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marx xxi

Il Montino. Vademecum dei disastri di Supermario

di Domenico Moro

Prima parte. La Fiscalità

Contrariamente a quanto era stato propagandato dalla maggior parte dei mass media, il governo Monti ha operato sulla fiscalità in modo iniquo. Le imposte, infatti, sono state aumentate ai lavoratori salariati e diminuite alle imprese. Qui di seguito procediamo ad una analisi molto sintetica delle modifiche apportate da Monti alla fiscalità italiana.

L’Irpef, o imposta sulle persone fisiche, è la principale imposta italiana ed è diretta, applicandosi al reddito. Si tratta di una imposta progressiva. Ciò vuol dire che quanto più sei ricco tanto più paghi. In realtà, l’Irpef ha perso, nel corso degli anni, molto del suo carattere progressivo, passando da ben 32 scaglioni e da una aliquota massima del 72% (1974), a soli 5 scaglioni con scaglione massimo di 75mila euro e una aliquota massima del 43% (2007). Pensiamo che invece nel liberista Regno Unito l’aliquota massima è del 50%, che neanche il governo conservatore vuole ridurre.

L’Iva e le accise, al contrario, sono imposte indirette, applicandosi ai consumi. Le imposte indirette sono imposte regressive, perché applicandosi a tutti con una medesima percentuale, gravano maggiormente sul reddito più basso che sul reddito più alto. Si tratta, quindi, di imposte inique. Infatti, la Costituzione raccomanda che le tasse debbano essere progressive.

Ebbene, cosa ha fatto Monti? Monti, malgrado le promesse, ha lasciato intatta l’aliquota più alta dell’Irpef, cioè le imposte sui più ricchi, ed ha aumentato le imposte sui consumi, quelle che gravano principalmente sui redditi più bassi. L’Iva era già stata aumentata da Berlusconi di un punto, dal 20% al 21%. Ora, l’Iva (le aliquote del 10% e del 21%) verrà aumentata, nella seconda metà del 2012, di due punti percentuali e, nel 2014, di un ulteriore 0,5%.

Inoltre, sono state aumentate le accise sui carburanti, quella della benzina a 704,20 euro per mille litri, quella del gasolio a 593,20 euro. Tali aumenti hanno provocato un aumento dei costi del trasporto e, a cascata, di molte merci. Possiamo immaginare quanto saranno pesanti gli effetti sull’inflazione, quando gli aumenti dell’Iva si sommeranno a quelli delle accise.

Non è del tutto corretto dire che Monti non ha toccato l’Irpef. Ha toccato l’Irpef regionale (addizionale Irpef). Però, nell’Irpef regionale Monti ha aumentato l’aliquota di base, che grava sui più poveri. Questa è stata ritoccata dello 0,33%, portandola dallo 0,9% all’1,23%. Dal momento, però, che molte regioni avevano già introdotto delle maggiorazioni alla vecchia aliquota base, gli aumenti effettivi sono maggiori. Nel Lazio si passa dall’1,40% all’1,73%, lo stesso in Piemonte, Sicilia e Lombardia. In Campania e Calabria si raggiunge il record con il 2,03%. Inoltre, l’addizionale regionale è progressiva solo in cinque regioni. Da notare, che il provvedimento di aumento dell’Irpef è retroattivo, cioè riguarda il 2011.

Viceversa, le imposte sono state diminuite alle imprese di capitale. L’Ires è l’imposta pagata sul reddito delle società (imprese di capitale, enti pubblici e privati, trust), che fu ridotta dal governo Prodi dal 33% al 27,5% nel 2007. Monti ha introdotto una nuova deduzione dall’Ires. Le imprese potranno dedurre dall’Ires l’imposta sulle attività produttive pagata sul costo del lavoro (Irap). Una impresa con 200 dipendenti risparmierà fino a 75.171 euro su una Irap totale di 237.900 euro.

