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Keynesismo, socialdemocrazia e l’anomalia italiana

di Francesco Scacciati

Nei paesi per i quali la migliore definizione penso possa essere “a capitalismo democratico”, si è quasi sempre potuta distinguere “una destra” e “una sinistra”. Nell’ambito di quest’ultima, molto frequentemente si è potuto ulteriormente distinguere tra una sinistra moderata o “di governo” e una sinistra radicale o “antagonista”. La sinistra radicale molto raramente ha fatto parte delle coalizioni al governo e, quando ciò è accaduto, ha avuto un ruolo largamente minoritario e sostanzialmente di appoggio alle forze “riformiste”. Ma, a parte l’autodefinirsi tali (che ovviamente non basta), che cosa contraddistingue i partiti di sinistra, seppur moderata, dalla destra nei paesi a capitalismo democratico? Probabilmente l’elenco non è brevissimo e forse è anche opinabile. Pacifismo e ambientalismo certamente sono parte della cultura di sinistra, ma non è escluso che ci possa essere una destra pacifista (o quantomeno “non interventista”) e ambientalista; altrettanto può valere per l’accoglienza degli immigrati, per la tolleranza nei confronti di altre culture e delle diversità in generale, etc. Uno degli elementi caratterizzanti della sinistra è, a mio avviso, l’aver creato, o esteso e rafforzato, lo stato sociale, il cosiddetto welfare, o avere ciò nel proprio programma.

Nell’ultimo trentennio, però – in seguito al ritorno del predominio assoluto nell’accademia così come tra i “consiglieri del principe”, e infine nella “cultura economica diffusa”, dell’economia neoclassica, nella sua versione integralista, detta neo-liberismo1 , caratterizzata dal cocktail globalizzazione + liberismo, entrambi senza alcun controllo – la sinistra, quantomeno nel campo dell’economia, è stata caratterizzata da una “versione ridotta” del principio sopra menzionato, e cioè dall’aver aumentato, o aver cercato di aumentare (o di aver cercato di evitare che altri riducessero) la componente pubblica nell’economia.

Nei fatti, ciò significa aver cercato da un lato di difendere il livello di welfare conquistato nei decenni precedenti, dall’altro aver adottato, o cercato di far adottare, le ricette della politica economica keynesiana nei periodi di crisi economica, in atto o manifestamente in arrivo2 .

Parlo di “versione ridotta” perché il keynesismo non ha, di per sé, una specifica connotazione di sinistra. Una volta definitivamente abbandonata l’ideologia neo-liberista che ha portato al logoramento dell’economia reale dei paesi capitalisti democratici negli ultimi decenni e alla frana finanziaria degli ultimi anni, il compito di sostenere la domanda aggregata nei periodi di rallentamento o di recessione economica dovrebbe essere comune ai governi di destra come a quelli di sinistra. Infatti, se è vero che una maggiore presenza del settore pubblico nell’economia porta, nella realtà dei fatti, a una più equa (o meno iniqua) distribuzione del reddito3 , sia con il bilancio pubblico in pareggio, sia con il bilancio pubblico in deficit, è anche vero che il sistema capitalista funziona solo se il livello della domanda aggregata è sufficientemente alto da sostenere la crescita di produzione e profitti. Insomma, non il pareggio di bilancio, ma il sostegno della domanda e dell’occupazione dovrebbe essere sancito come dovere imprescindibile di qualsiasi governo.

Il keynesismo prescrive anche, in periodi di boom economico con forti fenomeni inflazionistici da domanda (che si verificano solo quando il sistema entra nella zona di piena occupazione), di ridurre la spesa pubblica e/o aumentare le imposte in modo da avere un attivo di bilancio. Il motivo per il quale il termine “keynesismo” è più spesso abbinato alle politiche espansive è semplicemente dovuto al fatto del maggior allarme sociale che le recessioni provocano rispetto all’inflazione (salvo quella galoppante) e soprattutto a ovvie ragioni storiche (il keynesismo si affermò come antidoto alla grande crisi del ’29). Le ricette keynesiane nulla dicono in termini specifici sulla “natura” della spesa pubblica. Tutt’al più saranno da preferirsi quei settori di spesa che presentano un moltiplicatore più elevato, che sono più flessibili (e cioè possono essere più facilmente aumentati o diminuiti) e che più siano di sostegno alla crescita economica: insomma, tutto ciò è l’identikit della spesa per opere pubbliche, meglio se realizzabili in tempi relativamente brevi. Le spese per il welfare non sono pertanto affatto specifiche delle politiche economiche keynesiane, mentre lo sono di una socialdemocrazia.                  

