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tempesta perfetta

Il dilemma della spesa pubblica

Piero Valerio

Fa bene o fa male? E' il problema o la soluzione?

Non dico di essermi pentito di aver votato il Movimento 5 Stelle, perché è ancora prematuro emettere giudizi definitivi, ma quasi. Se dovessi dar credito a tutte le voci che si sentono in giro, dalle bizzarre idee di presunti economisti o esperti affiliati al movimento di Beppe Grillo fino alle dichiarazioni un po’ confuse e contraddittorie dei neo-deputati del M5S, non c’è proprio da star tranquilli. Si va dalla solita solfa dei tagli alla spesa pubblica che fanno bene all’economia (per quale ragione non si sa, ma i dogmi e gli atti di fede sono affascinanti anche per questo motivo), al ritornello che l’uscita dall’euro costerebbe agli italiani un 30% di perdita di ricchezza finanziaria da un giorno all’altro (senza però mai menzionare quanto è costato e quanto costa oggi la permanenza nell’euro, anche in termini di vite umane), fino alla sana decrescita economica che fa tanto ambientalismo ecumenico da parrocchia (vallo a dire a un giovane disoccupato che non ha nulla o un imprenditore in procinto di fallimento che la decrescita del reddito nazionale fa bene anche lui, senza beccarti un ceffone in faccia!). Insomma ci sarebbero tanti motivi per maledire il voto espresso nel segreto della cabina elettorale.

Tuttavia c’è un breve dispaccio che proviene direttamente dal direttorio del blog di Beppe Grillo che mi rassicura: “Leggo e ascolto con stupore presunti "esperti" discutere di economia, di finanza o di lavoro a nome del M5S. Queste persone sono ovviamente libere di farlo, ma solo a titolo personale. I contributi sono sempre bene accetti, ma non l'utilizzo del M5S per promuovere sé stessi. Il M5S dispone di un programma che sarà sviluppato on line nel tempo da tutti i suoi iscritti.

La piattaforma, uno spazio dove ognuno veramente conterà uno, è in fase di sviluppo dopo il rallentamento dovuto all'anticipo delle elezioni.” Forse non tutto è perduto. I cervelli pensanti del M5S hanno capito che bisogna mettere un freno a questi fenomeni da baraccone in cerca di celebrità pronti a saltare sul carro del vincitore portando in dote una vagonata di idiozie che mette i brividi. Dobbiamo dunque avere ancora un po’ di fiducia in Grillo e nei suoi ragazzi, aiutandoli e sostenendoli a dipanare il bandolo della matassa, che è già abbastanza ingarbugliato di suo, utilizzando i dati, i fatti, i ragionamenti più semplici e immediati da spiegare. I giovani aspiranti statisti del M5S sono e rimangono ancora, a mio avviso, la nostra ultima speranza per uscire dal guado, a patto però che anche loro si liberino dai legacci mentali e dalle paludi logiche in cui sembrano profondamente impantanati. Il loro essere giovani, onesti, puliti, simpatici, non li giustifica dalla stupidità e dalla mancanza di volontà di capire. Anzi, è un’aggravante, perché i giovani in genere dovrebbero avere meno sovrastrutture e barriere ideologiche (o solamente psicologiche e di puro calcolo e convenienza) ed essere più aperti al ragionamento attivo.

