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Una crisi del capitalismo*

di Riccardo Bellofiore

I. Un premier da ridere, un paese da compatire?

 Marx ha scritto che la storia si ripete prima come tragedia e poi come farsa. Chi fosse curioso di come potrebbe ripetersi la terza volta, non ha che da guardare all’Italia: un paese dove l’opposizione più dura contro il governo viene - letteralmente – da comici (come Antonio Albanese o i due Guzzanti) o da vignettisti (come Altan o Bucchi). Negli ultimi tempi la realtà è stata però più inventiva della stessa satira. Questa patetica situazione ha d’altra parte distorto la maggior parte delle analisi della situazione economica e politica del paese: come se il problema vero dell’Italia fosse solo il suo primo ministro, distratto da sesso e processi.

L’Italia è nell’occhio del ciclone da quest’estate. Ma per capire la vera natura della crisi italiana è necessario osservarla nel contesto più ampio della crisi europea. Entrambe, ci viene detto, fanno parte di una più vasta crisi del debito sovrano. Ma le cose non stanno proprio così.


II. Dalla crisi europea alla crisi italiana

I limiti della zona euro sono ben noti. Anzitutto abbiamo una ‘moneta unica’ non sostenuta da una corrispondente sovranità politica: una moneta che non è una moneta. Quindi, c’è una Banca Centrale Europea che non agisce come prestatore di ultima istanza, e che non finanzia l’indebitamento dei governi: una banca centrale che si rifiuta di fare quello per cui le banche centrali sono nate.

Infine, siamo privi di un bilancio pubblico europeo degno di questo nome: un bilancio europeo dell’1% quando sarebbe necessario (almeno) il 10%. Gli errori della BCE, il suo ossessivo atteggiamento anti-inflazionistico e la sua propensione ad alzare il tasso di interesse al minimo cenno di aumento dei prezzi, quale che ne sia la causa, sono anch’essi sotto gli occhi di tutti: benché le si debba riconoscere un certo pragmatismo nel mezzo delle varie crisi dell’ultimo decennio. Il sogno neo-mercantilistico tedesco di fare profitti grazie ai disavanzi di conto corrente dell’Europa del Sud, imponendole però il vincolo del pareggio nel bilancio pubblico, beh quello appartiene più alla psichiatria che all’economia.

Detto questo, deve essere chiaro che: 1) la crisi europea non è una crisi endogena; 2) la crisi del debito sovrano non è davvero una crisi del debito pubblico; 3) la crisi italiana di questa estate è largamente importata.  Il neo-mercantilismo tedesco ha indotto da decenni una profonda stagnazione economica in tutta l’Europa, che è potuta sopravvivere solo grazie alle esportazioni trainate, in ultima istanza, dalla domanda degli Stati Uniti. Quando il nuovo capitalismo made in USA, il keynesismo privatizzato (una perversa miscela fatta di fondi istituzionali come i fondi pensione, che producevano l’aumento dei prezzi delle attività-capitale, che a sua volta consentiva l’indebitamento crescente dei consumatori: un modello esportato dagli Stati Uniti e dal Regno Unito anche a Spagna ed Irlanda) alla fine è esploso, l’area dell’euro è implosa. Non ci voleva molto ad aspettarselo.

Quello che in superficie appare come crisi del debito sovrano è in realtà una crisi del debito privato sotto mentite spoglie. I disavanzi pubblici non sono stati indebitamenti buoni: voluti e pianificati per produrre valori d’uso a favore della collettività, che ‘rientreranno’ grazie allo sviluppo qualitativo che determinano. Sono stati indebitamenti cattivi: indotti automaticamente dalla stagnazione nell’economia, e ultimamente dalla volontà di salvare la finanza ad ogni costo. In ogni caso, in un’area caratterizzata da sovranità monetaria, il default non dovrebbe essere neppure immaginabile, e certo non ve ne è necessità “tecnica” alcuna. Tutto infatti dipende dalla mancanza di volontà “politica” di rifinanziare il debito pubblico prima della Grecia, poi dell’Irlanda, infine del Portogallo. A differenza dell’Argentina, erano tutti debiti in moneta “interna”. Va ricordato che la quota del debito pubblico di questi paesi in rapporto al PIL per l’intera area euro è irrisoria. Una eventuale e tempestiva cancellazione del debito avrebbe evitato all’insieme dell’economia europea il travaglio successivo.

