Print Friendly, PDF & Email

Tra tecnocrazie monetarie e speculazione

Sergio Bruno

L’austerità è un’arma spuntata contro gli attacchi dei predoni della finanza. E la cessione di potere alla Bce non ci salverà. Riflessioni sul da farsi, a partire dalla lunga estate pazza

I parte. La politica in Europa, succube di tecnocrazie e professionisti della speculazione

Mi impensierisce, in questi giorni di follia internazionale, la confusione mentale di molti di quelli che, sulla grande stampa quotidiana, hanno da dire qualcosa su quanto accade e su cosa bisogna fare. Se il problema del governo è quello dell’agire subito e con decisione, non vi è molto da capire. I margini di tempo e di discrezionalità sono talmente ristretti che non resta che fare, ma subito, il meno peggio, e farlo senza credere nelle favole di chi dice che sia possibile praticare nell’immediato politiche che concilino austerità e sviluppo. Una ricetta per lo sviluppo a breve non l’ha nessuno. Ora è come quando si combatte strada per strada in una città che si pensava felice e ben fortificata. Prima bisogna salvarsi. Ma chi non è coinvolto nei combattimenti, chi ha a che fare con il pensare strategico, dovrebbe riflettere sulle origini lontane e sulle sequenze di eventi e decisioni da cui da ultimo è derivata la falla, al fine di costruire, da domani, un futuro più sensato.

Sosterrò, lungo queste linee, che

(a) le politiche di austerità sono non solo inutili per combattere gli attacchi speculativi, ma dannose, nel senso che giocheranno a favore di nuovi attacchi;

(b) l’idea degli eurobonds non ha alcuna rilevanza nel combattere e nel prevenire gli attacchi speculativi. Gli eurobonds vanno invece usati, insieme ad altri strumenti e in un contesto di bilancio federale e di politica industriale europei, per indurre una nuova fase di sviluppo (ma non penso a qualcosa di genericamente “keynesiano”);

(c) esiste una strada maestra per rispondere agli attacchi speculativi, che è quella di fare della Bce un soggetto prestatore di ultima istanza, non solo nei confronti delle banche ma anche degli stati, come con chiarezza e argomentazioni convincenti è stato indicato indipendentemente e in forme leggermente diverse, proprio in questi caotici giorni, da Paul de Grauwe e da Daniel Gros (www.voxeu.org).


Purtroppo siamo assuefatti, in materia, al contesto di luoghi comuni e di proiezioni culturali che la politica internazionale e i suoi echi di stampa ci pongono sotto gli occhi e non riusciamo a prenderne le distanze. Partirei quindi da qualcosa di immediato, che la nostra assuefazione ha condotto a non considerare grave e anomalo e che invece avrebbe dovuto fungere da campanello d’allarme. Sarebbero partite due lettere ai premier d’Italia e Spagna, firmate dal Presidente della Bce ma controfirmate dai governatori delle due rispettive banche centrali nazionali, con la richiesta dettagliata di assunzione di impegni sulla quantità e sulla qualità delle azioni con riflessi di bilancio pubblico. Avrebbe dovuto esservi grande scandalo per un tale evento, quanto meno sul piano della forma e dei particolari soggetti coinvolti. Le prescrizioni assomigliano infatti più alla determinazione delle penalità imposte dal Trattato di Versailles ai paesi che avevano perso la guerra che a rapporti corretti tra stati sovrani, partner di una Unione Europea che ha speso infinito tempo nel tentare di disegnare una costituzione europea, non riuscendovi. Invece scandalo non vi è stato (parziali eccezioni a me note nella stampa italiana sono Roberto Esposito e Barbara Spinelli, su la Repubblica rispettivamente del 12 e del 17 Agosto).

Il punto essenziale è che non si trattava di condizioni poste e definite dai governi europei in una qualche sede istituzionale, bensì dettate direttamente dal presidente della Bce; da una tecnocrazia, cioè, e controfirmate dai vertici di altre tecnocrazie sorelle; vertici – è bene ricordarlo – designati e non eletti, comunque inamovibili. Sarà che i fondamenti del diritto internazionale spesso non sono solidissimi, ma sono sicuro che in nessuno dei paesi europei esistano elementi giuridici di sostegno alla prassi seguita. Non parlo solo della procedura, ma anche della sostanza. Ed è questo che richiede riflessione, che richiede una diagnosi non delle ragioni del comportamento della Bce, ma del fatto che pochi si scandalizzino. La forma, per certi tipi di decisione, ha un rilievo almeno eguale a quello della sostanza.

Potrebbe sembrare che la giustificazione per accettare senza proteste quanto accaduto sia il carattere di necessità e urgenza (come in Italia per i decreti legge) che tale prassi pretendeva di avere; ovvio che quando sembra si stia affogando tutto sembri lecito. Credo tuttavia la ragione sia ben diversa. Ci siamo abituati ad accettare, per tutto ciò che riguarda i problemi economici, la supremazia delle istituzioni monetarie internazionali, dal Fmi alla Bce. Viene cioè dato per scontato che siano esse a prendere tali decisioni, anche quando non rientrano, statutariamente, nei loro poteri. Ed è questo “dare per scontato” che impedisce di vedere a fondo le ulteriori, nascoste e sottili, “anomalie” che si celano al di sotto della superficie.