Proviamoci dunque ad instaurare un dialogo costruttivo con i giovani del M5S, non diamoli subito per spacciati. Sulla spesa pubblica abbiamo già detto tante cose, ricordando in molte occasioni che l’economia è spesa e se non c’è qualcuno che spende, l’economia si ferma, ristagna, arriva la deflazione e la riduzione degli investimenti, la moneta circolante scarseggia, fino ad arrivare alle estreme conseguenze del baratto e della violenza tribale della legge del più forte. Vogliono questo i ragazzi del M5S? Penso di no, non hanno le facce dei cavernicoli primitivi. Quindi, dovremmo essere tutti i d’accordo che la spesa, sia pubblica che privata, è il fattore determinante per riuscire a mandare avanti una moderna e complessa organizzazione democratica ed economica. In un periodo di recessione quando la gente riduce i consumi (e non riesce neppure a risparmiare a causa della contrazione dei salari e dei redditi) e le aziende non investono per le pessime aspettative di discesa della domanda e dei prezzi, chi deve e può spendere? Lo Stato. Ci sono dubbi su questo assunto? Oppure i ragazzi del M5S pensano che da Marte arrivi qualcuno che dal nulla faccia ripartire la nostra economia e ci consegni magicamente in dono un po’ di “crescita”, come tutti auspicano, o meglio blaterano? Le condizioni economiche mondiali e la nostra stessa struttura produttiva non fanno prevedere a breve una qualche prospettiva di un rilancio trainato soltanto dalla domanda esterna con le esportazioni (vedere a tal proposito il folle programma americano di tagli della spesa pubblica da $85 miliardi da qui fino a settembre, che ovviamente avrà ripercussioni anche qui da noi, in Europa).

Il principale dubbio che assale la mente dell’attivista M5S arrivati a questo punto è il seguente: “ma noi siamo spendaccioni, abbiamo sprecato e sperperato per decenni, abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, c’è la corruzione, la casta, l’evasione fiscale!”. Ne siamo proprio sicuri? Per avere una risposta certa ed inequivocabile guardiamo i dati, che a differenza di qualche trombone della disinformazione sistematica, non mentono. Almeno dal 1992 ad oggi lo Stato Italiano produce ogni anno avanzi primari di bilancio (guarda grafico sotto), cioè al netto degli interessi la spesa pubblica corrente e per investimenti è stata inferiore alle entrate fiscali dovute principalmente alla tassazione. Quindi l’austerità non è affatto una medicina amara che ci sorbiamo solo da un anno a causa del cattivo Monti e della spietata Merkel (che comunque belle persone non sono per nulla), ma è una tortura perenne che ci portiamo dietro da almeno venti anni, perché prima di questi due moderni satrapi ci sono stati i loro compagni di cordata Amato, Ciampi, Dini, Prodi, D’Alema, Padoa Schioppa, Tremonti. Ovvero tutta quella inqualificabile classe dirigente che ha portato il nostro paese al disastro e verso cui voi attivisti del M5S non dovreste mostrare molte simpatie. O almeno così mi è parso di capire ed è soprattutto per questo motivo che alla fine ho deciso di dare il mio voto al vostro movimento. Eppure questi politicanti ignobili hanno perseguito con diverse sfumature programmi di tagli orizzontali, verticali, obliqui della spesa pubblica e aumenti delle tasse senza che questo abbia generato uno straccio di vantaggio per la nostra economia. Anzi, come era facilmente prevedibile, la nostra economia ha cominciato pericolosamente a collassare e a ristagnare, con l’ovvia ma non trascurabile conseguenza che i servizi essenziali ai cittadini sono peggiorati fino a ridursi all’osso (a parte Equitalia, che invece è efficientissima e sappiamo bene perché).




Volete anche voi percorrere questo cammino fallimentare? Fatelo pure, ma poi non lamentatevi se anche voi giovani deputati del M5S sarete costretti a prendere al volo l’elicottero presidenziale per scappare dal tetto, quando la folla inferocita assedierà il Parlamento. La parola “Argentina” vi dice niente? Perché mai, fra qualche mese, gli italiani dovrebbero avere un atteggiamento benevolo nei vostri confronti, se vi sarete resi complici del misfatto, appiattendovi su posizioni che non portano a nulla e accelerano il disastro? Volete tagliare i vitalizi dei parlamentari, ridurre i privilegi della casta, tagliare gli sprechi: bene, fatelo. Nessuno vi dice nulla per queste misure condivisibili e improrogabili, ma sappiate che si tratta solo di necessari palliativi e temporanei calmanti, perché la malattia di cui soffre l’Italia non è affatto quella che avete individuato voi. Per avere un’altra prova di quello che sto dicendo, vi consiglio di guardare bene il grafico riportato sotto, pubblicato qualche mese addietro sul sito Byoblu di Claudio Messora. Ebbene, i tanto vituperati costi della politica sono quei minuscoli rettangolini in basso a sinistra, mentre i soldi che l’Italia deve sborsare anno per anno per rispettare i vincoli del Fiscal Compact e del Mes sono quegli enormi rettangoli che spiccano sulla destra. Stiamo parlando di una scala di grandezza da 1:1000: per ogni milione di euro rubato da Fiorito o intascato da un onesto deputato, c’è un miliardo di euro che va verso le banche tedesche, francesi o la stessa Montepaschi di Siena.



