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La strategia della “crescita” del governo Monti*

Raffaele Sciortino

Interverrò sull’attualità provando a fare due cose: innanzitutto, un’analisi sintetica non solo della cosiddetta riforma Fornero del mercato del lavoro ma dell’insieme delle manovre Monti, più correttamente dovremmo dire del governo Monti-Napolitano succeduto a Berlusconi. Cercando di porre, questo il secondo punto, una domanda: c’è una strategia? Per rispondere a questa domanda è inevitabile provare a inquadrare le manovre del governo dentro l’attuale passaggio della crisi, il che ovviamente richiederebbe una analisi più articolata. Soprattutto per porre i nodi politici che stanno sul tavolo perché se anche, questa la tesi, c’è una strategia – non una grande strategia, però c’è un tentativo di versione italica di exit strategy dalla crisi, dentro quel quadro internazionale che dicevo, e se anche non è detto che riesca dal loro punto di vista negli obiettivi, però avrà, già sta avendo, degli effetti non solo rispetto al quadro sociale ma ai dispositivi di assoggettamento, così come nel prefigurare un terreno di possibili conflitti che in qualche modo si disloca in avanti.

Primo. Le manovre, l’insieme delle politiche del governo Monti-Napolitano si compongono di risanamento e “crescita”, lo mettiamo tra virgolette perché uno dei punti fondamentali è di tentare una decostruzione sensata di questa “crescita”. Ora, sul versante risanamento il governo utilizzando lo shock, operando una terapia-shock, è intervenuto subito sulle pensioni – una storia infinita questa del debito pubblico come leva di accumulazione delle ricchezze per chi sfrutta in variegati modi chi lavora; qui però a novembre, nel passaggio di consegne tra Berlusconi e Monti, in una situazione da rischio “fallimento” del sistema, abbiamo avuto un taglio secco delle pensioni fondamentalmente senza una risposta, sia dal punto di vista sindacale che sociale.

Un taglio che puntava se non a bloccare, a ridimensionare la crescita del debito pubblico, attutire l’ascesa dello spread e gli effetti del servizio del debito a favore della finanza internazionale, e insieme alle altre manovre ampliare l’avanzo primario (l’Italia è in avanzo primario, il bilancio statale è in avanzo una volta depurato della spesa per gli interessi sul debito). Insieme, un colpo duro sul versante tasse fatto passare come manovra “equa” , come misura di equità per tutti per intaccare l’annoso problema, difficilissimo da districare, dell’evasione fiscale. Però, se andiamo a vedere, fondamentalmente le tasse sulla casa (Imu ecc.) e una serie di pressioni per recuperare crediti non ancora riscossi tramite Equitalia, con quello che significa: quindi una patrimoniale sui ceti medio-bassi, nulla per i ceti benestanti.

Questo, detto sinteticamente, sul versante risanamento. Dopo di che è iniziata la “fase due”, o meglio il governo ha presentato la cosiddetta fase due, della “crescita”, che consta innanzitutto di provvedimenti - anche qui presentati con la grancassa e poi alla fine ridimensionati - sulle liberalizzazioni, in maniera molto propagandistica e ideologica, su quei settori di lavoratori autonomi di “prima generazione”, usiamo questo termine, e su settori soprattutto della distribuzione e della logistica, provvedimenti che fondamentalmente servono a produrre concentrazione, ingrandimento delle imprese, ingresso delle grande imprese della logistica in questi settori con una salarizzazione di fatto, se non formale, dei piccoli produttori con il loro piccolo capitale. Settori che soprattutto per una formazione economica come quella italiana sono molto numerosi, per ragioni storico-sociali ed economiche. Poi è arrivato il pezzo forte, la riforma del mercato del lavoro, sempre presentato per la “crescita” e come prospettiva che si andrebbe ad aprire per le nuove generazioni e per le lavoratrici e i lavoratori precari… Ora, senza scendere nei particolari, perché ci interessa interrogarci sul senso complessivo e sugli effetti, abbiamo fondamentalmente tre aree di intervento. Nei termini bruttissimi che vengono usati, sono la flessibilità in “entrata”, la flessibilità in “uscita” e gli ammortizzatori. Sulla flessibilità in entrata la promessa iniziale era quella di ridurre le tipologie di contratto, ridurre in qualche modo la precarietà: su questo versante vediamo che non si è fatto praticamente nulla, anzi se analizziamo il testo della riforma, oltre a conservare le quarantasei o quarantasette tipologie di contratto, diventa fondamentale o comunque acquisisce un rilievo molto più forte il contratto di apprendistato che sovrasta in qualche modo anche il tempo determinato e dovrebbe diventare il perno delle nuove modalità di ingresso nel mondo del lavoro. Una sorta di spinta, di costrizione a diventare al di là della tipologia contrattuale lavoratori autonomi permanenti che ora entrano ora escono dal mercato del lavoro.