Ottemperare alla lettera della Bce era condizione per ottenere la sottoscrizione dei nostri titoli del debito in scadenza e il sostegno dei loro corsi (meno male, visti i tempi). Ma ciò che dava alla Bce la facoltà di negare la sottoscrizione era l’art. 101 del Trattato europeo, un articolo sciagurato che le stesse banche centrali avevano voluto e ottenuto in passato per “affrancarsi” dalle pressioni politiche. Questo articolo infatti consente alla Bce di negare la sottoscrizione quando vuole e al contempo di concederla quando vuole per il tramite delle banche ordinarie. E non è forse l’Art. 101 il figlio lontano dei “divorzi” che le banche centrali dei maggiori paesi del mondo avevano voluto e ottenuto nella prima metà degli anni '80 (la cessione del potere statale di signoraggio, cioè il diritto di stampare moneta) e che erano stati poi rafforzati negli anni 1990, almeno in Europa, dal divieto per le banche nazionali di sottoscrivere direttamente titoli emessi dagli stati (cioè la sostanza dell’attuale Art. 101)?

Ci siamo assuefatti, assuefatti al punto che non ci interroghiamo sull’uso che è stato fatto del potere ceduto (ci sarebbe molto da discutere sull’atteggiamento della Bce in merito all’alimentazione delle bolle speculative, ma per i governi europei si è trattato evidentemente di un argomento tabù). Né riflettiamo su una seconda e ben più rilevante cessione di potere, quella a favore della c.d. “fiducia dei mercati”. Dobbiamo fare certe cose (inutile riassumerle) perché questo è quanto “il mercato si attende”. E chi lo dice, su quali fondamenti? A ben vedere si limita a suggerirlo una semplice associazione di idee: l’attacco speculativo e l’interpretazione che Bce e Fmi ne danno. Ma è una associazione spuria, non appena ci si rifletta. Se infatti il mercato fosse, come solo un atteggiamento ideologico o lobbistico può pretendere sia, quella virtuosa forza che deriva dalle interazioni di un’anonima massa di decisori individuali, come farebbero Fmi e Bce a sapere quel che il mercato si attende? Non sarà che il mercato accetta la visione che di ciò che è bene fare hanno Fmi e Bce? Ma allora esso sarebbe di fatto, pur nella sua infinita, anonima, spontanea saggezza, poco di più e di diverso che il braccio armato del “bene”, quale pensato dalle tecnocrazie di Fmi e Bce. Saremmo insomma ad una delle tante varianti delle crociate.

Sono in molti a sapere che le cose non stanno così. I mercati finanziari sono guidati e sfruttati da speculatori professionisti. Essi “lanciano” delle operazioni al ribasso (ma non solo), danno inizio al ribasso vendendo in modo concentrato titoli o divise di cui si sono approvvigionati a ritmi lenti, gli stessi titoli che al contempo vendono anche a termine (cioè con impegno di consegna differita), nella fiducia che il ribasso venga potenziato dalle vendite operate dalla massa di chi, possedendoli, li vende per paura (chiamiamo pure questa massa il “parco buoi”). Da notare un’altra cosa che tutti gli esperti sanno: per operare tali manovre i mezzi propri degli speculatori sono una piccola frazione dei fondi totali che essi mobilitano, in quanto i fondi propri sono moltiplicati, di 10-20 volte o perfino più, da una leva finanziaria notevole assicurata da banche d’affari che in ciò trovano il loro tornaconto.

Il problema degli speculatori è solo l’occasione e il timing del lancio delle operazioni intorno ai quali imperniare le più opportune manovre di manipolazione delle informazioni. In questo entrano, per opportunismo, impudenza o peggio, le agenzie di rating (Krugman in un recente articolo su la Repubblica ha incisivamente argomentato quanto Standard & Poor’s si inaffidabile e perché). Il “mercato” del quale stiamo parlando, cioè, non è certo quello le cui virtù vengono tanto mitizzate, quello dei grandi capitani di impresa, dai Krupp agli Steve Jobs; non è il mercato in cui la borsa serve essenzialmente per acquisire il capitale di rischio e per arbitrare il “vero” valore delle aziende. E non è nemmeno una lotteria governata dal caso.

I problemi che stiamo incontrando oggi, quindi, non stanno nel semplice fatto che esistano le attività speculative appena dette. Sta, certo, nella massa di liquidità che tali speculatori riescono a usare. Ma sta, soprattutto, nella enorme e inflazionata massa di titoli finanziari detenuti in varie divise il cui valore eccede quello della capacità produttiva (quello che ho appena chiamato il “vero valore” delle sole aziende produttive). È infatti tale secondo stock, detenuto dal parco buoi per vari motivi (cautelari, pensionistici, ecc.), quello che consente agli speculatori professionisti di ingigantire a dismisura le variazioni di valore da loro innescate, inducendo i fenomeni di “crisi di fiducia”.

Ciò dischiude un ulteriore duplice terreno di riflessione: la difficoltà di contrastare movimenti di stock con manovre operate su grandezze di flusso (tasse e spese) e come si siano potuti formare degli stock così ingenti, cui si fa spesso riferimento con termini come “paper economy” e “finanziarizzazione” delle economie. È un discorso da sviluppare nella seconda parte dell’articolo.