Se voi foste dei dottori e dovreste decidere in breve tempo su quale malattia concentrarvi, sapendo che una ha un’incidenza, una gravità, una frequenza mille volte più alta dell’altra, su quale malattia vi concentrereste? Guardando il grafico riportato sopra, c’è bisogno di fare complicate analisi paretiane o rette di regressione, per capire quale sono le principali cause di malessere di una popolazione? Certo, se poi la casa farmaceutica per motivi suoi vi costringe a lavorare solo sulla malattia meno grave, qualche scrupolo di coscienza prima o dopo vi dovrebbe venire. Ippocrate si rivolterebbe nella tomba. Così come, presto o tardi, anche i cittadini italiani si rivolteranno in massa contro questo sistema criminale, di cui voi deputati del M5S potete decidere, ora non domani, di farne parte integrante e di esserne strenui avversari. E’ una decisione difficile, lo so. Da una parte c’è una vita comoda in Parlamento, senza troppi affanni, a premere pulsanti verdi o rossi al grido “Ce lo chiede l’Europa”, e dall’altra c’è un’esistenza fatta di sacrifici, impegno, studio. Ma ormai, è bene saperlo, ci troviamo in un vicolo cieco e non esistono più scorciatoie: o andate a sbattere contro il muro facendo da servili collaboratori di Bersani, Berlusconi, Monti, Merkel, Draghi e compagnia bella oppure premete il pedale del freno e ingranate la retromarcia. Questa è una scelta tutta vostra.

Se vi farete imbrigliare dalla follia della immaginifica spesa pubblica fuori controllo o del debito insostenibile, sapete già che sarà a causa di una vostra specifica debolezza o deficienza, perché non avete voluto o saputo leggere e interpretare i veri dati della realtà. Negli ultimi venti anni queste due voci di bilancio sono cresciute per motivi che vanno ben al di là di ciò che forse immaginate adesso: gli accordi capestro messi a punto dai tecnocrati euristi per mantenere ostinatamente intatte le attuali caratteristiche dell’area euro e il meccanismo omicida di aumento della spesa per interessi nel più classico degli Schemi Ponzi, seguito alla dismissione della nostra Banca Centrale quale acquirente residuale dei titoli di stato in asta del 1981 e alla successiva apertura alla speculazione finanziaria selvaggia da parte delle banche private. Nessun cittadino comune ha potuto godere di questi continui deficit di bilancio. Chi ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità è dunque una ristretta élite politica-finanziaria-mediatica europea (e mondiale, perché si sa che gli sciacalli si ammassano dove le condizioni sono più favorevoli per spolpare le carcasse e i cadaveri di intere nazioni), mentre noi maggioranza silenziosa siamo stati le vittime incolpevoli e impotenti (almeno fino ad oggi) di un vero e proprio sciacallaggio sociale, economico, culturale. Accettando passivamente una riduzione di quei servizi e diritti essenziali che rappresentano (o meglio rappresentavano) i principi fondanti di una qualsiasi Costituzione democratica e di una basilare forma di convivenza civile.