Secondo: il pezzo forte simbolico e politico, l’abolizione di fatto dell’articolo 18 che però va visto nell’insieme sia della riforma Fornero sia degli interventi del governo. È cioè stato cancellato qualcosa che era parzialmente diventato residuale, però sono pur sempre circa sette milioni di lavoratori… ma soprattutto il significato è politico perché è passato definitivamente il principio della licenziabilità individuale: su chi dice, ipocritamente o con una sceneggiata da parte sindacale soprattutto Cgil, che il reintegro è salvo, stendiamo un velo pietoso.

Terzo ambito di intervento, i cosiddetti ammortizzatori sociali: anche qui si è puntato a eliminare le varie tipologie di cassa integrazione, in realtà si è conservata la cig ordinaria per le resistenze non solo e non tanto sindacali quanto in questa particolare contingenza soprattutto confindustriali, e anche per le preoccupazioni rispetto alle possibili conseguenze sociali (teniamo conto che finora con la cig ordinaria, con quella straordinaria e con quella in deroga data ai cosiddetti artigiani e alle piccole imprese si è impedito, si è congelato in qualche modo ciò che apparirebbe per quello che è, cioè una massa di disoccupati crescente). Anche qui la direttrice è chiara: eliminare l’indennità di disoccupazione e la cassa integrazione, in cambio di cosa? Si era promesso una rete di protezione per tutti/e: nulla di tutto questo, non c’è una ancorchè minima rete di protezione universalistica, non parliamo poi di reddito di esistenza/cittadinanza.

A tutto questo va aggiunto, ne è parte integrante, una delle misure più significative dell’ultima fase del governo Berlusconi-Tremonti, il famigerato articolo otto della legge varata quando esplose ad agosto la crisi dello spread, secondo il quale nella sostanza è possibile nella contrattazione aziendale derogare praticamente su tutto dai contratti nazionali. Quindi è stata destrutturata la contrattazione nazionale nella direzione del passaggio definitivo delle relazioni industriali a quello che, con espressione azzeccata, Rinaldini ha definito il sindacato aziendale di mercato, non il singolo sindacato aziendale come la cisl che conosciamo, al di là del suo corporativismo nel pubblico impiego, ma un sindacato di mercato, sempre più di “servizi” che si presenterà come intermediario di quei residui servizi che si salveranno dai tagli al welfare. Detto questo, a meno di una grave crisi politica di questo governo, è già in qualche modo in atto un ulteriore pezzo grosso: i tagli e le ristrutturazioni, mai da separare perché vanno insieme, con la spending review i tagli sulla sanità e alla spesa statale per i servizi sociali erogati dagli enti locali ai vari livelli, dove il pezzo grosso è comunque quello della sanità, e poi si prevedono interventi su scuola e pubblico impiego, che non saranno salvati dall’ondata ristrutturatrice. Stanno nelle cose ma non da qui a… basta guardare alla situazione economica che continua a dare segnali negativi, quindi da qui a mesi, che sia una nuova crisi dello spread o l’uscita della Grecia dalla Ue.