II parte. Austerità: agire sui flussi è un’arma spuntata contro attacchi che fanno leva sugli stock

Ho ricondotto – a conclusione della prima parte dell’articolo – il successo degli attacchi speculativi alla loro capacità di indurre vendite da parte di quello che ho chiamato il “parco buoi”. I soggetti politici che contano, invece – le tecnocrazie monetarie, il Tea Party negli Usa, i partiti di maggioranza in Germania – le riconducono ad un eccessivo rapporto tra debito pubblico accumulato e Pil e fanno leva, per contrastarlo, su manovre fiscali. Si pretende in tal modo di mettere ordine in qualcosa che ha a che fare con variazioni di valore di stock di ricchezza agendo su grandezze economiche di flusso, quali sono le imposte (normalmente funzione di redditi e valori aggiunti correnti) e le spese pubbliche. Ma i valori degli stock sono un multiplo dei valori dei flussi. Per avere un’idea dello squilibrio tra i due tipi di grandezza si pensi che è un po’ come se il proprietario di una casa il cui valore commerciale in un certo anno è considerato di 200.000 euro ed è affittata a 10.000 euro all’anno, a seguito di una crisi del mercato delle abitazioni che fa scendere il valore della casa del 5%, a 190.000 euro, pretendesse di rifarsi raddoppiando il canone di affitto.

La pretesa dei sostenitori dell’austerità fiscale è in effetti di portata (solo apparentemente) più modesta. L’austerità – dicono – sarebbe la dimostrazione data al mercato della serietà delle intenzioni per il futuro. Piuttosto fragile, come argomento! Per quali buone ragioni il fantomatico mercato, di cui nella prima parte dell’articolo ho descritto le vere fattezze, dovrebbe considerare “sufficiente” un qualsiasi livello di austerità sui flussi e non un altro? Tanto più che, se le considerazioni che ho già sviluppato sulla reale natura del mercato sono corrette (e francamente non temo smentite) gli speculatori sono pronti a scatenare una nuova offensiva non appena vi siano notizie tali da far riprendere le vendite di titoli da parte del parco buoi. Ed è inevitabile che tali notizie emergano.

Infatti le grandezze di flusso – reddito e prodotto nazionale – e gli indicatori ad essi connessi – di occupazione, di crescita – non sono indipendenti da tasse e spese pubbliche. L’austerità non può che avere effetti depressivi su tutte le grandezze di flusso; in altri termini non può che indurre tendenze recessive, creando in tal modo le premesse di nuovi e diversi attacchi speculativi, sia perché qualsiasi indicatore collegato alla recessione – disoccupazione, produttività, competitività – può essere usato dagli speculatori professionali come un segnale da sfruttare per lanciare nuovi attacchi, sia perché, in ogni caso, il rapporto tra debito pubblico accumulato e Pil non migliorerebbe di molto e potrebbe addirittura peggiorare. Se davvero si volesse – e sarebbe oltremodo opportuno – far diminuire l’importanza relativa del debito accumulato, l’unica via sarebbe quella di indurre maggiore sviluppo delle grandezze di flusso: produzione, investimenti produttivi, trainati da consumi interni e da esportazioni. Ma questo è uno scenario che viene escluso dal fatto che tutti i paesi, anche quelli che non dovrebbero, guidati da feticci e da profonde incomprensioni di ciò che sta succedendo, si stanno avventurando sulla strada dell’austerità.

Lascio in sospeso per un momento la questione di quali possano essere le alternative. Voglio prima chiarire – perché fornisce utili elementi diagnostici e terapeutici ancor oggi – la posizione sostenuta da Keynes a Bretton Woods nel 1944; una posizione che venne sconfitta allora dalla delegazione statunitense e che è stata riabilitata solo di recente e – devo dire – del tutto inutilmente dal Governatore della Banca centrale cinese (Zhou Xiaochuan nel 2009), nonché da un rapporto dello stesso Fmi (rapporto nel 2010 dello Strategy, Policy and Review Department).

A Keynes non stava solo a cuore che la liquidità internazionale venisse assicurata da una banca mondiale che emettesse moneta di riserva (il Bancor) il cui scopo era quello di bilanciare transitoriamente gli squilibri del commercio internazionale, ma il fatto che a seguito di squilibri i paesi in attivo fossero costretti in breve tempo ad aumentare i loro consumi e le loro importazioni da parte dei paesi in deficit. Questo obbligo avrebbe dovuto fare da contraltare ad interventi restrittivi mirati nei confronti dei paesi in difficoltà. Il fallimento di Bretton Woods con l’abbandono della convertibilità del dollaro (1971) ha dato ragione a Keynes sulla impossibilità di usare una moneta nazionale quale il dollaro Usa come moneta di riserva. Ora è il momento di dargli ragione anche sull’esigenza di obbligare i paesi forti a praticare politiche espansive, sia pure con opportune qualificazioni in materia di politiche per lo sviluppo, nonché per chiarire ulteriori virtù che avrebbe potuto avere il Bancor. Vediamo meglio.

Sotto l’ipotesi che la creazione di moneta per accompagnare la crescita nei singoli paesi fosse affidata ai rispettivi governi e subalternamente ad essi alle singole banche centrali (l’intangibilità del diritto statale di signoraggio era a quei tempi fuori questione), il ruolo del Bancor sarebbe stato quello di sanare squilibri negli interscambi tra paesi, squilibri resi transitori proprio dalla doppia lama di forbice costituita dagli obblighi imposti sia ai paesi in avanzo che a quelli in disavanzo. Di conseguenza per un verso non era pensabile una crescita fuori controllo della moneta di riserva, per un altro il Bancor appariva una istituzione capace, per i paesi partecipanti, di associare principi di responsabilità ad elementi di garanzia e affidabilità idonei a rassicurare i mercati ed evitare attacchi speculativi. Prevalse (per ovvie ragioni di equilibrio politico internazionale) la proposta di usare il dollaro statunitense come moneta di riserva. A lungo andare tuttavia sarebbero emerse delle contraddizioni tra la politica monetaria nazionale, rivolta agli obbiettivi interni, e la politica monetaria globale, come posto in evidenza da Robert Triffin fin dal 1960. Ma c’è di più.