Questa deduzione beneficerà soprattutto le grandi imprese, che hanno più dipendenti. Inoltre, va precisato che l’Irap non è una vera e propria imposta, perché al suo interno è compresa una parte del salario, quella indiretta, che va a pagare le spese sanitarie dei lavoratori. In questo modo si va a diminuire il salario due volte. Si riduce la parte indiretta, e, per compensarla, si aumentano le tasse sui consumi che gravano proporzionalmente di più sui lavoratori. In questo modo Monti ha recepito il programma della Confindustria, che da molto tempo si era impuntata sull’abolizione/riduzione dell’Irap, e sulla sua compensazione con lo spostamento della pressione fiscale verso i consumi.

Il governo Monti ha, infine, ha inserito anche una imposta patrimoniale, reintroducendo l’imposta comunale sulla prima casa, ora denominata Imu, prevista dal decreto sul federalismo fiscale. Peccato che, contrariamente a quanto si richiedeva da parte di molti a sinistra, tale tassa ha colpito tutti, compresi i piccoli patrimoni. Infatti, in Italia molti lavoratori salariati sono proprietari della casa dove vivono. Anche l’Imu è una tassa non progressiva ma proporzionale, perché si applica la stessa aliquota a patrimoni di diverso valore.

Si vede chiaramente che, in contrasto con quanto stabilisce la Costituzione, si ha uno spostamento della pressione fiscale dalle imposte dirette (progressive) a quelle indirette (regressive) e da quelle pagate dalle imprese a quelle pagate dai lavoratori. Tale tendenza era presente anche nei governi precedenti, ma è con Monti che raggiunge il suo picco. Inoltre, una parte di questo aumento iniquo avviene sul piano locale, favorito proprio dal federalismo fiscale, che nella propaganda delle Lega, e con l’assenso di molti altri partiti, avrebbe dovuto portare ad una diminuzione della pressione fiscale. Ciò non è avvenuto neanche nella regioni del Nord. Sarebbe importante far notare questo aspetto agli elettori della Lega (e non solo a quelli della Lega), che pure oggi si dissocia dall’operato del governo Monti.

In sintesi, appare evidente che si è aumentata la pressione fiscale sui più poveri, cioè sulla stragrande maggioranza dei lavoratori dipendenti e sui lavoratori autonomi più poveri, mentre si è diminuita quelle sulle imprese e sui più ricchi. Anche sul piano della fiscalità il Governo Monti si rivela essere il governo della Confindustria.

Che fare?

La questione del debito è complessa e riguarda non solo le entrate dello Stato, ma anche il tipo di uscite, la capacità di una società di produrre, crescere ed esportare, il modo in cui è stato realizzato l’euro, le operazioni finanziarie e speculative, ecc.

Rimanendo, però, ora alla sola questione delle entrare, il primo principio da tenere presente è che la crisi del debito non può essere fatta pagare a chi ha sempre pagato e perde capacità d’acquisto da vent’anni. Essa va fatta pagare a chi si è arricchito da sempre, e in modo maggiore negli ultimi anni di forte crescita dei profitti, che per le banche e non poche grandi imprese industriali non si è ridotta neanche dopo lo scoppio della crisi dei mutui.

Il secondo punto di una proposta di nuova ed equa fiscalità è che va ristabilita la progressività dell’imposizione fiscale e la centralità delle imposte dirette su quelle indirette.

Quindi, da una parte:

a) vanno ridotte le aliquote delle accise e dell’Iva;

b) va abbassata la aliquota di base dell’Irpef regionale;

c) vanno esentate dal pagamento dell’Imu le prime case, fino ad un valore che escluda le abitazioni non di lusso.

 Dall’altra parte, vanno:

a) aggiunti almeno altri due/tre scaglioni di reddito all’Irpef, che portino l’aliquota massima almeno al 50%, come nel Regno Unito;

b) va innalzata l’aliquota dell’Ires sulle società di capitali e ritirata la deduzione Irap;

c) vanno aumentate le imposte sulle case di lusso e sui veri grandi patrimoni immobiliari.



Seconda parte.
La controriforma del mercato del lavoro



Quelle che descriveremo rapidamente qui di seguito sono le tendenze generali emerse negli ultimi due mesi di colloqui tra sindacati, imprese e governo.