A cosa serve tutto questo. Primo, ad abbattere ogni residua capacità di difesa non individuale del lavoratore e della lavoratrice: l’abolizione dell’articolo 18 significa questo, quindi buttare chi lavora direttamente sul mercato cioè individualizzare nel lavoro e nell’impresa, portare a termine e generalizzare la ricetta Marchionne, se vogliamo usare una formula. Ma qui si va oltre: non solo perché l’altro obiettivo, dichiarato (basta vedere cosa scrivevano in quei giorni Repubblica e Il Sole), è abbassare i salari, perché quando sei ricattabile e licenziabile individualmente è ovvio che la pressione aumenta, e non domani basta vedere la vicenda dei voucher per i lavoratori agricoli in discussione in parlamento che si vuole estendere di brutto a buona parte delle imprese agricole e addirittura c’è l’idea di estenderlo a parte del terziario, per cui l’imprenditore derogando da tutto compra i voucher alla posta e poi vai a cambiarli alla posta ma sopra ci paghi, senza essere un dipendente, un 25% in tasse e contributi allo stato. Però c’è un punto – da discutere, è un’ipotesi interpretative - c’è una cifra ancora più profonda di questo insieme di misure quando dicevamo dell’apprendistato come contratto principe in qualche modo: al di là delle tipologie formali va colto il significato della cosa, cioè il prefigurare una sorta di percorso lavorativo a balzi come un apprendistato permanente e nel frattempo - mentre devi lavorare di più, lavorare in condizioni peggiori, lavorare per meno - proprio in relazione ai tagli sul welfare attivarti ancora di più per la tua riproduzione che tu sia uomo o donna, giovane o anziano. La cifra profonda è, per creare queste condizioni, separare il lavoratore dall’impresa e buttarlo direttamente sul mercato. Si va oltre la ricetta Marchionne che individualizzava dentro l’impresa e cercava di legarti alle sue sorti dentro lo scontro contro le altre imprese. Qui ti devi individualizzare sul mercato e scordarti che tu hai un minimo diritto sul posto di lavoro: è significativo che nel dibattito sull’articolo 18 sia venuta fuori l’affermazione che il lavoratore deve scordare di aver un “titolo di proprietà” sul posto di lavoro; la proprietà è sacra, in suo nome si salvano le banche ecc. ma non provate a applicare questo format al posto di lavoro.

Prima conclusione provvisoria. È un passaggio importante, che è vero che viene dopo una lunga serie di attacchi e ristrutturazioni ma sia per il contesto internazionale sia per quello politico è un passaggio secco che porta al fatto che siamo tutti e tutte più precari. Non solo perché per una buona parte di quello che era criticato, sbeffeggiato e giocato contro i precari, il cosiddetto lavoro “garantito” oramai si sono spalancate le porte, non blocchi più nulla, basta vedere le difficoltà non solo delle organizzazioni sindacali ma degli stessi lavoratori a reagire, queste falle si sono aperte e non si chiudono a queste condizioni, cioè guardando indietro. Ma anche perché in fondo per gli stessi precari - un mondo variegato - avevamo finora, fino all’esplodere della crisi, almeno due atteggiamenti, senza ridurre una fenomenologia complessa a questo, però avevamo da un lato l’atteggiamento di un precariato meno qualificato -su cui per esempio faceva leva la Cgil quando diceva “noi puntiamo al contratto a tempo indeterminato” e poi accettava di tutto e di più- per cui c’era l’idea che in fondo il precariato fosse una situazione transitoria, prima lo si pensava poi lo si sperava alla fine si è disperato che fosse transitoria. Questo ora non ha più nessun appiglio, se pure ne ha mai avuto. Dall’altro, per i lavoratori della conoscenza, gli autonomi di seconda generazione con una contrattualità legata alla propria “professionalità” c’era un’altra attesa, non si voleva né si vuole diventare lavoratori dipendenti, però ci si aspettava un paracadute, cioè nei momenti di difficoltà un minimo di welfare “nordico” che ti copra le spalle nei momenti di difficoltà. Ma stando così le cose… anche qui c’è una cesura importante. Ora, il fatto che siamo tutti più precari non vuol dire che la situazione diventi omogenea, rimane comunque differenziata, non siamo precari in maniera indifferenziata, non è sufficiente per una risposta ricompositiva però sicuramente il fatto stesso che, la butto lì, la stessa Cgil debba ora porsi il problema del precariato o muoversi un tantino di più - malissimo, per carità, con una piattaforma assolutamente insufficiente - su questo terreno o comunque si è iniziato a parlare non solo a livello di media mainstream ma di “opinione pubblica” di un reddito di esistenza, il fatto che la Fiom abbia acceduto a questa idea che in fondo tra reddito e lavoro non c’è quella barriera che si pensava e così via, sono tutti piccoli segnali, necessari anche se non sufficienti.