Una rilevante quota dei dollari emessi per finanziare il commercio internazionale e/o le importazioni degli Usa prima, successivamente anche una quota rilevante di altre divise accettate quale mezzo di pagamento internazionale, usate, anche in questo caso, per finanziare il commercio internazionale e/o le importazioni dei paesi emittenti, anziché andare ad alimentare una maggiore domanda di merci (tendenzialmente equilibrando in espansione, tra i diversi paesi, i flussi di merci e di servizi prodotti), è stata “risparmiata” e tenuta sotto forma di stock di ricchezza relativamente liquidi. Ciò che da un lato ha contribuito (all’inizio solo virtualmente, come dirò) a rallentare i ritmi di crescita delle economie inizialmente più progredite, dall’altro è andata a costituire il nucleo forte degli stock di liquidità ora usati a fini speculativi.

A mio avviso, poi, tali fenomeni sono stati rafforzati, in una buona parte dei paesi ad eccezione degli Usa, da una tendenza ad una formazione di risparmio monetario in eccesso rispetto a quanto usato per finanziare gli investimenti (in relativo declino) per crescita ed innovazione. Tali saldi monetari attivi hanno trovato sbocco (nella ricerca di diversificazione per motivi precauzionali) in una lievitazione degli impieghi finanziari e in altre forme di inflazione degli assetti di ricchezza. Le implicazioni di per sé recessive determinate dall’eccesso relativo di risparmio sono state parzialmente compensate per un rilevante periodo di tempo da spese pubbliche in disavanzo. Se questo ha fatto bene all’economia reale, ha tuttavia aggravato il problema dal punto di vista dell’accumularsi dei saldi monetari attivi nelle mani delle famiglie. Tali saldi monetari sono andati comprando, anche con l’aiuto delle banche, titoli e altri assetti di ricchezza non connessi all’espansione della capacità produttiva (titoli finanziari, case esistenti, terreni, opzioni su materie prime, ecc.), inducendone quegli aumenti di valore che hanno creato e alimentato l’espansione della c.d. “paper economy”. Di quella ricchezza, cioè, la cui abnorme inflazione ha già determinato in passato distorsioni nella distribuzione del reddito e probabilmente ha contribuito al rallentamento degli investimenti produttivi, e che oggi costituisce il combustibile che propaga l’incendio innescato dagli speculatori professionali. Sono infatti le crisi di ansia dei possessori di questi stock di ricchezza (il parco buoi) che, in assenza di politiche di garanzia autorevoli e credibili, moltiplicano gli effetti delle manovre speculative e le premiano.

Ciò rende evidente che il problema non è quello di imbrigliare gli speculatori – compito a dir poco arduo se non addirittura impossibile per il momento – bensì quello di togliere loro il moltiplicatore, rassicurando il parco buoi. Ma esiste un solo modo per far ciò: dare una garanzia immediata e totale nei confronti di possibili annunciati fallimenti, ciò che possono fare solo le banche centrali. A manovre che fanno leva su variazioni dei valori degli stock si risponde rendendo chiaro, con gli annunci e con i fatti, che le vendite saranno fronteggiate da acquisti, senza limiti, sostenuti da adeguamenti degli stock di moneta; e se si risponde, subito e con decisione, dando prova di forza, non succede niente o succede poco. La rassicurazione completa e pronta evita di dover comprare (creando moneta) perché poche saranno le vendite. L’unico soggetto che ha una tale potenza di fuoco è in Europa la Bce, come ha messo lucidamente in evidenza Paul de Grauwe recentemente (18 agosto, “The European Central Bank as a lender of last resort”, www.voxeu.org).

Rispondendo invece, come purtroppo si sta facendo, solo con garanzie parziali, centellinate nel tempo, rese incerte da conflitti tra presunte cicale e ottuse formiche, da invidie e competizioni tra stati, con promesse di politiche “virtuose” esercitate sui flussi, che sono sempre a rischio di grandi tensioni sociali e di backlash recessivi (e quindi di nuovi attacchi speculativi), si premia la speculazione, si fanno inutilmente soffrire i popoli, si mina la coesione internazionale.

La Bce – fa notare de Grauwe – non ha esitato a sostenere le banche nel 2008 quando esse rischiavano un fallimento a catena. Eppure ha esitato ed esita ad intervenire sui rischi dei debiti pubblici, sebbene questi ammontino nell’Eurozona all’80% del corrispondente Pil, mentre l’indebitamento complessivo (le liabilities) delle banche fosse ben il 250% del Pil. I rischi di fallimento a catena, in assenza di un prestatore di ultima istanza, sono esattamente gli stessi per i debiti bancari e per i tioli pubblici e sollevano gli stessi problemi. Di qui la sua proposta, che la Bce funga da prestatore di ultima istanza anche per i debiti pubblici. Una proposta, del resto, non dissimile da quella di Daniel Gros (“August 2011: The euro crisis reaches the core”, 11 agosto, www.voxeu.org), che propone di trasformare lo European Financial Stability Fund (Efsf) in una banca, rispetto alla quale la Bce dovrebbe agire come prestatore di ultima istanza. Entrambi sostengono il carattere dilatorio e alla fine fallimentare di soluzioni diverse. Concordo pienamente, anche per ragioni ulteriori che chiarirò qui di seguito.