Il governo Monti sta conducendo il più pesante attacco nei confronti del movimento dei lavoratori dal dopoguerra. Tale attacco si basa sulla controriforma del mercato del lavoro. La realizzazione di questa è il motivo principale della nomina del governo tecnico, in quanto né il Pdl di Berlusconi né il Pd di Bersani avrebbero potuto portare avanti tale obiettivo.

L’attacco è complessivo e si articola nei seguenti punti:

  1. Aumento precarietà/licenziabilità in uscita;

  2. Aumento precarietà/licenziabilità in entrata;

  3. Riduzione ammortizzatori sociali;

  4. Riduzione retribuzioni e costo del lavoro.


Obiettivo strategico del capitale italiano e europeo è dare un’ulteriore spallata a quanto rimane del potere di contrattazione dei lavoratori, cancellando rappresentanza e contrattazione collettiva.

Quali sono invece gli obiettivi specifici del capitale italiano e Ue?
 

  1. La ristrutturazione della produzione in Europa. Marchionne ha significativamente affermato che il problema dell’Europa è la sovraccapacità produttiva, dovuta alla “difficoltà”, nei decenni passati, a chiudere stabilimenti produttivi. A tale scopo ci si predispone a snellire le procedure di licenziamento.
     

  2. Ricostituzione di un esercito industriale di riserva in senso classico. Le imprese vogliono libertà di regolare il flusso di forza lavoro in entrata e uscita a seconda delle loro necessità, sulla base del mercato e delle condizioni di accumulazione del profitto. Ne deriva la formazione di un “esercito industriale di riserva” sempre disponibile. Quindi, bisogna portare tutti i lavoratori in una situazione di precarietà, equiparando il più possibile le condizioni di licenziabilità in entrata e in uscita.
     

  3. Riduzione dei costi e adeguamento degli ammortizzatori al nuovo esercito industriale di riserva. In presenza di un esercito industriale di riserva viene meno l’utilità di ammortizzatori come la cassa integrazione, che consentivano all’azienda di mantenere la disponibilità dei lavoratori momentaneamente non utilizzati. Inoltre, la riduzione del costo degli ammortizzatori permette di spostare un’altra parte del salario verso i profitti.
     

  4. Compressione del costo del lavoro e delle retribuzioni. Chi sta dietro la riforma, ovvero le grandi aziende multinazionali ed esportatrici, ha poco interesse al mercato di beni di consumo interno. In pratica la competizione è sulle esportazioni. Quindi, la competizione è condotta attraverso la compressione del salario, con particolare attenzione a quello indiretto (sanità, previdenza sociale), che aveva tenuto relativamente meglio al decadimento del salario duretto (in busta paga) degli ultimi due decenni.
     

Fa parte della controriforma del mercato del lavoro anche il già attuato aumento dell’età pensionabile a 67 anni che ha portato l’Italia ad avere l’età pensionabile più alta d’Europa. In questa sede ci limitiamo ad osservare che l’innalzamento dell’età di pensionamento rendemolto più difficile accompagnare i lavoratori licenziati più anziani al pensionamento, rendendo così la disoccupazione ancora più pesante. Inoltre, nel solo 2013 i “risparmi”, che deriveranno da questa controriforma, ammonteranno a 6 miliardi. Come verranno impiegati questi soldi? Per acquistare i nuovi cacciabombardieri?
 

A. Aumento della precarietà/licenziabilità in uscita. L’attacco all’articolo 18

La Confindustria ritiene che la “flessibilità in uscita”, cioè la possibilità di licenziare sia del tutto insufficiente. L’aumento della flessibilità in uscita è stato identificato, sia da Confindustria che dal Governo, con l’abolizione/revisione dell’articolo 18.