Veniamo alla seconda parte: c’è una strategia? La crescita è una strategia e quindi abbiamo bisogno di una critica e decostruzione di questa strategia oppure è una boutade da non prendere sul serio? È da prendere sul serio. Perché? Innanzitutto, anche sul piano di immagine il governo Monti ha cercato, senza riuscirci finora, di dire che i sacrifici si fanno per qualcosa, perché non puoi solo tagliare e togliere devi anche dare una prospettiva. Sarebbe interessante chiedersi, ma allargheremmo troppo il discorso, perché non ha usato in maniera un po’ più decisa la carta dei giovani contro i “garantiti”, all’inizio era stata presentata così e avrebbe avuto dei margini reali di consenso sia perché il mondo sindacale è quello che è, ancorato alla difesa dell’indifendibile con modi e strumenti inefficaci (sulla Fiom il discorso è un tantino differente). Sia perché ci sono stati degli accenni per cui il governo ha cercato di far leva oltrechè sul “rischio sistema” anche su una certa apertura di credito che indubitabilmente c’è stata nella popolazione italiana quando ha sostituito Berlusconi, un’apertura di credito, attenzione, che metteva in conto il dover fare i sacrifici per non “finire come la Grecia”, dobbiamo essere realistici, purchè essi servissero nella lotta contro la crisi e purchè equi o meno iniqui. Che è ciò che non essendosi realizzato ha provocato i primi scricchiolii nel consenso a Monti. Evidentemente Monti ha accennato a utilizzare quella legittima rabbia -bollata in maniera indecente dalla sinistra salottiera come antipolitica- la rabbia anti-partiti, però non può portare fino in fondo questo, se lo facesse avrebbe il consenso dell’ottanta per cento e farebbe passare meglio certi sacrifici, ma non può farlo perché non può saltare del tutto la mediazione politico-partitica (Napolitano a questo l’ha richiamato) perché si aprirebbero per l’establishment delle falle non facilmente richiudibili, potrebbe scappare di mano questa situazione, e il voto amministrativo col successo delle liste grilline sta lì a indicarlo, guardate il livore di Napolitano, temono questa destrutturazione del sistema politico e partitico istituzionale. Poi c’è anche un aspetto per cui questa classe dirigente è veramente separata dalla realtà e non sa parlare ai giovani (come Berlusconi all’inizio e una certa Lega), oltre al fatto che non hanno soldi per cui non sono riusciti a dare un colpo ai “garantiti” dando qualcosina agli altri. Però attenzione che questa carta non è del tutto esaurita, a date condizioni.