Semplificando all’osso la questione, questa è la storia da cui dobbiamo partire e verso cui dobbiamo andare. E se avete bisogno di maggiori dettagli tecnici sull’argomento, vi consiglio di leggere attentamente l’articolo riportato sotto tratto dall’ottimo blog Orizzonte48. Se si parla di malattie della circolazione io mi rivolgerei ad un buon cardiochirurgo, così come se volete capire qualcosa in più sulla spesa e il debito pubblico, i tassi di cambio, le aree valutarie, il commercio internazionale dovreste avvicinarvi e lasciarvi avvicinare dai professionisti della materia. La gioventù è importante, ma la competenza e la conoscenza non hanno età. Lasciate al loro destino invece i fenomeni da baraccone, gli economisti da bar dello sport, i profeti del qualunquismo e del nichilismo ontologico (ogni riferimento ai vari Gallegati, Boldrin, Giannino, Benetazzo è puramente casuale), che come ha già capito il vostro (e nostro) Beppe Grillo sono soltanto degli opportunisti in cerca di visibilità (nel migliore dei casi) o dei ruffiani di retrovia costretti a scendere in campo per difendere gli interessi di una risicata ma agguerrita classe dominante (nel peggiore dei casi). Qui stiamo parlando di vite vere, di sangue, di futuro di un’intera nazione. Non è più tempo di scherzare.

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OSSERVATORIO PUD€ 4 -I DIPENDENTI PUBBLICI E I PENSIONATI CAUSA DELLA CRISI? I DATI A "FINI" DI CHIARIMENTO

Premessa

Dati i "tempi correnti" e le esigenze di "comprensione" e di recupero della democrazia "della verità" (quella che ci renderà "liberi") che si manifestano nell'oggi con grande forza, questo commento, se mai capitasse di leggerlo a qualche attivista e/o eletto del M5S, può tranquillamente servire come "breve corso" di formazione economico-giuridica in vista del contributo ai processi di decisione politica che si troveranno a dare.  Ed ha il vantaggio di essere del tutto gratuito, imparziale e disinteressato (oddio un interesse ce l'avrei: salvare la Costituzione democratica, del lavoro, keynesiana e dell'eguaglianza sostanziale, dalla più grande minaccia che abbia mai subito dalla fine della seconda guerra mondiale).

Magari ci scappa qualche altra buona dritta come la citazione del "diritto alla Resistenza" di Mortati a Piazza S.Giovanni, no? Anche se poi la "formazione" di persone chiamate a esercitare una fondamentale funzione costituzionale, su aspetti tecnici, potrebbe essere affidata agli stessi tecnici che sono all'interno delle istituzioni -vincolati per Costituzione alla "imparzialità", art.97- ed "estesa" a tutti coloro che, a prescindere dalla forza politica di appartenenza, ne sentissero il "lodevole" bisogno.
Quando inizialmente (era solo il 26 febbraio) mi accingevo a commentare questo, già noto,
post di Massimo Fini, non avevo ancora visto questa intervista di  Mauro Gallegati, ripresa anche dal FQ (e come poteva mancare?), quindi destinata alla massima pubblicizzazione per farne una presa di posizione se non ufficiale, altamente "significativa".

"(S)fortunatamente, passati due, tre, giorni, (
gabbatu lu santu, e ce vole proprio), il quadro si sta tragicamente chiarendo.  E' PUD€ O NON E' PUD€?,  ci eravamo chiesti solo, appunto tre giorni fa? E' PUD€ (Partito Unico dell’€uro, ndr), ANZI PUDISSIMO, quello "remix" nouvelle vague, la più insidiosa...perchè appare "nuova" e quindi  casta-spesapubblicaimproduttiva-corruzione-debitopubblicobrutto".

Cara Sil-viar, hai proprio ragione "
W L'€URO!  Lasciate ogni speranza voi che non uscite!...non hai scampo": non abbiamo scampo!
E non ci venissero a dire che "certe cose non le possiamo dire", semmai volessero usare questa scusa passe-par-tout, perchè non gli chiediamo di dire che si debba uscire dall'euro, MA SOLO DI NON FARE ANALISI "AFFRETTATE" PER "RASSICURARE I MERCATI" E L'ELETTORATO- QUEST'ULTIMO ALLARMATO PERO' DA LORO STESSI!-.