Ma dopo Grecia, Irlanda e Portogallo, non poteva essere che la volta della Spagna (a causa del rapido aumento del flusso del suo debito pubblico, cioè del balzo in alto del suo disavanzo statale rispetto al PIL, determinato dallo sgonfiamento della sua bolla immobiliare e dunque dal crollo del suo PIL). E la Spagna, per le dimensioni della sua economia, del rapporto debito pubblico/PIL, è già un problema un po’ più serio delle altre componenti dei PIGS. Ma quando la crisi tocca l’Italia – la I dei PIGS che si pensava fosse stata sostituita dall’Irlanda – le cose cambiano, alla radice. La crisi, in fondo, è arrivata perche i “mercati” e le agenzie di rating sono state prese dalla paura e hanno registrato la stupidità della politica europea. Hanno visto agire l’idiozia dei leader europei, che non solo sono stati inefficaci a fornire rapidamente un salvataggio finanziario ai paesi indebitati, ma hanno anche introdotto programmi di austerità sostanzialmente autodistruttivi. La paura a questo punto si è trasformata in panico e ha prodotto un’impennata dello spread dei tassi di interesse sui buoni del tesoro italiano rispetto a quelli tedeschi. La forte riduzione del già basso tasso di crescita del PIL italiano (2010: 1,3%; 2011: 0,1% nel primo trimestre) e il drammatico aumento del tasso di interesse ha aperto così la strada ad un vero e proprio incubo per l’Italia. L’Italia, infatti, negli ultimi anni ha contenuto – sappiamo con quali costi sociali – l’aumento dei disavanzi rispetto al PIL, e dunque il flusso del suo indebitamento statale, ma ha pur sempre uno stock del debito pubblico vicino al 120% del suo PIL. A questo punto, si trattava solo di fare i conti per capire che si sarebbe prima o poi potuta determinare una crisi di liquidità, che fatalmente poteva degenerare in una immediata crisi di solvibilità.


III. Una crisi strutturale

Questo non significa che l’Italia non abbia profonde e gravi carenze nella sua economia. Ma queste sono carenze strutturali, accumulate nei decenni. Hanno inizio, più o meno, a metà degli anni Sessanta, e hanno portato ad una continua diminuzione della produttività del lavoro e del tasso di crescita. I capitalisti italiani hanno risposto alla forza d’urto delle lotte operaie (nella distribuzione, ma soprattutto nei luoghi di lavoro) con una sorta di “sciopero degli investimenti”, vale a dire cercando di recuperare profitti attraverso una più alta intensità di lavoro piuttosto che un’innovazione che alzasse la forza produttiva del lavoro.

Interi settori industriali (e quasi tutte le grandi imprese) sono spariti; si è finito con importare l’alta tecnologia invece che produrla; le privatizzazioni hanno trasformato le imprese pubbliche in attività orientate alla rendita. Per un po’, hanno prosperato i distretti industriali, soprattutto grazie ad una politica di continue svalutazioni, ma ora, con l’euro, anche questi ultimi sono entrati in una crisi profonda. Negli ultimi anni abbiamo avuto un gruppo di multinazionali tascabili italiane (medie imprese), il cosiddetto “quarto capitalismo”, che sono riuscite a esportare molto bene, facendo dell’Italia il secondo esportatore manifatturiero europeo dopo la Germania, ma certo non fanno sistema, sono dipendenti da una crescita trainata dall’esterno. Un’economia ormai integralmente etero-diretta. In questo quadro degenerativo, il debito pubblico ha aiutato ad “accompagnare” il processo di de-industrializzazione dell’economia italiana.

Il colpo di grazia è arrivato con le politiche di flessibilità (in volgare: precarizzazione), del lavoro. Sta qui la causa del vero e proprio crollo della forza produttiva del lavoro. Per un po’ di tempo, finché la crescita, pur debole, è stata comunque più elevata di una forza produttiva sempre più stazionaria nell’aggregato, questo meccanismo ha portato al miracolo di una piena “sottoccupazione”, almeno nel Centro-Nord. Ma la crisi attuale sta portando a galla la verità nascosta. Il dramma della disoccupazione latente, e una precarizzazione del lavoro che si andrà aggravando, sono solo agli inizi. E’ la “nuova normalità” che si annuncia all’orizzonte. Le recenti misure di politica economica che sono state adottate dal governo per ristabilire il pareggio nel bilancio pubblico, assecondando il diktat della BCE, abbinano un aumento regressivo di imposte a una riduzione drammatica dei trasferimento di denaro pubblico dal governo centrale agli enti locali. E questo non può che tradursi in un taglio selvaggio dei servizi sociali essenziali.


IV. Rifiuto dell’austerità, immaginazione progettuale

 Tuttavia il problema dell’Italia è lo stesso di quello dell’Europa: mancanza di domanda effettiva e però anche composizione perversa della produzione. Vanno affrontati insieme. Default e uscita dell’euro non sono più opzioni possibili ora che la crisi ha toccato l’Italia. Va ricordato che nel 1992, l’Italia fu costretta ad uscire dal Sistema Monetario Europeo, praticando un’enorme svalutazione della Lira. Cosa ne è seguito? I problemi strutturali si sono aggravati, la condizione di vita dei lavoratori e dei ceti popolari è drammaticamente peggiorata. Questa volta, comunque, l’uscita dell’Italia dall’euro significherebbe la dissoluzione dell’unione monetaria e una conseguente radicalizzazione della crisi, europea e globale.