Vediamo dunque perché la strategia risanamento-crescita non è una boutade anche se non ha probabilmente nell’estrema difficoltà della crisi globale la possibilità di raggiungere gli obiettivi prefissati ma comunque avrà degli effetti anche sulle soggettività e sui terreni e contenuti del futuro scontro. È necessario allargare lo sguardo al quadro internazionale. Non è una boutade primo perché Monti sa che il risanamento, il tentativo di rintuzzare la crescita del debito pubblico e quindi della spesa per interessi non è sufficiente: basta vedere la contabilità pubblica, anche se si andasse a un avanzo primario secco, con tagli duri, e si riuscisse a contenere l’esplosione sociale, però tenuto conto del rischio contagio della Grecia, che comunque le banche vanno ricapitalizzate e probabilmente qualcuna cadrà, attenzione a quello che sta succedendo al MPS, comunque anche nelle condizioni per loro migliori il risanamento non è sufficiente se non altro perché non basta abbassare il numeratore, il debito, bisogna far crescere il denominatore, il Pil. Dall’altro, questo risanamento non è mai stato fine a se stesso, guardate - inizio ad avanzare delle tesi un po’ eretiche per la sinistra - non è fine a se stesso neanche per Berlino. Il risanamento deve servire da un lato a bloccare e ridimensionare la crescita del debito che apre le porte alla finanza transnazionale e soprattutto statunitense che scorrazza come e quando vuole scaricando la crisi sul debito sull’Europa e sull’euro. Questo in Germania, soprattutto ai falchi della Bundesbank e della Bce, è molto chiaro. Draghi è su questa linea e in parte Monti e tutti gli altri governi europei, sì certo perché c’è la pressione e più che pressione di Berlino (vedi la lettera dello scorso agosto della Bce) ma anche perché è un’esigenza di tutta l’Europa se non vuole diventare una prateria per le scorribande della finanza speculativa. Questa esigenza è condivisa, sono convinti di questo, non è semplicemente imposta da Berlino. Però oltre a questo bloccare o rintuzzare gli attacchi speculativi serve a prendere fiato per creare le condizioni per un rilancio dei profitti “reali”, ciò che sta dietro il denominatore. Un rilancio della produzione di beni e servizi sull’arco dell’intera società, nella produzione postfordista che si è andata a configurare negli ultimi decenni, sia per evitare nuove bolle speculative o comunque limitare i danni sia perché è un’esigenza sempre più pressante quella che se non fai profitti non valorizzi l’immane massa di capitale morto accumulato che altrimenti rischia di svalorizzarsi. E rischia di svalorizzarsi a favore dei concorrenti. Oltretutto perdendo pezzi di produzione nazionale e impoverendo gli asset reali della produzione della ricchezza e creando una situazione sociale che può anche esplodere. Questo è il punto fondamentale, non si tratta di qualcosa di esogeno ma è interno a queste dinamiche sociali e politiche: qui c’è uno scontro in atto - qui non posso soffermarmi, rimando al mio articolo Chicken Game, in rete - tra dollaro e euro, e tra le diverse strategie, benché non ancora di scontro aperto, tra Obama come sta affrontando la crisi e come Berlino sta affrontando la crisi. In mezzo, la periferia europea, in mezzo l’Italia che come sempre cerca di tenere il piede in due staffe.

Su cosa avviene questo scontro? Il primo livello, come dicevo, è quello della finanza e della moneta. E tutto il battage su Berlino, pensare che Hollande sia il salvatore, che è la linea del partito di Repubblica guidata dal finanziere De Benedetti, un Soros fallito in salsa italica, per dire Berlino devi fare gli eurobond, Berlino devi fare i project bond, Berlino devi allentare i cordoni della borsa, la Bce deve darci i soldi ecc. ecc., è un tentativo di mettere lo sporco sotto il tappeto, di tenersi a galla, di giocare di sponda su Obama e sugli Stati Uniti -perché gli Usa vogliono esattamente che vengano allentati i cordoni della borsa, che venga immessa liquidità nel sistema europeo per permettere ai propri capitali speculativi di fare incetta, finanziaria e reale, attenzione su questo ritorno, per evitare che cosa: che vengano fuori i buchi della JP Morgan, e non solo, di tutto il sistema bancario che è molto più infetto del debito pubblico greco. Qui c’è uno scontro sotto traccia perché nessuno può permettersi di dar contro agli Usa, e quando dicono “facciamo pressione su Berlino perché allenti i cordoni della borsa” e cercano di tirarsi dietro tutta la sinistra keynesiana o quello che rimane, non pensiamo che anche se avvenisse questo ci darebbero più stato sociale, ci sarebbero migliori condizioni, non ci taglierebbero il welfare. È tutto l’opposto: vorrebbe dire dare soldi alle banche per salvarle, come già con gli interventi di Draghi a dicembre e febbraio, vorrebbe dire dare soldi per le “infrastrutture” cioè costruire tante linee Tav (ovvero: movimento NoTav, basta), vorrebbe dire dare soldi alle grandi imprese e andare avanti su quei processi che loro definiscono di “crescita” che dicevamo prima. Nessun keynesismo sociale. Non c’è neanche negli Stati Uniti una sua presunta rinascita.

