglie larghe, espresse dal Parlamento europeo, che si potrebbero materializzare in mozioni vincolanti parlamentari espresse a scadenza annuale, e conseguenti forme di controllo sulla loro attuazione, di indirizzo sulla politica economica e finanziaria.

Questo discorso ci porta per forza di cose e di coerenza interna al tema della profonda riforma democratica degli organi di governo politico dell’Europa, quale il maggiore peso da dare agli organi elettivi rispetto a quelli nominati dai governi – l’esatto contrario di oggi – ma tutto ciò esula dai confini di questo scritto e perciò mi limito a avvertirne la piena consapevolezza.

L’utilizzo della strumentazione finanziaria, per fornire indirizzi anticiclici all’economia, ci trascina direttamente nella discussione sulla questione degli Eurobonds e dei Project Bonds, da tempo aperta in campo europeo, la cui implementazione potrebbe essere positiva ad alcune non piccole condizioni. Si tratta ovviamente di due strumenti assai differenti tra loro. I primi riguardano funzioni e comportamenti dello stesso Esm di cui abbiamo precedentemente parlato e possono costituire un’efficace misura della gestione del debito pubblico, a condizione che il rientro dai prestiti non sia vessatorio delle condizioni dei paesi fruitori, cioè l’esatto contrario di quanto è accaduto con la Grecia e di quanto potrebbe accadere con il Portogallo che infatti resiste ad accettare gli aiuti visto l’alto costo, finanziario e quindi sociale, dei medesimi. I secondi coinvolgono direttamente i privati e sono pensati per realizzare grandi progetti infrastrutturali. Questi sono decisivi per l’Europa, si pensi a una rete unica per l’energia o per l’informazione, ma tutto sta appunto nella scelta degli obiettivi. Un conto sono le reti citate, un conto è qualche aeroporto inutile o il ponte sullo stretto di Messina o un’alta velocità che soddisfa solo i trasporti privilegiati, peggiorando la condizione di chi viaggia per il lavoro quotidiano. Diventano quindi decisivi i criteri e le forme di comando per decidere tali interventi. Non possono certo bastare quelli già indicati in un documento di consultazione che affida alla Bei (la banca europea degli investimenti) semplicemente la valutazione della fattibilità finanziaria dei progetti a prescindere (o addirittura a danno) dalla utilità sociale e dall’impatto ambientale.

A loro volta queste tematiche chiamano in causa gli strumenti di valutazione del debito degli stati sovrani, ma anche dello stato di salute delle società private. Come abbiamo visto le agenzie di rating fanno il bello e il cattivo tempo in questa materia. Il conflitto di interesse implicito nella loro struttura privatistica rende del tutto improbabile che le misure fin qui richieste, peraltro in forma assai blanda, di attuare forme di controllo delle autorità politiche sul loro operato siano sufficienti. Appare necessaria quindi la costituzione di una agenzia di rating pubblica a livello europeo, cui affidare la valutazione delle condizioni finanziarie dei singoli paesi ed anche delle imprese a prevalente capitale pubblico. In questo caso il conflitto di interesse funzionerebbe in modo virtuoso, poiché nessun paese che concorre al finanziamento degli organi da cui dipendono i prestiti avrebbe interesse a valutazioni scorrette.

Naturalmente tutto questo diventerebbe assai più efficace in un quadro di riforma

complessiva del mercato finanziario mondiale. Ovviamente l’affermazione è impegnativa e densa di argomentazioni che qui non possono esser svolte. Ma è chiaro, per le ragioni dette in particolare nella prima parte di questo scritto, che il sistema dei derivati va radicalmente contenuto e rivisto, per tagliare alla radice la possibilità del ricrearsi di bolle a gettito continuo. Le stesse proposte a suo tempo avanzate dal governo tedesco sulla necessità di eliminare le cosiddette vendite allo scoperto dei titoli sono un utile passo sulla strada di una così complessa quanto irrinunciabile riforma, che ovviamente non pretende l’eliminazione della finanza, ma la sottoposizione a forme di controllo e di utilità sociale dei movimenti di capitale, quindi alla lotta a una dimensione puramente speculativa della finanza medesima.

Si può quindi concordare con Luciano Gallino quando afferma che “un primo passo da compiere consisterebbe dunque nel ridurre le dimensioni massime degli enti finanziari, e al tempo stesso nel restringere il perimetro delle attività che essi sono largamente autorizzati a svolgere” e a maggiore ragione concordare con lui quando conclude che una drastica restrizione del sistema finanziario globale è necessaria, per quanto non sarebbe sufficiente “per arrestare il degrado della civiltà-mondo”. Dovremmo qui introdurre altre considerazioni che ci portano al grande tema della trasformazione del modello di sviluppo o, per dirla in termini più radicali, al superamento del capitalismo. Ma è altrettanto chiaro che saremmo ben al di fuori dei limiti che mi sono imposto in queste note.