L’articolo 18 della legge n.300 del 20 maggio 1970 (Statuto dei lavoratori) è inteso come un articolo contro i licenziamenti senza giusta causa e giustificato motivo ed è considerato una barriera contro i licenziamenti in genere. In realtà, i licenziamenti sono regolati da due altre leggi. In primo luogo, la legge 604 del 1966, che stabilisce come ingiustificati e senza giusta causa i licenziamenti che avvengano per motivi sindacali, politici e religiosi (art.4). In secondo luogo, la legge n. 223 del 1991, che disciplina la cassa integrazione e regola i licenziamenti collettivi nelle imprese al di sopra dei 15 dipendenti.

L’articolo 18, stabilisce la “Reintegrazione nel posto di lavoro”, cioè prevede che, nel caso in cui il giudice riconosca che il licenziamento non abbia una giusta causa o giustificato motivo, il lavoratore può decidere di ritornare sul posto di lavoro.

Quali sono i licenziamenti giustificati? A parte i casi come il furto e la grave inadempienza al proprio lavoro, rientrano in questa categoria non solo i licenziamenti per crisiaziendali, ma anche quelli per le ristrutturazioni e le riorganizzazioni del lavoro.

La legge 223/91 prevede che l’azienda, nel caso in cui proceda a riorganizzazioni e ristrutturazioni, debba aprire la cosiddetta procedura per la dichiarazione di mobilità (Legge 223/61, Capo II, Titolo I, art. 4), un eufemismo per dire licenziamento. Secondo questa procedura, l’azienda deve coinvolgere il sindacato, comunicando numero e condizioni di licenziamento. Se non si raggiunge un accordo sui licenziamenti, l’Ufficio provinciale del lavoro convoca le parti per un ulteriore esame congiunto delle parti. Tale esame deve esaurirsi entro 30 giorni dalla data di ricevimento della comunicazione da parte dell’Ufficio provinciale (commi 5, 6 e 7). Se l’accordo continuasse a mancare, l’azienda, procedendo con i licenziamenti, si esporrebbe all’impugnazione del licenziamento da parte dei lavoratori.

Si può facilmente osservare che l’impossibilità a licenziare nelle imprese al di sopra dei 15 dipendenti e protette dall’articolo 18 è pura propaganda da parte della Confindustria. Dal 1970 (e dal 1991) ad oggi sono stati numerosi i licenziamenti di massa per riorganizzazioni e ristrutturazioni in aziende che neanche scontavano reali difficoltà. Inoltre, nella pratica i reintegri, dovuti all’applicazione dell’art. 18, sono veramente pochi, in quanto molti lavoratori preferiscono non usufruire della possibilità di rientrare sul posto di lavoro.

Dunque, l’articolo 18 in sé non è un forte ostacolo ai licenziamenti di massa. Inoltre, si sapeva che l’attacco all’articolo 18 avrebbe, comunque, sollevato grandi polemiche e resistenze. Quali sono allora gli obiettivi reali dell’attacco diretto all’articolo 18?

Possiamo individuarne quattro:

Resta inteso che la difesa dell’articolo 18 è una battaglia di civiltà e che la sua abolizione o “manutenzione” non è negoziabile in alcun modo.
 
Però, il fatto che dietro l’attacco all’articolo 18 ci siano anche i tre ultimi obiettivi suddetti è tutt’altro improbabile. Già nel passato imponenti mobilitazioni a difesa dell’articolo 18 non hanno impedito il passaggio di norme che lo aggiravano e aumentavano la precarietà. Il mantenimento formale dell’articolo 18 neutralizzò, almeno in un primo momento, la percezione negativa di quelle controriforme da parte dei lavoratori.
 
Oggi, l’attacco all’articolo 18 ha già ottenuto un obiettivo: si parla poco dei provvedimenti di precarizzazione del lavoro e di riduzione degli ammortizzatori e del costo del lavoro.

B. Aumento della precarietà/licenziabilità in entrata 

Questo aspetto della riforma è poco e male dibattuto a sinistra. Il governo, attraverso la Fornero, distingue impropriamente tra flessibilità cattiva, che consiste nelle (false) partite Iva e negli associati in partecipazioni agli utili, e la flessibilità buona, da mantenere. Al tempo stesso si presenta la riforma dei contratti in entrata come una positiva semplificazione della giungla contrattuale.

