Print
Hits: 2158
Print Friendly, PDF & Email

Anche ai padroni non piace l’austerità

di Guglielmo Forges Davanzati

Il Presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha ripetutamente chiarito che, affinché si possa ragionevolmente confidare nella ripresa della crescita degli investimenti in Italia, occorre ridurre il ‘cuneo fiscale’ (riducendo la tassazione sul lavoro dipendente), ampliare i mercati di sbocco interni (il che richiederebbe aumenti di spesa pubblica e/o riduzione dell’imposizione fiscale) e, soprattutto, rendere più agevole l’accesso ai finanziamenti bancari da parte delle imprese.

Su quest’ultimo aspetto, occorre partire da un dato di fatto. L’Italia, almeno fino agli anni che hanno preceduto la crisi, è stato, fra i Paesi OCSE e insieme al Giappone, il Paese nel quale è stata più alta la propensione al risparmio delle famiglie. Ciò è in larga misura imputabile al fatto che l’economia italiana – e ancor più quella meridionale - è arrivata relativamente tardi a configurarsi come un’economia industrializzata. Un’economia con elevata incidenza della produzione agricola (e dell’occupazione in agricoltura) è, di norma, un’economia nella quale le famiglie tendono appunto a limitare i propri consumi e a mantenere elevati i risparmi.

Nel corso degli ultimi anni, la propensione al risparmio degli italiani si è drasticamente ridotta. L’Istat calcola, a riguardo, che il tasso di risparmio nazionale lordo, partito da una media del 22,4% nel decennio 1981-1990, è sceso al 20,7% nel decennio successivo. Il declino è continuato nei primi anni Duemila, passando dal 20,2% nel 2001, al 19,9% nel 2002 e al 18,7% nel 2003, e attestandosi – ad oggi – a meno del 12%. Negli ultimi anni, ciò è accaduto fondamentalmente per due ragioni:

 

1) Le politiche di ‘austerità’ hanno prodotto una rilevante contrazione del reddito pro-capite, soprattutto a danno delle famiglie con redditi più bassi e soprattutto a danno delle famiglie meridionali. La riduzione del reddito si è tradotta nella contestuale contrazione dei consumi e dei risparmi. A ciò si aggiunge il notevole aumento della disoccupazione giovanile (che si assesta su percentuali superiori al 30% sul totale della forza-lavoro) e della popolazione giovanile inattiva – i c.d. NEET. E’ del tutto evidente che, a fronte di questo fenomeno, i risparmi delle famiglie vengono progressivamente erosi, dal momento che i giovani inoccupati possono consumare solo attingendo al patrimonio familiare, in una condizione nella quale è per loro precluso il canale del finanziamento bancario per prestiti al consumo.

2) La modifica della composizione anagrafica della popolazione italiana (con particolare riferimento alla riduzione della natalità) costituisce parte integrante del problema, dal momento che uno dei principali moventi che spingono le famiglie a risparmiare consiste precisamente nell’obiettivo di trasmettere risorse ai propri figli. L’evidenza empirica disponibile – non solo nel caso italiano - mostra che la denatalità è correlata alla precarietà della condizione lavorativa. Fra gli effetti della crescente precarizzazione del lavoro va, dunque, incluso il calo delle nascite e, in quanto il risparmio privato tende a essere più elevato (a parità di altre condizioni) per le famiglie con figli, la denatalità costituisce un ulteriore fattore di contrazione dei risparmi.
Il calo dei risparmi si traduce nella riduzione dei depositi bancari, che, a sua volta, spinge le banche a essere meno accomodanti nell’erogazione di finanziamenti alle imprese. Le quali, peraltro, nella gran parte dei casi, hanno sperimentato, a partire dallo scoppio della crisi, una consistente riduzione dei loro profitti, così che – anche nei casi nei quali vi è volontà di investire – risulta sostanzialmente impossibile farlo, sia per la restrizione del credito sia per l’impossibilità di autofinanziarli.

E’ evidente che il combinato di questi fenomeni costituisce un rilevantissimo freno alla crescita economica, ed è altrettanto palese che il problema è molto più accentuato per le imprese meridionali. Ciò sia a ragione del maggior calo dei profitti (e del maggior tasso di fallimento) delle imprese localizzate al Sud, sia a ragione dell’esistenza (già negli anni che hanno preceduto la crisi) di fenomeni di razionamento del credito.


Si giunge, così, alla conclusione secondo la quale quanto minore è la spesa pubblica (e/o quanto maggiore è la tassazione), tanto minore è il tasso di crescita, dal momento che le politiche di ‘austerità’ contribuiscono anche a frenare la crescita degli investimenti privati, per il tramite della restrizione del credito che queste generano. Si delinea, in tal modo, una spirale viziosa che va dalla riduzione della spesa pubblica (e/o dall’aumento della pressione fiscale) alla riduzione degli investimenti privati – conseguente alla riduzione dei margini di profitto e alla restrizione del credito – all’aumento della disoccupazione, alla conseguente riduzione dei risparmi privati. A ciò si può aggiungere che, per quanto attiene al bilancio pubblico, la riduzione degli investimenti e l’aumento della disoccupazione – in quanto riducono la produzione – contribuiscono a rendere sempre più difficile ridurre il rapporto debito pubblico/PIL, ponendo seri dubbi in merito alla razionalità delle politiche di rigore di bilancio in fasi recessive (v. anche http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-fallimento-dellausterity/).

Il problema può essere visto anche da un altro punto di vista. Dal momento che le politiche di austerità riducono la domanda interna, esse comportano una contrazione dei profitti monetari delle imprese e, al tempo stesso, rendono sempre più difficile l’aumento delle loro dimensioni. Poiché le banche finanziano tendendo conto soprattutto delle garanzie reali e dei profitti attesi (variabili strettamente dipendenti dalle dimensioni d’impresa), l’attuazione di politiche fiscali restrittive non produce altri effetti se non – anche per questa via – la minore convenienza da parte delle banche a erogare finanziamenti e, anche per questa via, la contrazione degli investimenti privati e del tasso di crescita.

Quantomeno su questi aspetti, la posizione di Squinzi appare del tutto ragionevole, e completamente opposta a quella del Governo. Il che costituisce un’ulteriore conferma del fatto che mettere assieme austerità e crescita è un ossimoro, che le politiche di austerità sono controproducenti per l’obiettivo per le quali sono messe in atto (la riduzione del rapporto debito pubblico/PIL), e che ormai si pongono in palese contraddizione non solo con gli interessi dei lavoratori e della ‘classe media’, ma anche – e sempre più – con quanto la gran parte dell’imprenditoria italiana si aspetta.

Web Analytics