La questione fiscale sia in ambito europeo che italiano non può essere affrontata solo sul versante della lotta all’evasione e all’elusione. Questi terreni sono ovviamente necessari, sono una precondizione, particolarmente nel nostro paese per i motivi già detti. Come pure a livello internazionale, e dentro la stessa Europa, non dimentichiamolo, vanno eliminati i cosiddetti paradisi fiscali, ovvero tutti luoghi e condizioni di assoluto miglior favore, qualunque sia la forma che assumono, che creano effetti di dumping fiscale. L’enorme evasione fiscale nel nostro paese porta necessariamente con sé un discorso di lotta all’economia e al lavoro sommerso, con tutto quello che comporta sul terreno non tanto delle misure fiscali in senso stretto quanto di riorganizzazione e trasparenza del mercato del lavoro e di regolarizzazione del lavoro dei migranti.

Ma se anche tutto ciò venisse fatto – e, intendiamoci, sarebbe moltissimo e ne siamo molto lontani – non risolverebbe il problema di delineare politiche fiscali per uscire dalla crisi. Questo comporta a livello internazionale e europeo l’introduzione di una tassazione sulle transazioni di capitale (Tobin tax), sia per creare gettito, che potrebbe finanziare fondi per l’intervento in politiche sociali e ambientali, sia per attuare forme di controllo e di deterrenza verso manovre e movimenti puramente speculativi. Anche qui non siamo nell’utopia. Recentemente il parlamento europeo si è espresso favorevolmente su una mozione che auspicava l’introduzione di una minitassa dello 0,05 su ogni transazione finanziaria. Cifra in sé piccola, ma potente se moltiplicata per le transazioni che avvengono ogni giorno.

Il tema della introduzione di una tassa patrimoniale è ormai più che maturo, particolarmente nel nostro paese ove la patrimonializzazione della ricchezza è più elevata che altrove. Ovviamente va fatta su tutte le forme di ricchezza sia mobile che immobile e con le dovute franchigie in modo da non colpire il piccolo risparmio. Si tratta di attuare una misura strutturale e non straordinaria, come invece viene proposto da alcuni (come Eugenio Scalfari, nella forma di un forte prelievo una tantum sui redditi delle classi abbienti, sul modello della tassa per l’Europa del primo governo Prodi). E’ una linea perfettamente alternativa alla scelta che abbiamo già criticato che invece prevede l’abbattimento del debito svendendo il patrimonio pubblico. Si tratta invece di rimettere in moto la ricchezza privata che si è venuta accumulando nei patrimoni, spesso in conseguenza della evasione fiscale, come è certamente nel caso italiano, e di utilizzarla per il bene comune.

Per questa ragione, particolarmente in Italia, una simile misura non deve essere utilizzata per abbassare la pressione fiscale apparente, quanto invece per una più generale riforma del sistema fiscale, che si basi, oltre che su un innalzamento almeno al 20% della tassazione sulle rendite finanziarie, sulla riduzione della tassazione del reddito da lavoro, in primo luogo dipendente e ad esso assimilabile, come i contratti a progetto e a un innalzamento della quota esente per contrastare fenomeni di povertà in crescita in modo allarmante in tutto il contesto europeo.

L’applicazione della normativa assunta a Basilea 3 non può diventare giustificazione per una stretta creditizia. Questa sarebbe micidiale in un paese come il nostro, nel quale la realtà delle piccole e piccolissime imprese è così diffusa. Del resto a livello internazionale e in particolare negli USA si è tornato a discutere della necessità di reintrodurre una separazione effettiva tra banche di deposito ebanche di investimento. Il che permetterebbe di difendere meglio il risparmio dal rischio di avventure e nello stesso tempo faciliterebbe una migliore specializzazione di una parte del sistema bancario nel campo degli investimenti in settori produttivi in particolare quelli di tipo innovativo, ove il rischio imprenditoriale va opportunamente aiutato con l’apertura e la facilitazione del credito. Questo sarebbe un passo concreto nella direzione di una diminuzione della dimensione degli istituti bancari e del perimetro delle loro attività.

Altre misure per impedire l’eccesso di concentrazione, e quindi il vicolo cieco del too big to fail, troppo grande per fallire, che ha funzionato come un ricatto costante del sistema bancario nei confronti del potere politico, possono essere individuate nei limiti da porsi alla concentrazione dei depositi in ciascuna banca.

In sostanza, per riprendere il dibattito internazionale sulla materia, si tratta di mettere in atti misure di riforma che possono rientrare sotto il titolo di narrow banking, che possono cioè ricondurre gli istituti a una “attività bancaria ristretta”. A questo discorso si possono agganciare forme e sperimentazioni di microcredito, che a torto vengono confinate nei paesi emergenti, e che invece sarebbero utilissime anche nelle aree meno sviluppate delle società mature e nei confronti dell’imprenditoria giovanile, creativa e innovativa.

  

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