 
In realtà, molti contratti precari verranno mantenuti, ad esempio i contratti a termine e a progetto, così come il lavoro somministrato, che sono poi quelli maggiormente utilizzati. Ad ogni modo, una eventuale semplificazione della giungla contrattale sarà del tutto ininfluente, se la precarietà in ingresso verrà estesa nel tempo e le remunerazioni ulteriormente compresse.

Infatti, di nuovo c’è che verrà generalizzato, come forma di contratto per i neoassunti,il contratto di formazione, che avrà una durata massima di tre anni.

Una durata di tre anni del contratto di formazione non ha senso, in quanto la stragrande maggioranza delle mansioni, operaie e impiegatizie, richiedono un addestramento di pochi mesi se non di poche settimane per rendere un lavoratore completamente operativo. Già oggi, inoltre, la formazione svolta dal datore di lavoro è scarsa o inesistente, essendo percepita come un costo da evitare. Evidentemente si tratta di una scusa per garantire alle aziende migliori condizioni di utilizzo della forza lavoro, a partire dai forti sgravi contributivi.

Infatti, con l’apprendistato le aziende, rispetto al contratto a tempo determinato,risparmieranno fino al 25% del costo del lavoro, e, rispetto al lavoro somministrato, anche il 10-15% di ricarico per le agenzie intermediarie. Al contempole retribuzioni dirette per i lavoratori diminuiranno. Un neoassunto metalmeccanico al quinto livello con contratto a tempo determinato percepisce ora un lordo di 1.664 euro, con un nuovo contratto d’apprendistato prenderà solo 1.476 euro lordi. La riduzione dei contributi previdenziali, connessi alla riduzione del costo del lavoro per gli apprendisti, porterà alla riduzione dell’ammontare futuro delle pensioni. In aggiunta, dal momento che, in questo tipo di contratto, l’azienda non paga i contributi per la disoccupazione, l’apprendista non potrà avvalersi di questo tipo di ammortizzatore. Il confindustriale Sole24ore non si fa scrupolo di osservare che “La forma contrattuale più conveniente per l’azienda resta l’apprendistato: in questa situazione il lavoratore può essere sottoinquadrato in un trattamento economico fino a due livelli inferiore rispetto a quello corrispondente alla mansione effettivamente svolta." [1]

Esempi di proposte di contratti di ingresso sono, da parte del Pd, il CUI (Contratto unico di ingresso) del disegno di legge del sen. Nerozzi e il CUIF (Contratto unico di inserimento formativo) presentata da Madia e sostenuto, tra gli altri, da Cesare Damiano.

Il CUI è un contratto di prova, ma più lungo di quanto non accada oggi. Sia il CUI che il CUIF hanno la durata di tre anni, al termine dei quali l’imprenditore può decidere di licenziare il lavoratore. Se decide di assumerlo può farlo, però, anche con contratto a tempo determinato, o a progetto. In pratica il neoassunto ha davanti a sé la prospettiva di parecchi anni di precarietà, senza garanzia dell’articolo 18, né di assunzione finale. Inoltre, nel caso della proposta Madia, come del resto in tutti i contratti di apprendistato, il datore di lavoro può licenziare, contrariamente a quanto avviene nei contratti a tempo determinato, senza obbligo di motivazione. [2]
 

C. Riduzione degli ammortizzatori sociali.

L’aspetto più importante della controriforma nel campo degli ammortizzatori sociali è che la cassa integrazione rimarrà solo in occasione di contrazioni di mercato (cassa integrazione ordinaria). In caso di ristrutturazioni, riorganizzazioni e riconversioni verrà abolita (cassa straordinaria).

