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Una tassa da filantropi

di Marco Bascetta

Nella cultura della sinistra il fisco gode da molto tempo di una solida deferenza e di una sostanziale protezione dall’esercizio della critica. Rovesciando così quella tendenza plurisecolare che vedeva le masse popolari insorgere, frequentemente e soprattutto, contro dazi, gabelle, imposte e lavoro coatto, al seguito dei tanti Masaniello prodotti dalla rapacità dei governanti. Le ragioni di questo rovesciamento sono, all’apparenza, piuttosto ovvie. Mentre ai tempi del feudalesimo prima e dello stato assolutista poi il taglieggiamento dei ceti produttivi, per quanto poveri o impoveriti, serviva a mantenere lo sfarzo delle corti, del clero e dell’aristocrazia e il debito sovrano, contratto per finanziarie guerre di espansione e di conquista che estendevano a loro volta il prelievo ai paesi sconfitti , con l’avvento della democrazia rappresentativa e dei sistemi di welfare state la fiscalità si attribuisce un nuovo principio di legittimazione: finanziare l’effettivo godimento dei diritti di cittadinanza e soddisfare i bisogni basilari della popolazione garantendo a chiunque condizioni dignitose di vita. L’obbligo di versare le imposte assume così i tratti di un imperativo morale derivante dalla «volontà generale». Tuttavia nemmeno lo stato democratico si è dimostrato capace di fugare le antiche ombre dell’arbitrio e dell’obbedienza dovuta, cresciute nell’ambiente del paternalismo assolutista.

L’opacità dei nessi amministrativi, l’autoreferenzialità degli apparati distributivi infestati di piccoli e grandi poteri che condizionano il godimento dei diritti riconosciuti rendendoli una variabile dipendente da incontrollabili costellazioni di interessi, la torbida composizione del debito pubblico stesso hanno provveduto a sbriciolare non poco quel principio di legittimazione.

Sarebbe ingenuo imputare questi processi a semplici disfunzioni o episodi di corruzione, ignorando quanto arbitrio e quante ingiustizie siano connaturati alla stessa struttura statale della sfera pubblica e al suo potere redistributivo. Il disegno dello Stato nell’imposizione degli obblighi e nell’impiego delle risorse, così come quello della divina provvidenza, è alquanto imperscrutabile, cosicché del tragitto dal male dell’imposizione al bene del diritto e delle garanzie ben poco ci è dato sapere e ancor meno controllare. Non a caso i francesi hanno chiamato i sistemi statali di welfare «Stato-provvidenza».


Il paternalismo ottimista


Prendendo le mosse da questo dato di una imposizione autoritaria e in larga misura al riparo da ogni controllo democratico Peter Sloterdijk si avventura, a partire da un articolo pubblicato sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung nel giugno del 2009, in una serrata critica della fiscalità, cui seguiranno altri saggi e interviste sullo stesso argomento, poi raccolti in volume nel 2010. Il primo e l’ultimo scritto di questa edizione è ora disponibile in traduzione italiana con il titolo La mano che prende e la mano che dà, per i tipi di Raffaello Cortina (pp. 137, euro 13). Muovendo dalla ragionevole critica di uno statalismo che non ha mai reciso le sue radici assolutistiche, Sloterdijk approda a una delle numerose varianti della filosofia del dono e a un ottimismo antropologico di stampo sostanzialmente antiegualitario. Quattro sono le modalità fiscali che egli elenca: il saccheggio e la conquista, il paternalismo sovrano, la cosiddetta «retro-espropriazione», e, infine, la libera donazione, optando enfaticamente per quest’ultima cui attribuisce il valore di un vero e proprio salto di civiltà. L’attuale sistema fiscale, sostiene Sloterdijk, è dato da una combinazione della seconda e della terza modalità, laddove istanze socialiste e potere assoluto rivelano la loro intima complicità. La modalità «socialista» poggerebbe sul presupposto che vi siano degli «espropriatori» meritevoli di essere a loro volta espropriati a favore della collettività. Sloterdijk, tuttavia, negando il fatto dello sfruttamento e relegandolo tra i consunti arnesi dell’ideologia, destituisce la «retro-espropriazione» di qualsiasi legittimità. Poiché la ricchezza non proverrebbe da alcuna appropriazione del comune o dallo sfruttamento del lavoro, i suoi detentori non avrebbero contratto alcun debito con la società tale da giustificare una restituzione per via fiscale.