E qui c’è il secondo livello dello scontro e il secondo nodo politico perché non è solo una questione sul piano finanziario, finanza e produzione sono strettamente intrecciate oramai, non c’è produzione “reale” senza lo strumento finanziario. Qui il problema che si apre con l’andare avanti della crisi è chi manovra, riesce a ristrutturare il rapporto tra produzione e finanza pro domo sua scaricando la crisi e la svalorizzazione immane del capitale fittizio che si è creato in questi decenni sugli altri attori. C’è dunque una strategia, che non è solo italiana è sia tedesca-europea che obamiana, è una strategia di reinvestimento peculiare sul lavoro. È quello che sta dietro le manovre viste ma soprattutto, qui c’è una novità che sta uscendo solo ora, va investigata , i dati sono ancora pochi ma il dibattito, non qui da noi dove si sta dietro al guru Paul Krugman, c’è ed è su questo: attenzione non cancella i processi di questi decenni di creazione di filiere produttive globali, outsourcing e così via, ma il fatto è che qui si sta discutendo e ci sono già dati concreti sul fatto che bisogna abbassare le condizioni del lavoro produttivo e riproduttivo al punto tale da permettere di rilocalizzare in Occidente pezzi delle filiere globali che sono stati nei decenni scorsi delocalizzati fuori, soprattutto in Asia e Cina. Qui c’è uno scontro chiarissimo tra Stati Uniti e Cina, gli Usa puntano a far crescere il costo del lavoro in Cina, ovviamente facendo leva su un disagio e una esigenza reale della classe operaia cinese, e stanno iniziando a rilocalizzare dal Messico utilizzando la miseria creata dalla crisi come leva per l’accumulazione ma tentare anche un discorso verso la propria popolazione a tal punto a rischio di impoverimento che è costretta ad accettare… questo è Marchionne: cosa ha fatto? Non la Fiat ha comprato Chrysler, Chrysler ha “comprato” Fiat, eliminato un concorrente chiudendo stabilimenti e in cambio si è presa i soldi di Obama, ovvero liquidità stampata a gratis dalla Federal Reserve, tanto la paga il resto del mondo perché non ha corrispettivo reale, e al tempo stesso ha praticamente dimezzato il salario dei nuovi ingressi nell’industria dell’auto. Quindi c’è una battaglia su quello che viene definito, vedi un recente speciale dell’Economist, la terza rivoluzione industriale, la battaglia sull’insourcing. Dopo e contestualmente con l’outsourcing che continua, la battaglia sull’insourcing perché sanno che il mercato mondiale non si espanderà almeno a medio breve periodo e il contrasto è su chi riporta le produzioni e chi riesce a scaricare la svalorizzazione dei capitali fittizi sugli altri.

Cosa c’entra questo con l’Italia? C’entra eccome perché se possiamo vedere una strategia del governo Monti è esattamente questo. Da un lato, il piccolo è bello, i distretti sono stati completamente inadeguati nel reagire alla crisi, dobbiamo superare il nanismo delle imprese italiane, quindi concentrazione nella produzione, nella logistica, ecco le liberalizzazioni, e poi creare condizioni tali del lavoro e della riproduzione per cui non puoi far altro che accettare queste peggiorate condizioni e così richiamare gli investimenti. Non sto dicendo che questa è una strategia che passerà per forza, però sicuramente avrà degli effetti, innanzitutto sulle condizioni di vita e di lavoro, ma poi sui terreni su cui si disloca la discussione, il possibile conflitto, la soggettività.