La cassa integrazione straordinaria verrà sostituita da un sussidio o indennità di disoccupazione, che la Fornero sbandiera voler essere universale, cioè rivolto a tutti i lavoratori. A questo proposito va osservato che:
 

  1. la cassa integrazione manteneva un collegamento tra azienda e lavoratore, con possibilità di rientro,il sussidio tronca di netto questo legame e la possibilità di rientrare in produzione;

  2. il sussidio ammonta generalmente ad un massimo del 60% (al 35% per i requisiti ridotti) delle retribuzioni, mentre la cassa integrazione al suo apice raggiunge l’80%; dunque, la sostituzione della seconda con il primo comporterebbe anche una netta riduzione anche dei contributi figurativi;

  3. si avrà lo spostamento del finanziamento degli ammortizzatori sociali dalle imprese alla fiscalità generale, con uno spostamento di risorse di fatto dal welfare alle imprese, in un quadro, per giunta, di forte compressione del deficit di bilanciopubblico;

  4. in ogni modo, il sussidio di disoccupazione universale, come prospettato dalla Fornero, è una trovata propagandistica, vista, da una parte, la necessità di risorse non indifferenti al suo finanziamento, e, dall’altra, la tendenza in atto a ridurre il welfare ai minimi termini.
     

L’eliminazione della cassa integrazione straordinaria risponde:

1.  alle nuove condizioni dell’accumulazione capitalistica, in cui è previsto un nuovo esercito industriale di riserva, disponibile a seconda delle necessità contingenti delle imprese;

2.  alla previsione di un aumento delle ristrutturazioni e quindi alla previsione di un aumento della spesa per la cassa integrazione straordinaria; il sussidio rappresenta così una riduzione dei costi per le aziende e lo Stato, e una riduzione del reddito sostitutivo per il lavoratore disoccupato.

3.  Riduzione del costo del lavoro e delle retribuzioni.


La Confindustria e la Fornero danno la colpa dei bassi salari italiani all’alto costo del lavoro, che sarebbe dovuto a sua volta alla forte imposizione fiscale del lavoro. In realtà, non solo le retribuzioni dirette ma anche il costo del lavoro italiano è inferiore alla media della Ue a 16 (eurozona). Nella manifattura nel 2008 il costo del lavoro italiano era di 24 euro contro i 27,8 euro medi dell’eurozona e le retribuzioni di 17 euro contro i 20,5 euro dell’eurozona[3].

Inoltre, il costo del lavoro è la somma alla retribuzione lorda di: tredicesima (e altre mensilità aggiuntive), TFR, eventuali straordinari, ferie e permessi maturati, e … contributi sociali. Questi ultimi riguardano i contributi a carico dell’azienda per pensione e assistenza sanitaria del lavoratore. Dove stanno le imposte allora? Da nessuna parte. Ci sono solo altre parti del salario, quella indiretta (sanità) e differita (pensione, TFR), che si aggiungono a quella diretta, cioè quella percepita in busta paga. 

Il punto è che l’obiettivo implicito della controriforma è diminuire il salario in tutte le sue componenti, diretta, indiretta e differita, grazie all’aumento della precarietà in entrata e in uscita. La controriforma del mercato del lavoro aumenterà ancora l’esercito industriale di riserva (i disoccupati), e quindi l’offerta di lavoro a basso costo, che darà luogo a una pressione sui lavoratori occupati ad accettare salari più bassi, straordinari e orari più lunghi, che ridurranno la richiesta di nuovi lavoratori. Tenendo anche conto che la fase economica di lungo periodo, bene che vada, sarà di stagnazione e che la domanda di forza lavoro ristagnerà anch’essa, si innescheràuna spirale perversa che porterà i salari a livelli sempre più bassi. Sempre che ovviamente non ci sia una reazione decisa di segno opposto.

Che fare?

In conclusione, possiamo dire che si prospetta il ripetersi di quanto accaduto nei quindici, venti anni trascorsi, dal Pacchetto Treu in poi fino alla Legge 30, ovvero uno scambio tra maggiore precarietà e presunta maggiore occupazione. Uno scambio che, in venti anni, ha abbattuto i salari reali, aumentato straordinari e orari di lavoro, e contribuito ad abbattere la produttività totale [4].

Anche lo scambio con un eventuale mantenimento dell’articolo 18, che Confindustria sembra offrire di mantenere per i soli licenziamenti discriminatori o nulli, sarebbe una polpetta avvelenata.