La crisi può essere superata solo fermando l’effetto domino e aprendo una speranza per il futuro: vale a dire affrontando contemporaneamente crisi finanziaria e crisi realedell’economia e della società europea. Un buon punto di partenza può essere quello suggerito da Yanis Varoufakis e Stuart Holland: eurobond non solo come essenziali strumenti di salvataggio finanziario, ma soprattutto come strumenti di una politica di significativi investimenti su scala europea. Non dimentichiamoci, però, che la crisi è una crisi capitalistica. Porta con sé un violento attacco contro il lavoro: pubblico e privato. Un attacco portato, ad un tempo, dentro il cuore della produzione e nella riproduzione sociale stessa. Se il problema non è il neoliberismo, ma il capitalismo tout court, allora l’ipotesi di un inedito New Deal dovrebbe essere intesa come parte di un più ampio impegno di lotta e programmatico che sia comune alla sinistra europea e alle organizzazioni sindacali. Un programma minimo il cui centro siano la socializzazione degli investimenti, la trasformazione delle banche in public utilities, un piano del lavoro che faccia dello Stato un fornitore diretto di occupazione e per questo garante del pieno impiego, e il controllo dei movimenti di di capitale. Non è (ancora) Marx. È piuttosto Hyman P. Minsky, 1975.

Ciò che veramente manca in Europa non sono certo i soldi per finanziare il debito pubblico. E’ l’internazionalismo: non proclamato a parole (non c’è paese dove la sinistra non proclami con voce più solenne la natura globale della realtà presente), ma nelle lotte e nell’azione politica (non c’è paese dove partiti e sindacati della sinistra siano più ossessivamente autoreferenziali). Lotte davvero europee, su scala continentale, sono la condizione necessaria per resistere all’austerità imposta. Solo così, essendo radicali e persino rivoluzionari, è possibile, magari, ottenere in cambio qualche riforma decente.

 

* Pubblichiamo la versione estesa dell’articolo apparso il 21 settembre su The Guardian; traduzione dall'inglese di Daniele Balicco


 

8 Commenti


    Marco Di Pasquale
    23 settembre 2011 alle 10:27   

    Davvero un’analisi chiara, sebbene complessa, della situazione. Soprattutto con un punto di vista che finora è stato volontariamente tralasciato. Come se gli Stati europei non avessero colpa nelle loro scelte politiche, anche di contrapposizione interna, con una volontà di instaurare questa “nuova (tragica) normalità”. Una falsa normalità che vorrebbe abituare i cittadini alla povertà, a far loro dimenticare che la costruzione di un sistema economico meno “brillante” dal punto di vista del profitto, ma più condiviso e generalizzato, potrebbe allontanare le angosce ed i timori che hanno tenuto basso finora il loro tasso rivoluzionario.

    mdp
    Daniele Balicco
    23 settembre 2011 alle 14:09   

    Ho proposto di tradurre subito questo articolo di Riccardo Bellofiore perché è necessario, in un periodo come questo, riuscire a trovare analisi capaci di rendere chiare le ragioni della crisi finanziaria e dei problemi economici strutturali di lungo periodo dell’area UE che sembrano travolgerci. E poi abbiamo bisogno di ipotizzare soluzioni possibili. Iniziare a capire che le politiche di pareggio di bilancio imposte dalla UE non solo non risolveranno i problemi, ma li aggraveranno; che queste politiche non assecondano fatalità naturali (come PD, Repubblica e tutto il circo mediatico ogni giorno ripete, inducendo per altro ad una vera e propria identificazione con l’aggressore), ma volontà politiche con un centro di comando preciso: il neomercantilismo tedesco. Spesso si sente dire, nei giornali e nelle TV: i cittadini tedeschi sono stanchi di dover pagare i debiti degli altri. è un discorso molto pericolo perché non solo confonde e nasconde la verità di quanto sta accadendo, ma alimenta un clima di competizione aggressiva, di odio e di rivalsa fra Stati che può anche sfuggire di mano. Non sarebbe la prima volta. Tra l’altro, come ormai sappiamo, i cittadini tedeschi c’entrano ben poco con i debiti degli altri; o meglio, semmai è il contrario, sono tutti gli altri che da decenni pagano le follie suicida di chi comanda le politiche monetariste della BCE e il suo miope neomercantilismo.