Pertanto, mentre si può affermare che un governo socialdemocratico non può prescindere da interventi di politica economica keynesiana quando l’economia presenti squilibri, non è altrettanto vero che interventi di politica economica keynesiana implichino l’esistenza di un governo socialdemocratico o genericamente di sinistra: implicano soltanto l’esistenza di un governo ragionevole. La socialdemocrazia presuppone invece l’esistenza di un robusto stato sociale – con la redistribuzione del reddito che questo comporta – il quale non potrà in nessun caso essere messo in discussione dagli alti e bassi dell’economia di mercato che pure rimane a fondamento della creazione delle risorse, salvo (probabilmente) quelle relative ai settori strategici.                                                       

La spesa pubblica è dunque una specie di elastico nella teoria keynesiana: se l’economia va, non sono necessari particolari interventi pubblici salvo quelli per diminuire l’incertezza che è un “riduttore degli investimenti” e dunque un potenziale costante fattore di recessione4 . Invece, la spesa pubblica non può che rimanere sempre al di sopra di un determinato livello quando fosse stato realizzato uno stato sociale. A tale proposito, è interessante rivedere il dibattito tra William Beveridge e John Maynard Keynes. Come per Beveridge, anche per Keynes la disoccupazione era motivo di grande preoccupazione, considerata la radice dei mali dell’economia di mercato e una possibile causa di soluzioni totalitarie, ma fondamentalmente, per quest’ultimo, la drastica riduzione della disoccupazione è funzionale al sostegno della domanda aggregata. Sull’estensione del welfare state, proposta nel Beveridge Report del 1942, invece, Keynes avanzava qualche perplessità (pur essendosi esplicitamente dichiarato favorevole), ponendosi il problema della sua sostenibilità da parte del bilancio pubblico: la rigidità della spesa pubblica e la possibile persistenza di deficit di bilancio non erano certo presenti nel pensiero di Keynes, il quale prevedeva che, nei periodi di boom economico, riavviati dal deficit spending durante la recessione, l’aumento del gettito fiscale determinato dal boom stesso creasse un attivo di bilancio che ripianasse i debiti contratti durante il periodo di recessione. Ma anche tra il tipo di società tratteggiata nel Beveridge Report e quello perseguito dalle socialdemocrazie vi è una differenza, consistente principalmente nel fatto che queste ultime sono connotate dalla centralità del lavoro, mentre nel welfare dell’economista-sociologo inglese – prima membro e poi leader dei Liberals nella House of Lords – è centrale la società nel suo complesso.           

Naturalmente, non è facile definire quale sia la presenza ottimale del settore pubblico nell’economia, né in termini quantitativi né in termini qualitativi. Però, se un partito predica la riduzione generalizzata del gettito fiscale e della spesa pubblica, la privatizzazione di ogni sorta di attività in precedenza gestita dalla mano pubblica e la liberalizzazione senza regole delle attività economiche, tale partito è oggettivamente di destra. Ho usato il termine “generalizzata” non a caso, in quanto vi possono essere casi specifici nei quali ciò può essere, invece, opportuno: le aliquote che gravano su redditi e consumi dei meno abbienti possono essere ridotte5 ; il settore pubblico può avere oggettive difficoltà a gestire determinate attività o a fornire determinati servizi; gli sprechi di denaro pubblico vanno eliminati; inoltre, in non pochi casi, specie nel nostro paese, gli iter burocratici sono spesso inutilmente contorti, cervellotici e vessatori nei confronti di cittadini e imprese.  