 

III parte. I feticci, popolari e non, su debito pubblico e moneta

Ho detto, in precedenti articoli, che gli attacchi speculativi non si combattono con l’austerità fiscale ma con una appropriata politica della Bce, che l’austerità è controproducente e ci espone a nuovi attacchi speculativi, che gli eurobonds servono ma per avviare una politica di sviluppo europeo. Per comprendere quest’ultimo punto occorre prima fare un bagno purificatore, smontando le molte false credenze in materia di bilancio, di debito pubblico e di creazione di moneta. Su queste false credenze fanno infatti leva gli attacchi speculativi; questo il tema dell’articolo.

Il problema dei titoli di debito pubblico è oggi forte soprattutto a causa della internazionalizzazione del loro possesso. Al di fuori di casi limite non si tratta di un problema economico. Gli attacchi speculativi sfruttano atteggiamenti antropologico-culturali spontanei e diffusi e atteggiamenti politici basati su cattive analisi, ispirate da cattive ideologie.

Riassumo prima, in pillole, quanto la comunità degli economisti, con qualche rara eccezione, ha pensato e insegnato, riferendosi al debito interno e sotto l’ipotesi che il debito interno non dovesse mai essere restituito, a partire dai tempi di Ricardo fino agli anni '80, quando le ideologie neoliberali e la logica in base alla quale il metro del mercato valesse come verità universale ha cominciato a prevalere in ogni possibile sede e per qualsiasi tipo di problema:

(1) finché i titoli del debito sono posseduti da persone dello stesso stato che paga gli interessi, il cittadino “medio” di quello stato è detentore dello stesso ammontare di debiti e di crediti. Problemi possono sorgere solo per il fatto che sono diversi i crediti e i debiti dei singoli cittadini e quindi per il modo con il quale sono distribuiti il reddito, la ricchezza e i carichi fiscali. Ciò può indurre forti conflittualità sociali e far emergere difficoltà politiche nel gestire un bilancio reso rigido dal fatto che la pressione fiscale lorda supera quella al netto degli interessi.

(2) Quanto a come si troveranno le generazioni future, considerate in aggregato, la loro condizione non dipenderà dal fatto che i loro genitori abbiano in passato finanziato certe azioni pubbliche con l’emissione di debito ovvero con le imposte. Dipenderà invece e solamente dalla qualità e dall’esito delle stesse azioni pubbliche. Quelle azioni, infatti, avranno potuto solo usare cose e mobilizzare risorse reali esistenti al momento delle azioni (si pensi a una guerra, vinta o persa, ma che comunque non può che usare i mezzi che esistono al momento in cui la guerra è fatta, indipendentemente da come le relative spese sono state finanziate).

(3) Il problema del rapporto debito/Pil riguarda sia il numeratore che il denominatore; quest’ultimo non è indipendente dal primo e ogni sforzo fatto per ridurre il debito agisce deprimendo il secondo; di quanto è da vedere.

Per spiegare meglio tutto ciò si faceva riferimento a titoli detti “irredimibili”, che promettevano cioè una somma fissa perpetua come pagamento di interessi, al contrario di quanto si considera per altri prestiti (si pensi a un mutuo per la casa, che prevede interessi e un piano di restituzione). Un titolo del genere, sempre commerciabile, ha un valore corrente pari al rapporto tra la somma promessa in perpetuo e il tasso di interesse, un valore che aumenta o diminuisce a seconda che il tasso di interesse corrente diminuisca o cresca. Per gli individui la restituzione è sempre possibile, al di fuori di casi estremi, vendendo il titolo; i rischi, normali, dipendono solo dalle variazioni possibili del tasso di interesse successivamente all’emissione. Nel caso di titoli con scadenze esiste il rischio, in linea di massima contenuto e controllabile, che l’emissione di nuovi titoli sostitutivi debba aver luogo a tassi di interesse più elevati, ed è proprio in relazione a ciò che vi sono stati dissensi marginali sul fatto che il debito potesse danneggiare le generazioni future; infatti si è avanzato il dubbio che tali emissioni potessero far diminuire gli investimenti produttivi. Questa possibilità fa sorridere oggi, quando è chiaro che ormai i rischi di “spiazzamento” degli investimenti produttivi sono dovuti semmai a tutte le opzioni di impiego finanziario più redditizie aperte dalla “paper economy”. Questione distributiva a parte, per il sistema nel suo complesso vale sempre il ragionamento che interessi pagati e tasse per pagarli sono passaggi di danaro da una tasca all’altra dello stesso vestito.

Il possesso di titoli del debito pubblico di un paese da parte di soggetti di altri paesi rende più complesso questo quadro, ma non lo altera se non in casi limite. Per semplicità continuo dapprima a riferirmi a titoli irredimibili. Se riguardiamo il problema in termini reali i soggetti stranieri detentori dei titoli hanno diritto a ottenere annualmente merci e servizi di valore pari agli interessi. Si ha cioè un caso molto simile a quello di un paese condannato a pagare debiti di guerra. Se invece lo riguardiamo più in termini monetari e dal punto di vista delle politiche fiscali, il caso ricorda ciò che dovettero fare i paesi importatori di petrolio ai tempi dei primi shock petroliferi. Si trattava di usare la fiscalità per comprimere la domanda interna di merci di quanto era necessario per “fare spazio” alla produzione destinata ad alimentare maggiori esportazioni. Su questa base logica facciamo un po’ di conti.