Molto più limpido e rispettoso dell'intelligenza degli elettori sarebbe, SENZA MENZIONARE L'USCITA DALL'EURO, DIRE LA VERITA' SU COME NON FUNZIONANO LE AREE VALUTARIE OTTIMALI IN ASSENZA DI MASSICCI TRASFERIMENTI (CHE NESSUN PAESE CREDITORE VUOLE MINIMAMENTE SOSTENERE) E SU QUALI IDEOLOGIE POLITICO-ECONOMICHE CI SIANO DIETRO. Esattamente come fa De Grauwe e lo stesso Blanchard, senza per questo poter essere accusati di essere "sconsiderati".

Perchè se non provo neppure a dire la verità, dei "fatti" (non filosofica o "onirica"), AVRO' AUTOMATICAMENTE UTILIZZATO, SENZA ALCUN DUBBIO, L'ENORME POTERE SUGGESTIVO ACQUISITO PRESSO L'OPINIONE PUBBLICA PER RAFFORZARE QUESTA IDEOLOGIA E QUESTO ASSETTO DI POTERE. ALTRO CHE CAMBIAMENTO!

Rammento (non a me stesso ma proprio a "loro") che
in questo post del  10 febbraio 2013, avevamo detto: "specie se il governo che uscirà da queste elezioni praticamente inutili, dato il non-dibattito, surreale e ipocrita, che le sta precedendo, avrà una limitata vitalità temporale, visto che non può far altro che proseguire "le cure che uccidono", senza prendere in esame l'unica ipotesi che persino i tedeschi ormai ci consigliano (grazie Ulrike e grazie...Carlo P.)!"

E vi re-invito a vedervi il video linkato dove Ulrike Hermann dice che alle attuali condizioni, "in cui uscire dall'euro provocherebbe un enorme danno ma...alla Germania", mentre all'Italia "non tanto grande come quello di continuare a seguire l'austerity",  prima Monti e poi il nuovo primo ministro italiano dovrebbe andare là e dire alle Merkel o fai un compromesso (cioè accettare i famosi "trasferimenti" che alla Germania costerebbero 8-9 punti di PIL all'anno) o usciamo dall'euro, tutelando l'interesse nazionale.

Assume un senso (di estrema Resistenza), allora, commentare il ""famoso" post di Massimo Fini, dato che non costituisce allora uno sfortunato "errore di percorso" ma rischia di diventare una cosciente enunciazione programmatica:

 
"Gli italiani non votano a caso, queste elezioni lo hanno ribadito, scelgono chi li rappresenta. In Italia ci sono due blocchi sociali. Il primo, che chiameremo blocco A, è fatto da milioni di giovani senza un futuro, con un lavoro precario o disoccupati, spesso laureati, che sentono di vivere sotto una cappa, sotto un cielo plumbeo come quello di Venere. Questi ragazzi cercano una via di uscita, vogliono diventare loro stessi istituzioni, rovesciare il tavolo, costruire una Nuova Italia sulle macerie. A questo blocco appartengono anche gli esclusi, gli esodati, coloro che percepiscono una pensione da fame e i piccoli e medi imprenditori che vivono sotto un regime di polizia fiscale e chiudono e, se presi dalla disperazione, si suicidano".


E qui mi nasce il sospetto immediato che non sappia bene di cosa stia parlando: infatti gli esodati sono in realtà aspiranti pensionati, cioè coloro che avrebbero voluto rientrare nell'ambito dei 19 milioni di pensioni che subito dopo stigmatizza, indicandole come il male d'Italia (forse pensa che la pensione la prendano solo gli odiati pubblici dipendenti). Dovrebbe essere per coerenza contento che vengano "puniti": lasciano il lavoro ai giovani (secondo Fini, che non ha capito il
perchè dell'attuale disoccupazione e precarizzazione) e non gravano neppure sulla spesa pubblica pensionistica, che secondo Fini è alla base del "debito pubblico"!.