Un altro aspetto da considerare è il tentativo di eliminare la mediazione della legge nelle controversie tra lavoro e capitale, affidandole alle trattative tra sindacati e impresa. Bisogna ricordare che la legge dello Stato sancisce e garantisce, almeno fino ad un certo punto, i rapporti di forza a livello complessivo tra lavoro e capitale. Al contrario, le trattative sindacato-impresa possono essere soggette a molti condizionamenti, tra cui i rapporti di forza esistenti in una certa situazione e l’effettiva volontà e capacità combattiva dell’organizzazione sindacale. Tale aspetto si combina con la cancellazione della rappresentanza e della contrattazione collettiva. Al sindacato viene riservato un ruolo di rappresentanza corporativa, di supporto alla capacità competitiva della propria azienda in conflitto con i lavoratori delle altre aziende.

In definitiva, siamo davanti a un momento cruciale della storia del movimento operaio e sindacale italiano. Se la controriforma del lavoro viene attuata ci sarà un drastico peggioramento non solo delle condizioni materiali ma anche della capacità negoziale e dei rapporti di forza a livello politico fra classi, maggiore di quanto non sia accaduto nei decenni precedenti.

Mentre nei Paesi dove l’attacco del capitale Ue è più forte, dalla Grecia alla Spagna al Portogallo, le iniziative di opposizione sono molto vaste, in Italia si assiste ad un pericoloso immobilismo con poche eccezioni, come nel caso della Fiom. Ad esempio, la controriforma delle pensioni è passata senza colpo ferire. La CGIL risulta condizionata dalla partecipazione del Pd al sostegno del governo Monti ed è invischiata in una serie di incontri tra le parti sociali e il governo, che di fatto hanno frenato la mobilitazione. Dato il ruolo improprio di supplenza, su diversi aspetti politici, che la CGIL svolge da molti anni a questa parte rispetto alla sinistra, il suo immobilismo comporta anche l’immobilismo anche di ciò che rimane di quest’ultima.

Il governo ha affermato che l’accordo sulla riforma del mercato del lavoro dovrà essere siglato entro la fine di marzo, minacciando di procedere anche senza l’assenso di una parte dei sindacati, cioè della CGIL. È evidente che nelle attuali condizioni e senza mobilitazioni significative un accordo sarebbe disastroso. Per combattere l’immobilismo è importante capire quello che c’è veramente in gioco. In secondo luogo, va costruita una mobilitazione la più generale, capillare ed energica che sia possibile. È altresì evidente che una mobilitazione di questo tipo non può essere delegata alla sola Fiom e neanche alla sola CGIL, ma deve vedere una decisa e coordinata entrata in campo dei partiti della Fds, nonché dell’insieme delle organizzazioni e dei movimenti di sinistra.

In questa mobilitazione la difesa dell’articolo 18 non può essere un obiettivo a sé stante né una pura bandiera, ma deve diventare il perno sul quale organizzare l’opposizione al complessivo progetto di controriforma del mercato del lavoro e un progetto alternativo alla destra europea di cui Monti è piena espressione.
 

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1 Matteo Meneghello, Per le aziende risparmi del 25% con l’apprendistato, “il Sole24ore”, 18 febbraio 2012.
2 Vedi l’articolo di Andrea Imperia, Se tre anni vi sembrano pochi … le proposte del Pd sul mercato del lavoro, “Economia e politica”, 14 febbraio 2012. http://www.economiaepolitica.it/index.php/lavoro-e-sindacato/se-tre-anni-vi-sembrano-pochi-le-proposte-del-pd-sul-mercato-del-lavoro/
3 Vedi il sito di Eurostat. Eurostat, Statistics – Labour Market - Labour cost survey 2008 – Labour cost, wages and salaries, direct remuneration (Nace Rev. 2). Vedi anche il mio articolo su Economia e politica.
http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/perche-il-ministro-sbaglia-su-salari-e-costo-del-lavoro/
4 Sul collegamento tra precarietà, bassi salari e riduzione della produttività vedi D. Moro, Le cause del debito Ue e il che fare, “Marx Ventuno”, n.5 2011.

 

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