I diktat della vita virtuosa


Questo assunto ha più o meno il valore di un articolo di fede e poggia sul rifiuto o sull’incapacità di seguire le metamorfosi dello sfruttamento dal capitalismo produttivo a quello finanziario (il quale reintroduce fra l’altro la modalità del saccheggio e rilancia una lotta spietata tra creditori e debitori), decretandone la sparizione e approdando a una ideologia filantropica tanto irrealistica quanto le sue premesse antropologiche. Ma per chi non intenda librarsi tra queste nuvole non è la redistribuzione dello sfruttamento bensì la sua eliminazione la posta in gioco. Detto altrimenti, non esiste una via fiscale alla «società giusta», né di stampo egualitario, né di stampo liberale. Alla coazione del prelievo si aggiunge infatti una rigidità prescrittiva dell’offerta di garanzie e servizi sempre meno adeguata alla complessa geografia dei modi di vita e dei bisogni individuali e collettivi che porta acqua al mulino degli ultraliberisti quando accusano il sistema fiscale di calpestare la varietà dei progetti individuali, tratteggiando a proprio arbitrio i contorni della «vita virtuosa», di monetizzare tutto, o di far pagare come imposte servizi e presunti «beni comuni» che il cittadino non può scegliere. C’è, per esempio, da dubitare che i pensionati greci sentano il bisogno impellente di una flotta di sommergibili nucleari. Difficile, allora, dare torto agli ultraliberisti quando concludono che non esiste nessuna imposta equa. Conclusione analoga a quella cui giunge Sloterdijk quando propone, a partire da questa insuperabile iniquità, una contribuzione misurata sulla sola coscienza dei singoli, sul desiderio di partecipare al progresso civile, su principi come la distinzione e il prestigio. Sul ritorno di immagine, insomma, come direbbero più prosaicamente i consulenti di marketing che vanno al sodo. Ma questa volontà narcisisticamente pietosa che intenderebbe prendere il posto smisurato della nietzscheana morale aristocratica finisce col condividere implicitamente principi e punti di vista tipici dei borghesissimi discepoli di von Hayek, primo fra tutti quello secondo cui l’imposta non farebbe altro che trasferire la ricchezza da quanti la hanno creata a coloro che non hanno fatto nulla per produrla. Laddove la creazione di risorse è considerato un processo esclusivamente individuale, che, al massimo, trova un suo prolungamento nella famiglia e dove solo ogni individuo è metro del suo utile.