    Daniele Balicco
    23 settembre 2011 alle 14:13   

    A proposito. Forse non tutti sanno che Paolo Villaggio, da qualche anno ormai, tiene una rubrica fissa sul Manifesto intitolata: il Benpensante. Mi sembra importante riportare per intero la pagina di oggi:

    “Come quasi tutti i benpensanti sono vecchio. Come tutti i vecchi ho una grande nostalgia per tempi migliori. I giovani, non ricordano tempi migliori. Ma è arrivato il momento di dirgli la verità. Il Paese era completamente distrutto e la felicità era dovuta solo alla fine di uno dei più stupidi, inutili, eventi della storia d’Europa: la Grande Guerra. I vincitori si sono affannati con la Società delle Nazioni a ricreare una seconda età dell’oro, ma solo 22 anni dopo c’è stata la più terribile avventura che la storia ricordi: la Seconda Guerra Mondiale. Alla fine, ecco un’altra autorevolissima organizzazione per la pace nel mondo: l’ONU. I giovani non ci fanno più caso perché ci sono abituati, ma noi vecchi benpensanti non abbiamo mai vissuto un periodo così pieno di guerre, guerrette, guerriglie, attentati terrificanti. A noi benpensanti restano solo pochi anni ancora da vivere. Meglio così, perché c’è la strana sensazione, che il peggio debba ancora venire”.


    Ennio Abate
    23 settembre 2011 alle 14:37   

    Bellofiore scrive:

    “Tuttavia il problema dell’Italia è lo stesso di quello dell’Europa: mancanza di domanda effettiva e però anche composizione perversa della produzione. Vanno affrontati insieme. Default e uscita dell’euro non sono più opzioni possibili ora che la crisi ha toccato l’Italia. Va ricordato che nel 1992, l’Italia fu costretta ad uscire dal Sistema Monetario Europeo, praticando un’enorme svalutazione della Lira. Cosa ne è seguito? I problemi strutturali si sono aggravati, la condizione di vita dei lavoratori e dei ceti popolari è drammaticamente peggiorata. Questa volta, comunque, l’uscita dell’Italia dall’euro significherebbe la dissoluzione dell’unione monetaria e una conseguente radicalizzazione della crisi, europea e globale” (Bellofiore)

    E’ una tesi del tutto opposta a quella sostenuta da Loretta Napoleoni in questa intervista sul suo libro “Contagio” che riporto sotto linkato.
    Chi ha idee più chiare potrebbe approfondire la questione?
    Grazie

    http://notizie.tiscali.it/articoli/economia/11/09/14/napoleoni_libro_contagio.html

    “Sa che potrebbe essere il giorno in cui la Grecia andrà in bancarotta?”. Curioso che il libro di Loretta Napoleoni, economista e consulente di terrorismo internazionale, compaia proprio oggi in libreria. Un testo, Il contagio (edito da Rizzoli), che fotografa l’attuale situazione internazionale nella quale anche l’Italia di qui a poco potrebbe trovarsi – drammaticamente – ad essere protagonista. L’esigenza (leggasi l’urgenza) è quella di uscire dalla fase del “non ritorno”. Come? La soluzione c’è, dice Napoleoni: l’Italia, d’accordo con l’Europa, scelga il “default pilotato”. Il resto è puro accanimento terapeutico che rischia semplicemente di procrastinare una situazione rischiosa non solo per il nostro Paese ma per l’intera zona euro.

    Professoressa, significa che l’Italia come altri Paesi cosiddetti “Piigs” dovrebbe fallire?

    “Il problema dell’euro è che, a livello europeo, non esiste né un protocollo né una regola per l’uscita temporanea o permanente di uno Stato dalla moneta unica. Il che significa che la Grecia, ma anche gli altri paesi Piigs come l’Italia sono in balia dei sentimenti del mercato, per quanto riguarda il mantenimento del proprio debito. Significa che se i mercati, come sta succedendo con la Grecia, improvvisamente decidono che questi Stati non sono in grado di ripagare il debito, non c’è una regola su come uscire. Cioè, l’euro non può andare in bancarotta se la Grecia va in bancarotta. Ecco perché parlo di un default volontario pilotato e della creazione di una serie di regole che permettano ad alcuni paesi di uscire temporaneamente dall’euro per riprendersi economicamente, anche in termini di convergenza, tornando entro quei parametri necessari per starci dentro. Seguire insomma l’esempio dell’Islanda che ha fatto un default pilotato e volontariamente è uscita dal mercato dei capitali, ha cioè dichiarato il default e si è messa al lavoro per ripianare i debiti”.

    Un caso che sembra rimanere isolato.

    “Sì, infatti. Si pensi all’Argentina che è andata in default da un giorno all’altro perché i mercati hanno girato le spalle. L’Islanda però ha una situazione migliore dell’Italia perché non ha l’euro come moneta. E il problema è proprio questo. Nel senso: come usciamo dall’euro? Come possiamo staccarci senza creare un terremoto all’interno di tutta l’Europa? Barroso ha detto: mantenere l’euro è una lotta di sopravvivenza per tutti i Paesi. E ha ragione. Infatti nelle ultime tre settimane in Germania e anche in Olanda dentro le banche si lavora per produrre una proposta, una legislazione che permetta di uscire dalla moneta unica”.