La crescita, in sintesi, vuol dire abbattere le condizioni del lavoro non solo nella produzione ma anche nella riproduzione, non si tratta di tornare ovviamente a condizioni ottocentesche ma a condizioni di sfruttamento, per così dire, moderno e postmoderno insieme. Nessun keynesismo sociale anche se e quando la Ue allargherà un po’ dopo la “cura” del risanamento i cordoni della borsa, bensì si continua nei tagli e nella ristrutturazione del welfare, però spingendo i soggetti - giovani, anziani, uomini, donne, sui vari settori della riproduzione sociale - ad attivizzarsi in proprio accettando di non essere pagati, accettando di dare più tempo, ecco il punto, alla riproduzione e accettando che pezzi della riproduzione, del welfare, vengano buttati sul mercato e scambiati contro denaro per nicchie più ristrette. Quindi devi attivizzarti sul lavoro, quando cerchi lavoro, nella tua riproduzione. Un welfare attivo che consuma la vita. (Su questo insisteva già il Libro Bianco di Sacconi). E, terzo, processi di inclusione e esclusione con masse crescenti di working poors. Dove tutto questo, oltre al gioco di mettere gli uni contro gli altri, punta a non far venir meno quello che è stata la mossa vincentecapitalistica, non perché qualcuno o il capitalismo l’abbia voluto ma perché il rapporto di classe ha spinto i questa direzione, cercando di giocare pro crescita pro risanamento pro capitale l’elemento fondamentale per cui in buona parte dei nuovi lavori, anche investendo parte dei vecchi lavori, tu sei chiamato ad attivizzarti. Quindi la costituzione di soggettività per il capitale richiede un’attivizzazione, una costruzione di senso, la femminilizzazione del lavoro in questo senso forte, la messa al lavoro di tutte le capacità, che è poi la base materiale dei processi in atto.

È evidente che su tutti questi nodi, individuati bene o meno bene che siano, la critica di genere è fondamentale, basta pensare al reddito di esistenza: deve diventare un cuscinetto che ripara dalle conseguenze più gravi di un’attività produttiva meno pagata e peggiorata e dei tagli al welfare oppure deve essere qualcosa di più e di diverso? Quindi l’intreccio di produzione e di riproduzione, la critica di genere come lavora su questo? C’è un impasse di tutta la sinistra, di tutti gli approcci critici, in qualche modo anche della critica femminista. In gioco, la vera posta in palio sono le nuove generazioni, non intendo solo il dato strettamente anagrafico ma il cambiamento del rapporto di classe tale per cui ci sono delle basi materiali per una crescente individualizzazione del lavoro e della vita, nella produzione e nella riproduzione. Questo è un punto cruciale per la costruzione dell’antagonismo: mentre nelle vecchie composizioni del lavoro, pensiamo all’operaio massa, l’espropriazione capitalistica del proprio lavoro era evidente e la risposta, se c’era, non poteva che essere collettiva, semplificando al massimo oggi abbiamo un’espropriazione di tutta la vita, non solo più del lavoro, di tutta la sfera dell’esistenza umana che appare però realmente in certe dimensioni come un’appropriazione. Di cosa? Di contenuti relazionali, cognitivi, affettivi. La contraddizione è reale: qui la base materiale dell’ambivalenza per cui come individui sociali, dentro una rete di relazioni –l’individualizzazione è l’altra faccia dell’immane socializzazione del lavoro e della vita- diventiamo e ci vogliono far diventare individui-impresa. Allora il problema è come de/impresizzare -un terreno sul quale il capitale sembra più avanti del lavoro- senza però perdere la ricchezza dell’individualità. Forse può servire anche al dibattito femminista, lo dico con molta cautela, perché qui il problema non è tanto e solo la costruzione di race e gendering come identità-contro, con tutti i rischi del caso, ma il nodo dell’ambivalenza per cui o vai verso un individuo-impresa oppure passando di lì riesci a ricostruire la cooperazione sociale. Nella fase precedente abbiamo avuto la classe operaia contro il capitale cui si sono “aggiunti” giovani donne movimenti, sull’onda delle lotte anticoloniali; poi con la destrutturazione della classe operaia fordista sono rimaste le lotte intorno alle identità costruite che potevano essere giocate-contro. Ora invece il nesso diventa direttamente individuo sociale, singolarità contro lo sfruttamento, l’espropriazione della vita, tutte le identità-contro per essere all’altezza di quello che è diventato il rapporto capitalistico di classe oggi devono in qualche modo affrontare questo nodo, la riappropriazione delle condizioni sociali della produzione e riproduzione.

*Intervento al seminario “Il genere al lavoro” del Laboratorio Sguardi Sui Generis, 15/5/12
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