La nefasta utopia


Ed è proprio entro questo radicale individualismo proprietario, che nega qualunque fattore cooperativo nella creazione della ricchezza, aborrisce qualsiasi ipotesi di progressività fiscale, difende il patrimonio, il profitto e la rendita da ogni pretesa redistributiva, che il filantropismo «civilizzatore» alla Sloterdijk trova il suo habitat ideale. Non siamo poi così lontani dal «capitalismo caritatevole» dell’America di Bush, anche se passando dalla bible belt ai lettori della Frankfurter Allgemeine Zeitung, il linguaggio necessariamente si fa un po’ più raffinato. Fatto sta che anche i più fieri oppositori della tirannia fiscale, ben lontani dall’ottimismo antropologico del filosofo, non si fanno soverchie illusioni. E così, rinunciando all’utopia gentile della donazione volontaria, si arroccano sulla cosiddetta imposta sulla spesa globale che tassa l’uso e non il possesso o il risparmio (suadente definizione per profitti e rendite). In parole povere nessuna tassa sull’acquisto di un diamante, di un’isola greca o di un pacchetto azionario, ma nessuna pietà fiscale per i generi di consumo e i redditi che evaporano nel vivere quotidiano senza mai divenire «ricchezza». È l’antitesi secca a ogni ipotesi di patrimoniale, per non parlare della tassazione di quel formidabile fattore di produzione di denaro a mezzo di denaro che sono le transazioni finanziarie. Lo sceriffo di Nottingham è tornato tra noi. L’imposta resta iniqua, ma i ricchi sono al riparo. Lo stucchevole ritornello che accompagna, invece, l’evolversi della crisi e gli improvvisati tentativi di governarla senza sfiorare nemmeno di striscio i «fondamentali» dell’economia di mercato recita quotidianamente così: «ognuno deve fare la sua parte per rimettere i conti a posto e salvaguardare la credibilità (ossia la solvibilità) del paese». Un severo paternalismo fiscale si incarica dunque di correggere vizi e sregolatezze dei cittadini che avrebbero compromesso, con la complicità di governi deboli e corruttori, l’onorabilità del debito sovrano. Di castigare i poveracci che avrebbero vissuto, ricattando la politica ed evadendo il fisco, al di sopra dei mezzi consentiti dai loro miserabili redditi divenuti per giunta prevalentemente precari. Il fisco, in questo Sloterdijk ha ragione, è un dispositivo di espropriazione incapace di equità, ma, dimentica di aggiungere, inscritto in un determinato rapporto di forze e sorretto da una ideologia egemone, in grado di imporre la forma di iniquità da perseguire. È, in poche parole, un terreno di conflitto entro il quale l’imposizione così come l’evasione può significare tanto accumulazione del profitto (per esempio quello delle rendite finanziarie) quanto necessità di salvaguardare condizioni appena accettabili di vita. Come l’imposizione fiscale, così anche l’evasione non è eguale per tutti. Per molta parte del lavoro autonomo indigente, inchiodato dagli studi di settore a presunti redditi aldilà da ogni immaginazione, l’entrata in clandestinità è di fatto una scelta obbligata.


Compassionevoli alla prova


Ma l’elemento decisivo, quello politicamente più rilevante, è l’intreccio, oggi sempre più stretto e inestricabile, tra la pressione fiscale e l’evoluzione della crisi finanziaria globale. L’idea di una fiscalità che, attraverso lo stato, trasferisca dai singoli alla collettività le risorse necessarie a soddisfarne i bisogni sulla base di un patto politico è una favola della buonanotte che neanche i più spudorati si sognano di continuare a raccontare. Con il che il salto dalla fiscalità «assolutista» a quella «democratica» risulta seriamente compromesso. Il fatto è che allo sfarzo delle corti da mantenere si è sostituita la meno appariscente ma assai più vorace rendita del capitale finanziario con la sua natura intrinsecamente speculativa. Tra i bisogni sociali, i redditi dei singoli e lo stato-provvidenza si inseriscono insomma i mercati finanziari che dettano direttamente livelli e struttura del prelievo fiscale e dello sfruttamento del lavoro. Questa corte non è per nulla composta dai piccoli risparmiatori con i cui soldi e con la cui credulità nutre il proprio sfarzo ed esercita un enorme potere di ricatto che pervade capillarmente la vita di tutti. È dunque in uno scontro senza esclusione di colpi tra creditori e debitori, in cui sono in gioco le forme contemporanee dello sfruttamento e del comando sulla vita dei singoli e delle collettività, (quanto di più lontano dalla coesione patriottica che ci viene predicata ogni giorno), che la questione fiscale deve essere inscritta. Un contesto nel quale, come la vicenda greca dimostra quotidianamente, la sommossa popolare contro le imposte riacquista tutta la sua cogenza. Con il rischio, certo, che molti cerchino rifugio nel rafforzamento delle vecchie sovranità nazionali, quelle stesse sovranità che, impedendo un governo politico dell’Europa, hanno consegnato i suoi cittadini alla mercé della rendita finanziaria e alla voracità dei potentati nazionali che di quella rendita sono ampiamente partecipi. Augurandoci che i movimenti non cadano in questo tranello, ci aspettiamo nel frattempo che la «filosofia delle tasse» di Sloterdijk convinca i manager dei fondi di investimento e i pescecani della borsa a tassarsi volontariamente per consentire il progresso della civiltà e bearsi così della gratitudine di tutti.

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