    Cosa succederebbe all’Italia se optasse per il default volontario?


    “Se facesse quello che ha fatto l’Islanda, un’uscita pilotata dall’euro, succederebbe che l’Italia dovrebbe garantire la metà del debito nazionale che è nelle mani degli italiani e delle banche italiane, cioè 2.850 miliardi di euro. Questo si può fare con una patrimoniale secca che colpisca con un 5 per cento su quell’1 per cento della popolazione, cioè quelle 70 famiglie che detengono da sole il 45 per cento della ricchezza nazionale. Basterebbe questo per garantire il debito interno. Dopodiché per quanto riguarda il debito esterno, quello che è in mano alle banche straniere, su quello bisognerà fare una ristrutturazione. Si rinegozia come è successo per esempio a Dubai. Io ti pago 45 centesimi per ogni euro e si stabilisce un programma di pagamento nei prossimi 5 o 6 anni e mano a mano si paga. Dopodiché l’uscita dall’euro permetterebbe di tornare alla lira che si svaluterebbe immediatamente dando una spinta alle esportazioni e più competitività”.

    Perché allora tutto ciò non avviene?

    “Perché è una decisione che deve essere presa di concerto con il resto dei paesi europei. Ma è difficile che avvenga perché se l’Italia decide di fare il default pilotato c’è il problema delle banche francesi che hanno una grandissima esposizione nei nostri confronti. L’uscita dell’Italia dall’euro senza un supporto da parte delle altre nazioni, per quanto riguarda le loro economie e le loro banche, potrebbe causare il crollo degli istituti di credito. Quindi la situazione è complessa, però non così complessa da non poter essere risolta. Serve un accordo a livello europeo, ma neanche se ne parla”.

    Una questione lessicale: il “debito pubblico” adesso si chiama “debito sovrano”. E’ curioso che questo avvenga proprio quando gli Stati sono più in balia della speculazione dei mercati.

    “Il fatto che gli Stati siano in balia dei mercati è una percezione sbagliata e di propaganda. I mercati hanno fatto il loro mestiere. Anzi in un certo senso i mercati sono stati spinti dagli Stati ad acquistare, almeno negli ultimi 12 mesi, i titoli del debito sovrano che non valgono nulla. E non parlo solo dei titoli italiani, ma anche degli altri, vedi i titoli francesi: rendimenti pari a zero. Quindi c’è una sorta di accordo degli Stati con le banche, secondo cui tu compri i miei titoli anche se guadagni zero ed io prometto che ti proteggerò dal crollo dell’euro. Cioè esiste una condizione di mutua convenienza però relativa a una tragedia. Quindi io non direi che la colpa è dei mercati e degli speculatori.

    E allora di chi è?


    “Dei politici che hanno permesso la creazione di un sistema di questo tipo e loro stessi hanno abusato di questa situazione. Quindi oggi il cittadino dovrebbe essere indignato, come accade in Spagna, non con i banchieri ma con i politici”.

    Nel suo libro scrive che “il malessere del modello occidentale è ormai una pandemia”. Dagli Indignados in avanti il “contagio” è inevitabile?


    “Sì. Per esempio si prenda una situazione tipo quella dell’Italia, che vende parti del Paese ai cinesi. E i cinesi mica vengono gratis. Il premier quindi vende invece di tassare quelle 70 famiglie che dovrebbero farsi carico della soluzione del problema: ecco questo dovrebbe far indignare la popolazione. Perché si parla della mia vita, della mia democrazia. Poi non è solo Berlusconi, chiariamolo questo. Tutti i Paesi europei vengono gestiti in questo modo. Tutti i politici europei oramai governano come se la democrazia fosse una loro impresa. Si dimenticano la voce del popolo. Noi siamo molto vicini ai fratelli africani, come scrivo nel libro. Loro si sono ribellati a un malgoverno dittatoriale. Le nostre non sono forme di governo dittatoriali, però sono delle oligarchie quindi tutti ci indigneremo a poco a poco. E’ inevitabile”.

    Eppure noi motivi per indignarci ne avremmo già abbastanza. Perché allora fino ad oggi Spagna, Israele, Gran Bretagna sì e Italia no?