L’Italia, si dice, non è un paese normale. E, almeno per quanto detto finora, è difficile affermare il contrario. I partiti della cosiddetta sinistra riformista parlamentare avevano da tempo ripiegato, rispetto alla versione ridotta sopra descritta, su una versione ulteriormente ridotta, identificabile nell’antiberlusconismo, tanto militante quanto fine a se stesso. Non può non colpire il fatto che la pioggia di veementi critiche, quasi sempre più che giustificate, che si abbattevano su ogni iniziativa del governo presieduto da Berlusconi erano spesso argomentate in maniera opposta da partiti e “forze” di opposizione. Il che preoccupa non poco in termini di coesione di una possibile futura coalizione elettorale. Il caso più eclatante riguardava la posizione e gli argomenti di Confindustria: non si può certo negare che questa, nel corso del 2011, avesse assunto posizioni molto critiche nei confronti del governo di Berlusconi e in particolare del premier e per questo è stata non poco incensata dai leader politici e dai media dell’opposizione. Ma i motivi per i quali Confindustria era critica nei confronti del governo Berlusconi si riferivano alla mancata approvazione di leggi e iniziative che difficilmente potrebbero far parte di un programma politico anche della sinistra più moderata: privatizzazioni di ogni sorta di servizi pubblici, liberalizzazioni generalizzate senza garanzie sia sulla sicurezza delle condizioni di lavoro. È difficile dimenticare l’applauso scrosciante che ha accolto l’AD della Thyssen-Krupp, condannato a 16 anni di carcere per l’omicidio con dolo eventuale di sette lavoratori: l’incidente si verificò perché la dirigenza pensò bene di realizzare ingenti risparmi sui costi della sicurezza (con un aumento dei profitti di pari importo). 

Il venir meno del ruolo istituzionale (ma non della sua consistenza in parlamento) del “comune nemico” ha completamente spiazzato questa anomala coalizione, che ora, col governo Monti, si trova a essere divisa tra plaudenti, perplessi e critici. Ma ciò che preoccupa maggiormente è l’assenza di un progetto politico di lungo periodo e di ampio respiro della sinistra italiana. La sensazione è che tale vuoto sia determinato soprattutto dalla totale assenza di qualsiasi riferimento storico: dalla storia dei movimenti operai, alla storia dei partiti politici della sinistra. La “linea” (?) politica varia quotidianamente, sulla base di un’estemporanea presa di posizione sui fatti del giorno.

In particolare, trovo stupefacente la totale, nonché addirittura dichiarata e ostentata, mancanza da parte dei partiti della sinistra riformista di qualsivoglia riferimento ai partiti socialdemocratici europei, i quali non solo hanno alle spalle una storia di grandi vittorie elettorali, di straordinarie conquiste nel campo sociale e di permanenza al governo per periodi lunghissimi, ma hanno avuto un tale consenso e hanno talmente informato i paesi che hanno a lungo governato della propria visione della società che, anche quando hanno perso le elezioni, il vincitore conservatore o moderato ha tutt’al più limato un po’ imposte e spesa sociale, senza tuttavia nemmeno sognarsi di intaccare i fondamenti del welfare state creato dai governi socialdemocratici.

La socialdemocrazia rappresenta a mio avviso la più alta forma di governo che abbia saputo coniugare libertà e giustizia sociale che sia mai stata realizzata, quantomeno in epoca moderna, e perciò reputo bizzarra l’affermazione, molto diffusa anche nella sinistra, secondo la quale quello della socialdemocrazia sarebbe un modello superato. Ciò è smentito non solo da quanto appena detto, ma anche dal fatto che partiti socialdemocratici sono tutt’ora al governo di avanzatissimi paesi europei: ultima arrivata la Danimarca (ma si tratta di un gradito ritorno).  

Affermare l’attualità del modello socialdemocratico non significa ovviamente averne un’idea statica o proporne una realizzazione “fotocopia” di quello realizzato in altri tempi e in altri luoghi. Anche le socialdemocrazie più affermate hanno dovuto scontrarsi con i problemi portati dalla globalizzazione e dall’immigrazione che hanno creato difficoltà al mantenimento del welfare state ai livelli dell’ “epoca d’oro”; purtuttavia non si può non sottolineare come i paesi scandinavi, che hanno di gran lunga il carico fiscale più elevato, presentino tassi di crescita superiori alla media europea (in particolar modo la Svezia), smentendo così uno dei principali assiomi, tanto diffuso quanto inconsistente, dell’ideologia neoliberista6 .