Supponiamo che i titoli pubblici collocati all’estero di un paese siano pari alla metà del suo Pil (grosso modo il caso italiano) e che il tasso di interesse medio a essi associato sia dell’ordine del 4%. Ciò implica trasferire all’estero senza contropartite in merci il 2% del suo Pil. Qualcuno pensa che un tale onere, per i maggiori paesi europei coinvolti dagli attacchi speculativi, non sia sostenibile al punto di “rischiare fallimento”? Si tratta di oneri dello stesso ordine di grandezza di una qualsiasi recessione e probabilmente più contenuti di quelli imposti dall’austerità fiscale. Spiacevole, certo, ma non insopportabile. Se si parte da queste consapevolezze è difficile spiegare come l’attacco speculativo basato sull’idea di possibili fallimenti dei “debiti sovrani” possa avere avuto successo se non ammettendo che chi scatena gli attacchi speculativi faccia affidamento sulle reazioni sbagliate dei soggetti di policy e sul panico del parco buoi; sbagliate perché, anziché fare affidamento sui ragionamenti sensati e consolidati che ho fin qui richiamato, si basano su luoghi comuni ampiamente diffusi e ingigantiti dai mezzi di comunicazione. Giocando su false credenze ampiamente condivise e autorevolmente sostenute che generano determinate aspettative capita infatti di poter innescare dei veri e propri giochi che autorealizzano le aspettative, anche se esse sono fondate su false premesse.

Così la “vox” che singoli paesi europei potessero “fallire” ha condotto dapprima a un aumento degli interessi richiesti sui rinnovi dei titoli in scadenza, inducendo di per sé rischi di insolvenza (pura insania: è come se un creditore provocasse l’insolvenza del debitore). Successivamente, forse intuendo tale insania, si è passati a condizionare inutili salvataggi ad azioni estreme di austerità fiscale. Ma anche queste politiche sono controproducenti. Esse infatti faranno presumibilmente diminuire il Pil e il gettito fiscale a meno di aumenti della pressione fiscale specifica, ma tali aumenti fanno diminuire fiducia a incentivi a investire, ecc., sicché il risultato ultimo potrebbe essere addirittura un aumento del rapporto debito/Pil e questo, insieme agli indicatori di recessione, indurrebbe nuovi attacchi speculativi. Come ho spiegato in un precedente articolo l’unica via era quella di stroncare subito gli attacchi speculativi facendo comportare la Bce come prestatore di ultima istanza (in questo senso si è pronunciato anche Stefano Micossi, “Eurozone crisis: are we losing the patient?”, del 18 agosto, www.voxeu.org).

Questa via è stata finora esclusa nella convinzione che essa, implicando creazione di moneta, avrebbe inevitabilmente alimentato inflazione. E anche qui si tratta di false credenze ampiamente diffuse – come quelle sui mali del debito pubblico – sulle quali fanno affidamento gli speculatori professionali (tanto è vero che essi hanno “preso un bagno”, secondo quanto riferisce Krugman nel Cap.6 del suo best seller The Return of Depression Economics and the Crisis of 2008, quando la speculazione nel 1998 attaccò Hong Kong e le sue autorità monetarie, inaspettatamente e superando i luoghi comuni, usarono ogni mezzo per fronteggiare le vendite speculative). E anche questo feticcio è da smontare, con il ragionamento e con l’esperienza.

Se è vero che l’inflazione, intesa come un continuo aumento dei prezzi dei flussi di produzione annua, presuppone una creazione eccessiva di moneta, non è necessariamente vero il contrario. Cosa succede dipende dalle destinazioni della moneta e dalle circostanze ambientali in cui viene creata, esattamente come gli effetti del debito pubblico dipendono dalle azioni specifiche che con il debito vengono finanziate. E nel caso della creazione di moneta sono i fatti a parlare prima ancora dei ragionamenti. Ho già ricordato come nel 2008 la Bce non ha esitato a creare moneta per evitare una crisi a catena delle banche, senza che da ciò sia derivata inflazione. C’è di più. Per tutto il primo decennio degli anni Duemila la Bce ha fatto crescere la disponibilità di moneta (M3) in misura maggiore della somma tra tasso di sviluppo e tasso di inflazione – un comportamento che violava i suoi stessi target ufficiali e che avrebbe dovuto di per sé far aumentare l’inflazione. Ed invece l’inflazione è rimasta stabile e l’esagerata creazione di moneta ha alimentato la paper economy, in particolare la bolla speculativa che ha riguardato gli stock di ricchezza, senza benefici per la produzione reale. Oggi le banche sono gonfie di danaro ma il credito alle attività produttive langue. Siamo dunque in presenza di fenomeni molto più complessi di quelli suggeriti dal luogo comune che lega moneta e inflazione.

Le questioni riguardanti il debito pubblico sono sottilmente intrecciate con quelle che hanno a che fare con la creazione di moneta, mentre a loro volta debito e moneta hanno a che fare con le vicende della parte reale delle economie – produzione, consumi, prezzi- e, anche per il tramite delle banche e della finanza, con la quantità, la tipologia e la qualità degli investimenti reali, nonché con gli impieghi dei risparmi monetari in assetti di ricchezza e con i valori di questi. Proverò a spiegare come e perché.