    “In Italia non c’è ancora la consapevolezza. Lo spagnolo negli ultimi dodici mesi ha progressivamente preso sempre più consapevolezza della situazione economica. E questo perché c’è stata una degenerazione della situazione economica: in Spagna siamo al 43 per cento della disoccupazione giovanile e inoltre gli spagnoli hanno un senso civico più attento del nostro. La vicinanza storica con il franchismo è importante: loro apprezzano di più la democrazia e ci credono di più, sono meno cinici. E capiscono anche che per mantenerla in piedi bisogna difenderla attraverso la voce della strada che è l’unica che il popolo ha. Ma oggi la crisi economica è arrivata anche in Italia e le misure di austerità che ha preso Zapatero le prenderà anche il nostro governo. Insomma, c’è un ritardo temporale relativo proprio alla consapevolezza”.


    Pietro Bianchi
    23 settembre 2011 alle 14:38   

    Complimenti! Un articolo davvero efficace per comprendere l’attuale crisi dell’area euro e che cosa ci sta dietro. Al di là del chiacchericcio d’attualità non ci serve davvero il caprio espiatorio della finanzia speculatrice o delle agenzie di rating. Quello che stiamo vedendo è piuttosto un attacco al lavoro senza precendeti, la composizione di un diverso equilibrio geopolitico/commericale (a dominante tedesca ma nel generale declino europeo), un inesorabile declino industriale italiano, ma soprattutto una crisi strutturale del capitalismo.


    Pietro Bianchi
    23 settembre 2011 alle 15:30   

    Al di là del dibattito se sia auspicabile un “default pilotato” o no, uno degli elementi che mi pare più interessante delle analisi di Bellofiore (in questo articolo e in altri) è proprio quello relativo al legame tra il mercato dei titoli di stato e il mercantilismo dell’area tedesca. I surplus commerciali tedeschi solo in parte vengono realizzati nelle esportazioni oltreoceano (pompate dalle politiche di credito al consumo americane), in gran parte invece vengono realizzati all’interno dell’area euro, e in particolare verso quei paesi che attualmente soffrono di più l’indebitamento sui mercati. Se non fossimo nell’euro, le esportazioni tedesche sarebbero bilanciate dall’apprezzamento che riceverebbe il marco. Ora invece un euro tenuto basso dai paesi dell’area mediterranea permette di avere una moneta più bassa che favorisce le esportazioni di Germania e nord-europa. Il fatto che la Merkel e la BCE chiedano rigidità nei conti pubblici dei paesi indebitati (o l’idea bizzarra – di cui parlava Daniele Balicco – che i cittadini tedeschi stessero “pagando i debiti” della Grecia) non ha senso perchè quello stesso indebitamento è frutto delle politiche mercantiliste tedesche nei confronti dei paesi dell’area mediterranea (ne è prova il fatto che le banche tedesche siano piene di titoli di stato greci e che un default greco rischierebbe di innescare una crisi bancaria).
    Non solo non sono i tedeschi a pagare il debito degli altri, ma forse è l’esatto contrario: sono gli enormi tassi di crescita tedesca degli ultimi anni a essere stati resi possibili dagli indebitamenti (e dall’ arretratezza industriale) dei paesi del sud europa. Finchè prevarranno gli interessi nazionali l’euro finirà inevitabilmente per aumentare le divergenze tra i paesi membri invece che rovesciarle. Ed è esattamente quello che sta accadendo.
    E’ per questo che è così importante la proposta di Varoufakis degli eurobond come strumenti di una politica economica anti-ciclica su scala europea: ovvero investimenti industriali nella aree arretrate (e come dice Bellofiore “lo Stato come fornitore diretto di occupazione”). Il problema è che per fare questo (e per il superamento degli interessi nazionali) non ci possiamo certo affidare alle politiche illuminate delle classi dirigenti europee. Sappiamo storicamente che il superamento degli interessi nazionali avviene solo attraverso l’internazionalismo del lavoro. Programma sul quale, purtroppo, si è ancora un po’ indietro…