Un’ultima osservazione. I governi socialdemocratici dei paesi nord-europei hanno sempre attribuito grande importanza all’efficienza del settore pubblico nel produrre e fornire servizi. Questo dovrebbe essere tenuto ben presente dai partiti della sinistra italiana nello stilare il tanto atteso “programma della sinistra”. Ogni volta che un cittadino non riceve un servizio a cui avrebbe diritto, o lo riceve di qualità inferiore al dovuto o in tempi troppo lunghi, ciò corrisponde a un voto perso per la sinistra, perfino quando l’amministrazione inadempiente è di destra. Perché è giustamente diffusa l’idea che è la sinistra che esige alte imposte e che, con tale gettito fiscale, pretende di fornire servizi pubblici che il mercato non è in grado di fornire o fornirebbe di qualità inferiore. La destra ha dalla sua il grande vantaggio che, perché si realizzi una società con le caratteristiche che essa auspica, non occorre fare nulla, basta che le cose vadano “come viene, viene” o, per essere più precisi, basta conservare la distribuzione di reddito e ricchezza determinata dal mercato. È la sinistra che, per realizzare il tipo di società che auspica, deve fare molto e bene.

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Note
1. I postulati del neo-liberismo sono: (a) il mercato crea sempre da sé l’equilibrio, purché non sia turbato da interventi pubblici che ne distorcono il funzionamento; (b) la globalizzazione porta solo vantaggi per tutti estendendo la concorrenza a livello planetario e dunque abbassando i prezzi; (c) è inutile preoccuparsi della disoccupazione involontaria «…because there is no such thing» (Robert Lucas, premio Nobel per l’economia nel 1995); (d) una riduzione delle imposte (e il conseguente calo della spesa per opere pubbliche e servizi pubblici) favorisce una più corretta allocazione delle risorse e stimola la crescita dell’economia. Inutile dire che nessuno di tali postulati è stato confermato dai dati relativi all’economia reale sia nello spazio sia nel tempo.
2. Quei partiti che, pur essendo storicamente di sinistra e autodefinendosi tali, hanno contraddetto questo fattore caratterizzante – come per esempio il Labour Party durante i governi di Tony Blair – non possono essere definiti “di sinistra”, o quantomeno non per il periodo durante il quale hanno realizzato politiche di diminuzione del ruolo pubblico nell’economia, riducendo se non addirittura quasi smantellando lo stato sociale. Il liberismo non è di sinistra, come ebbi modo di affermare (vedi Nuvole n. 29, 2008) in polemica con quanto sostenuto da Alesina e Giavazzi in un loro libello uscito, per fortuna loro e dell’editore, poco prima del deragliamento a livello planetario del modello neoliberista che avrebbe, invece, dovuto sancire definitiva affermazione del pensiero unico in economia.
3. Ciò è vero perfino con un sistema fiscale proporzionale (i ricchi pagano pur sempre più dei poveri per ricevere gli stessi servizi) e lo è a maggior ragione con un sistema progressivo e cioè con quello presente in tutti gli Stati con un sistema fiscale moderno. Inoltre la maggior parte dei servizi pubblici è destinata prevalentemente ai meno abbienti più che non ai più facoltosi (a questa regola generale fanno eccezione le spese militari).
4. Per Keynes, la politica monetaria ha un ruolo secondario e di semplice supporto rispetto alla spesa pubblica in caso di recessione perché, anche con bassi tassi di interesse, gli imprenditori non investono se la domanda aggregata è bassa. Nella crisi attuale si è aggiunto il fatto che le banche stesse, pur se traboccanti di liquidità, sono poco disposte a concedere prestiti alle imprese temendo fallimenti o comunque un cattivo andamento degli affari.
5. In Italia il caso è addirittura lampante: il nostro paese è al terzo posto nel mondo in quanto a pressione fiscale, dopo Danimarca e Svezia, e ciò non è certo giustificato dal reddito pro-capite (che è intorno al trentesimo posto nel mondo). Un’efficace lotta all’evasione, soprattutto in termini di effettivo recupero delle imposte evase e delle relative sanzioni, potrebbe largamente finanziare un alleggerimento delle imposte sui redditi inferiori alla media nazionale.
6. La crescita economica, pur non essendone un fattore essenziale, facilita lo sviluppo del welfare state, in quanto la redistribuzione dell’aumento del reddito crea minori resistenze da parte dei contribuenti che non quella che si può realizzare con un reddito statico. Va inoltre sottolineato che la crescita nei paesi a governo socialdemocratico più che altrove si verifica tenendo presenti le tematiche ambientali.
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