 

IV parte. Le condizioni per avviare un processo di sviluppo europeo

Ho posto in evidenza fatti che falsificano il luogo comune che la creazione di moneta induca necessariamente inflazione nei prezzi dei flussi di beni e servizi. Dipende dalle circostanze, dai modi, dai fini. Occorre allora di volta in volta ragionare. Vorrei soffermarmi su tre temi: (a) le connessioni tra deficit, moneta e inflazione, (b) quelle tra espansione e avvio di un nuovo processo di sviluppo e (c) le difficoltà per l’Europa – tutte politiche – di avviare tale processo.

(a) La “verità ufficiale” è che la moneta sia immessa nell’economia dalla banca centrale comprando titoli (per lo più) pubblici; il pagamento in moneta di questi indurrebbe una maggiore circolazione di moneta nell’economia. Tuttavia, non appena ci si ponga in una prospettiva storica di più lungo periodo, appare chiaro che la vendita di titoli pubblici presuppone che questi siano stati emessi in qualche passato e, in quel passato, debbono aver tolto moneta dalla circolazione. Quindi, ferma restando la capacità di tali operazioni di controllare il tasso di interesse, è evidente che devono esservi ulteriori meccanismi di creazione di moneta. Uno di questi è costituito dal sistema bancario, che la crea su basi fiduciarie. Un altro è la stampa di moneta per finanziare la domanda pubblica quando questa eccede le entrate, senza vendita di titoli al pubblico (deficit direttamente monetizzato). I teorici del circuito monetario (mi limito a citare Augusto Graziani e Marcello Messori) hanno evidenziato l’insufficienza della creazione di moneta attraverso il credito. Di conseguenza un qualche grado di deficit monetizzato deve esserci, quanto meno nel lungo periodo.

Fino ai primi anni '80 il deficit monetizzato dava luogo ad una partita di giro tra stato e banca centrale (indipendentemente dagli aspetti formali). Dopo i “divorzi” lo stato doveva comunque emettere titoli, gonfiando probabilmente l’entità del debito visibile e lasciando alla banca centrale il potere di decidere l’entità della sottoscrizione diretta. Successivamente in Europa, fin da prima dell’istituzione dell’euro, si è stabilito il divieto per le banche centrali di sottoscrivere in via diretta i titoli emessi; un divieto consolidato con l’attuale art. 101 del Trattato. È l’art.101 che è dunque divenuto oggi, politicamente, l’elemento di discriminazione tra chi, con De Grawui, Gros, Micossi (e probabilmente tanti altri me compreso) sostiene che la Bce debba fungere da prestatore di ultima istanza anche per i governi al fine di stroncare gli attacchi speculativi, e i vari Merkel, Sarkozy, Fmi, Finlandia, ecc., che, per sviamento ideologico e prima ancora per effetto di una seria abdicazione culturale, vedono solo la strada dell’austerità fiscale. Si tratta di una profonda distorsione, che ha esasperato i rischi di attacchi speculativi. La Bce infatti in questi anni ha prestato moneta alle banche a tassi di interesse esigui e ha fatto sottoscrivere da esse i titoli dei debiti nazionali, con il risultato che esse si sono gonfiate di titoli senza alcuna attenzione ai rischi.

(b) Solo la moneta che è o si trasforma in domanda di beni è potenzialmente in grado di stimolare la produzione e al contempo di assorbirla. Ciò fa di una maggiore domanda e delle aspettative di maggiore domanda futura la condizione necessaria, ancorché non sufficiente, per espandere la produzione in presenza di disoccupazione e capacità produttiva eccedente. Queste cose non corrispondono solo all’essenza del pensiero keynesiano, ma sono ben radicate nella consapevolezza di chiunque si dedichi ad attività produttive. Non si tratta ancora di sviluppo – che è una tendenza di produzione e domanda a crescere nel tempo – ma è già qualcosa e comunque costituisce una premessa (ancorché non sufficiente) perché si avvii un processo di sviluppo. Si fa allora fatica a comprendere come si possa avviare lo sviluppo a partire dall’austerità, a meno di non dare credito alla capacità delle “riforme strutturali” indicate dai vari soloni delle tecnocrazie internazionali (a partire dall'Fmi): flessibilità dei salari e del lavoro, privatizzazioni, equilibrio pensionistico, riduzione della spesa pubblica in campo sanitario e sociale, ecc. Ma la catena causale per cui tali riforme sarebbero in grado di avviare sviluppo non è mai compiutamente esplicitata, lasciando solo intravvedere (e nulla più) che da tutto ciò deriverebbero guadagni di competitività, dai quali poi (chissà quando e chissà come) deriverebbe lo sviluppo.

Un tale atteggiamento cancella, con un sol colpo, secoli di storia, migliaia di pagine di buona ricerca economica, le consapevolezza di centinaia di milioni di produttori e commercianti. Abba Lerner, l’insuperato interprete delle implicazioni di policy del pensiero di Keynes, considerava debito e moneta, “cose” dello stato e suoi strumenti; “cose” in quanto legate alla sovranità dello stato e non cedibili, “strumenti” perché non dovevano essere gestiti secondo principi astratti (come ad esempio il pareggio di bilancio), ma funzionalmente agli obbiettivi pubblici, allo stato contingente delle economie e soprattutto alla luce del principio che attivare risorse inutilizzate per produrre più beni e servizi è qualcosa che non impone costi reali sulla collettività, perché si produce di più senza rinunciare a niente. Se la sfera politica non riesce a capire questo principio – che è il cardine della logica moderna dell’ottimizzazione – vuol dire che i politici si ispirano ancora a canoni metafisici; se lo capiscono ma non riescono a praticarlo è segno che hanno perso il controllo del sistema che gli elettori hanno loro attribuito come compito e/o che hanno consentito che l’organizzazione del sistema sia divenuta incontrollabile.