    errebì
    23 settembre 2011 alle 16:26   

    Se la crisi non è del c.d. debito sovrano, ma in realtà è “una crisi del debito privato sotto mentite spoglie” (anche se gli economisti mainstream tendono a sovrapporre e a identificare debito sovrano e privato, peché sono, per l’appunto, mainstream), ecco a mio avviso una ragione di più per dire no al pagamento dell’attuale debito, sovrano e/o privato che sia. Certo, un congelamento del debito, una decisione (politica) di pagare solo il debito detenuto dalle famiglie italiane (circa il 14%) e non quello delle banche (in mani estere c’è il 55% del debito), un default più o meno controllato che sia, ha bisogno di una solida articolazione politico-economica della “proposta”, non certo di mere parole d’ordine di sapore velleitario. Perché anche questo implicherebbe lacrime e sangue (fuoriuscita o radicale ristrutturazione dell’euro, ecc.), ma almeno si porrebbe tendenzialmente fine agli stillicidi quotidiani della macelleria sociale voluti dalla finanza (speculativa) internazionale (i mercati e il loro potere assolutista che la politica destro-sinistrorsa ha conferito loro negli ultimi decenni), servilmente fatti propri dai governi di turno dei paesi europei. Insomma, se è in corso una crisi sistemica che poco o nulla ha a che vedere con le ricorrenti crisi capitalistiche di sovrapproduzione, si potrebbe azzardare una scommessa di fuoriuscita dal sistema contemporanea alla fuoriuscita dal debito. Certo, tutto ciò presuppone una prospettiva socio-economica e politica ben precisa, che sia in grado di mobilitare la “gente”, e ha bisogno di proteste e di lotte sociali in grado di agglutinare e unificare le singole (oggi) proteste e lotte parziali (dalla No Tav a quelle locali di precari e cassaintegrati). Ma l’”argomento” ci sarebbe, perché questa faccenda del debito è ben diversa dai gossip, le notti brave o i processi del “nostro” premier, ma investe, et pour cause, la qualità di vita, il welfare, il portafoglio della “gente”, nessuno escluso, e quando si tocca il portafoglio, la “gente” non stenta a mobilitarsi. Solo che, in mancanza di prospettive politico-economiche (tout court, com’è oggi), la “gente” si può mobilitare anche su obiettivi falsi o devianti rispetto al problema vero, cioè può esserci una Vandea anziché una presa della Bastiglia.
    Allora, tanto per proporre: http://www.cnms.it/campagna_congelamento_debito
    In clausola: ecco un tipico vezzo da economista super partes: “Va ricordato che nel 1992, l’Italia fu costretta ad uscire dal Sistema Monetario Europeo, praticando un’enorme svalutazione della Lira”. Ma questa oggettività della narrazione, nasconde un non-detto politico. Se l’Italia uscì dallo SME, ciò fu uno degli effetti, o una risultante inizialmente non prevista, delle manovre e degli accordi politico-economici che si ebbero il 2 giugno 1992 sul panfilo inglese Britannia in navigazione al largo delle acque di Civitavecchia tra il buon Mario Draghi (un nome che oggi va di moda, trasversalmente, la fava con cui si prendono due piccioni), il buon Azeglio Ciampi e rappresentanti della finanza anglosassone e americana (compresa la solita Goldman Sachs), che riguardarono la s-vendita di molte aziende di punta italiane e la trasformazione in SpA delle aziende statali (strategiche) Iri, Eni, Enel, Ina, manovra continuata autonomamente dalla speculazione sulla lira del buon Soros, dalle mosse sbagliate di Bankitalia (Ciampi) che bruciarono miliardi, svalutarono la lira e deprezzarono il valore delle aziende italiane in s-vendita, e così si arrivò alla fuoriuscita temporanea dallo Sme. Ma sulla “fase” Britannia della “nostra” classe politica (ulteriore esempio del fatto che non vi è mossa economica che non sia diretta dalla politica) si è preferito tacere, e guarda caso proprio nei giorni scorsi, dinanzi all’ipotesi di Tremonti di s-vendita degli ultimi gioielli aziendali di famiglia, ecco che qualche giornale mainstream (Repubblica, Il Corriere) ha ritirato fuori la faccenda Britannia “denunciando” che il ministro vuol fare un “Britannia 2″.


    Ennio Abate
    23 settembre 2011 alle 17:20   

    Aggiungo questo articolo di Mauro Tozzato. Cita e commenta le opinioni di vari studiosi (Roncaglia, Lyndon LaRouche, Celani, Prodi e Alberto Quadrio Curzio) e prende in considerazione anche attori strategici come USA e Cina, che non mi paiono tenuti in conto nell’analisi di Bellofiore. Egli, infatti, mi pare si limiti a parlare dello scacchiere europeo («per capire la vera natura della crisi italiana è necessario osservarla nel contesto più ampio della crisi europea»). E punta il dito soprattutto contro la Banca Centrale Europea («c’è una Banca Centrale Europea che non agisce come prestatore di ultima istanza, e che non finanzia l’indebitamento dei governi: una banca centrale che si rifiuta di fare quello per cui le banche centrali sono nate») e il « neo-mercantilismo tedesco», che «ha indotto da decenni una profonda stagnazione economica in tutta l’Europa». Ma, banalmente, l’Europa con in pancia l’Italia, non sta nel mondo “globalizzato”?
    Confrontando il testo di Bellofiore con quello qui sotto di Tozzato, è evidente il contrasto tra la sua interpretazione, che (in parte o in fondo) sembra considerare positivamente il ruolo svolto dagli USA («l’Europa, che è potuta sopravvivere solo grazie alle esportazioni trainate, in ultima istanza, dalla domanda degli Stati Uniti») e quella di Tozzato, che, in un’ottica di autonomia nazionale, paventa una maggiore e deleteria subordinazione «alle potenze estere»: «In conclusione il Ffe diverrebbe il mezzo più rapido per distruggere gli ultimi residui di autonomia politica, economica e finanziaria del nostro paese e degli altri stati minori della Ue, senza contare che anche Francia e Germania metterebbero nelle mani degli Usa e delle potenze emergenti come la Cina gli strumenti per diventare ancora più dipendenti e sottomesse (serve)».
    Il contrasto non riguarda solo il campo indagato ma anche le prospettive: puntare a un “vero” internazionalismo di«lotte davvero europee su scala continentale» (Bellofiore) o a una difesa dell’«autonomia politica, economica e finanziaria del nostro paese e degli altri stati minori della Ue» (Tozzato)?
    La risposta, se ci riflettiamo bene, non è così facile e scontata: essendo venuti meno o mancando o non essendo visibili o essendo da costruire da zero i soggetti capaci di reagire efficacemente a questa stretta della crisi. [E.A.]

    I PROBLEMI DELL’EURO E GLI EUROUNIONBOND

    31 agosto 2011
    di Mauro Tozzato
    http://www.conflittiestrategie.it/2011/08/31/i-problemi-dell%E2%80%99euro-e-gli-eurounionbond/

    Sul Sole 24 ore del 28.08.2011 l’economista A. Roncaglia scrive:
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    E’ noto che la svalutazione rende più costose le merci e le materie prime importate e di conseguenza può avere effetti sull’inflazione del paese che svaluta ed è altrettanto noto che i meccanismi di aggiustamento relativi a deficit e debito in una area economico-monetaria integrata pesano di più sui paesi in difficoltà che sui paesi “virtuosi”. Attualmente, nell’Unione monetaria europea, sarebbe necessario che gli aggiustamenti “forzati” dei Piigs fossero bilanciati da politiche espansive dei paesi più forti, come Germania e Francia; ma se, come nella presente congiuntura, tutti gli stati hanno un basso tasso di crescita e un alto tasso di disoccupazione si avranno politiche restrittive della spesa in tutti i paesi e una spinta deflazionistica generalizzata. Roncaglia, inoltre, aggiunge che
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    A tale proposito Lyndon LaRouche, che è tra i fautori del “superamento dell’euro”, ha affermato:
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    Ma il ragionamento di LaRouche praticamente non funziona: se vogliamo una moneta nazionale perché senza di essa non è possibile emettere credito produttivo nella maniera e nella quantità da noi desiderata, la moneta deve essere solo uno strumento con cui decidere delle politiche di investimento, di intervento dello Stato sul mercato in modo da generare le risorse per gli investimenti e ottenere la piena occupazione. Il valore della moneta e dei prezzi va stabilito al livello giudicato idoneo ad onorare il debito che lo stato crea nel momento in cui finanzia lo sviluppo. La moneta nazionale può svolgere una simile funzione ed inoltre, tramite una opportuna politica, essere in grado di determinare in autonomia un determinato tasso di crescita solo in un sistema mondiale non globalizzato sia per quanto riguarda il mercato delle merci che per quello della moneta e dei capitali. Si tratta di un mondo che non è il nostro. Anche l’economista Claudio Celani ritiene possibile l’uscita dall’euro in termini vantaggiosi:
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    Anche qui si dovrebbe però ipotizzare o uno “Stato commerciale chiuso” come quello proposto, più di due secoli fa, da Fichte oppure una area economica con un centro forte in grado di coordinare flussi reali, monetari e finanziari con i relativi tassi di cambio, sul modello dei “trenta anni gloriosi” del secondo dopoguerra nella parte del mondo egemonizzata direttamente dagli Usa.
    ***
    Sul Sole 24 ore del 23.08.2011 Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio hanno proposto all’interno del dibattito relativo all’istituzione di un bilancio e di un debito pubblico dell’Unione europea la creazione di titoli “europei” denominati EuroUnionBond. I due economisti ricordano che attualmente sono in vigore i cosiddetti StabilityBond (Sb):
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    Gli EuroUnionBond (Eub) dovrebbero, invece, essere emessi da un Fondo finanziario europeo (Ffe). Prodi e Q.C. scrivono che
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    Tra le altre cose i due professori affermano che tra i conferimenti dell’ Italia nel fondo una parte
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    Cosa significhi questo non mi è del tutto chiaro ma probabilmente i nostri due brillanti economisti ritengono che una “svendita” delle nostre aziende strategiche alle potenze estere possa essere ben preparata con questi passaggi. In conclusione il Ffe diverrebbe il mezzo più rapido per distruggere gli ultimi residui di autonomia politica, economica e finanziaria del nostro paese e degli altri stati minori della Ue, senza contare che anche Francia e Germania metterebbero nelle mani degli Usa e delle potenze emergenti come la Cina gli strumenti per diventare ancora più dipendenti e sottomesse (serve). Prodi e Q.C. lo dicono infine chiaramente:
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    Mauro Tozzato 30.08.2011

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