Predicare una ripresa delle idee di Keynes-Lerner è opportuno – visto che siamo in recessione – ma non sufficiente, come invece ritiene la maggior parte dei commentatori di sinistra. Quelle chiavi di lettura, infatti, non affrontano i problemi di ripresa dello sviluppo. Ciò va detto con chiarezza.

(c) Rossanda si è chiesta se fondare l’Europa cominciando dalla moneta unica sperando che il resto avrebbe seguito non sia stata una fondamentale miopia. Pianta ha ricostruito nel dettaglio ciò che è accaduto, concludendo con cinque condivisibili proposte. Le questioni da essi evocate mi ricordano un articolo che ho scritto quasi vent’anni fa (il cui titolo era, non a caso, “The dangers of EMU”). “L’unione monetaria per farci che?” – mi domandavo – visto che non si parlava né di un bilancio federale né di un centro di responsabilità per le politiche di parte reale. Per chiarire il mio punto di vista propongo ora un esercizio di “storia virtuale”. Per un momento prescindiamo dal piano politico e supponiamo che gli attacchi speculativi vi siano stati ma che, come per incanto, siano cessati. Guardiamo allo stato dell’economia reale e supponiamo che, per un incantesimo ancor maggiore, l’Europa unita abbia un sistema istituzionale di governance dell’economia simile a quello che avevano, fino al 1980, i paesi allora membri della Comunità europea.

Sostengo che, in un tale mondo virtuale, esisterebbero oggi, paradossalmente, condizioni migliori di quelle degli anni '90 (gli anni in cui è decollato il processo che avrebbe portato all’euro) per avviare l’Europa verso una accelerazione della crescita; condizioni che, in un qualche senso, ricordano quelle di molti paesi industrializzati alla vigilia della Seconda Guerra mondiale. Esiste infatti, a seguito della recessione indotta dalle ripercussioni degli attacchi speculativi, capacità inutilizzata e disoccupazione. Ciò apre spazi per una politica della domanda che ha margini per stimolare una ripresa della produzione per qualche tempo senza essere eccessivamente inflattiva. Per legare tuttavia queste opzioni non ad un mero aggiustamento una tantum dei livelli di produzione bensì a una progressiva accelerazione della crescita, il ciclo da avviare deve far perno su quell’insieme di attività di investimento che tante indagini serie hanno mostrato essere correlate, non singolarmente bensì complessivamente e probabilisticamente, con lo sviluppo di ambienti innovativi, capaci di generare nuovi prodotti e nuovi processi (sostanzialmente sequenze che legano ricerca fondamentale, applicata, e istruzione superiore alle attività industriali). La crescita di competitività in Europa non può essere infatti affidata allo sfacelo della risorsa umana conseguente allo smantellamento delle politiche sociali, bensì alla produzione di beni di maggior valore.

Dopo un prolungato periodo di relativa stagnazione, seguito da una recessione, un ciclo espansivo innescato da tali investimenti (qualcosa di ben diverso dalle solite “grandi opere pubbliche”) anziché da spontanee aspettative di ripresa della domanda, non può essere affidato al mercato, ancorché si possa ampiamente usare ed attivare il mercato. Quel che occorre è un programma europeo credibile, concertato con imprese e parti sociali, l’adesione al quale da parte delle imprese che si conformano al programma sia incentivata, agevolata sul piano del finanziamento e in varia misura “protetta”, soprattutto per le imprese che per prime, rischiando (ma non troppo), aderiscono. Nel valutare tale opzione occorre tenere presente che le spese per investimento avrebbero comunque effetti indiretti positivi sui consumi, ancorché all’inizio relativamente contenuti, che tenderebbero a saturare gradualmente ma affidabilmente la “vecchia” capacità eccedente e a cooperare al riassorbimento della disoccupazione. Le politiche di bilancio europee – in parte finanziate con gli eurobonds ed in parte con finanziamenti in deficit direttamente monetizzati da una non autonoma Bce – dovrebbero dare forza e credibilità al programma, insieme a politiche industriali e commerciali europee di portata paragonabile a quelle degli altri grandi poli competitivi planetari. Fin qui la storia virtuale.

Mancano invece, purtroppo, le condizioni politiche. Esse sono tante, ma concordo con Susan George su quella più essenziale: “La Bce è l’ostacolo al successo, non l’euro di per sé ... C’è bisogno di un nuovo statuto con una Bce molto più simile alla Fed statunitense”. Le ragioni sono accennate, ma palesemente il suo riferimento è alle cessioni di potere statuale alle banche centrali (e ad altre tecnocrazie) cui ho fatto in questi articoli vari riferimenti, nonché agli usi a dir poco stravaganti che del potere ceduto è stato fatto. A monte, in ogni caso, vi è il problema – irrisolto – delle ragioni culturali e ideologiche che stanno dietro a questa fuga dai principi della sovranità politica. E quanto la fuga sia grave e al contempo palese è stigmatizzato così: “Ora la Commissione europea vuole esaminare i bilanci dei singoli paesi membri prima che i rispettivi parlamenti li votino per essere sicura che essi rispettino dati standard. E questo è un attacco sfacciatamente evidente (blatant) alla democrazia”.

 

Add comment

Submit