Ma poi, la domanda vera è: ma veramente i ragazzi non trovano lavoro e sono precari per via del fatto che sono pagati 4 milioni di stipendi pubblici e 19 milioni di pensioni, queste ultime in gran parte "da fame"? Ma allora queste ultime sono debito pubblico o no? E sarebbe debito pubblico "buono"? E lo sa in che misura la spesa pensionistica è anche dovuta alle "pensioni da fame"? Macchè, sulle montagne russe del pressapochismo la coerenza non esiste.

La risposta alla prima (precedente) domanda è: no, ma come glielo spieghi a Fini, sapendo che se non l'ha capito finora probabilmente non lo capirà mai? E come glielo spieghi ai militanti m5s che si abbeverano a cotanta conoscenza?

 
"Il secondo blocco sociale, il blocco B, è costituito da chi vuole mantenere lo status quo, da tutti coloro che hanno attraversato la crisi iniziata dal 2008 più o meno indenni, mantenendo lo stesso potere d'acquisto, da una gran parte di dipendenti statali, da chi ha una pensione superiore ai 5000 euro lordi mensili, dagli evasori, dalla immane cerchia di chi vive di politica attraverso municipalizzate, concessionarie e partecipate dallo Stato. L'esistenza di questi due blocchi ha creato un'asimmetria sociale, ci sono due società che convivono senza comunicare tra loro. Il gruppo A vuole un rinnovamento, il gruppo B la continuità. Il gruppo A non ha nulla da perdere, i giovani non pagano l'IMU perché non hanno una casa, e non avranno mai una pensione. Il gruppo B non vuole mollare nulla, ha spesso due case, un discreto conto corrente, e una buona pensione o la sicurezza di un posto di lavoro pubblico. Si profila a grandi linee uno scontro generazionale, nel quale al posto delle classi c'è l'età. Chi fa parte del gruppo A ha votato in generale per il M5S, chi fa parte del gruppo B per il Pld o il pdmenoelle".


In piena confusione socio-economica Fini dice poi che sono i pensionati che guadagnano più di 5000 euro al mese i cattivi (e vedremo tra un pò che tecnicamente neanche questo è vero, almeno se hanno versato i contributi secondo le aliquote ordinarie). Come pure gli evasori fiscali; anche se poi ha ascritto al gruppo A, dei "buoni", i piccoli e medi imprenditori che vivono in uno Stato di polizia fiscale", dimenticando che questo Stato li colpisce proprio perchè sono risultati evasori! Ma allora coloro che non pagano le tasse (o "non riescono" a pagarle, ma per lo Stato è lo stesso) sono nella categoria A o B?

Si decidesse: ma evidentemente per lui, scatenare la guerra all'interno degli italiani, tutti pesantemente colpiti dall'euro-austerity, è più importante che essere coerenti. Immaginiamo un imprenditore che sia stato attinto da avviso di accertamento: fino al giorno prima, -in crisi di insolvenza per via del calo dei consumi interni o dell'impossibilità di esportare a costi relativi crescenti, determinati dall'euro e cioè dai tassi di cambio reale squilibrati a permanente svantaggio dei paesi PIGS-, era nella categoria A; dal giorno dopo, non avendo in effetti pagato dei tributi, entra nella categoria B e può essere linciato dai colleghi del distretto (che magari sono perfettamente solidali con lui) perchè "evasore".

Ma andiamo con ordine:

1) gli stipendi pubblici non causano il deficit pubblico e quindi neppure causano l'incremento del debito pubblico. Questo per il semplice fatto che il bilancio pubblico italiano è in saldo primario (avanzo) positivo da almeno 20 anni (con la sola eccezione di un modesto saldo negativo nei due anni successivi alla crisi-recessione dei sub-prime). Il deficit, e quindi l'incremento del debito ai livelli attuali,
è determinato, piaccia o no, dall'onere degli interessi sul debito pubblico, il quale è a sua volta aumentato, provocando questo ammontare del debito, a partire dal divorzio Tesoro-Banca d'Italia del 1981; tale divorzio ha innescato una gigantesca redistribuzione del reddito nazionale dal lavoro dipendente (privato e pubblico, cioè quello tassato con alte aliquote alla fonte e il crescente gettito è il maggior contributo attivo del bilancio pubblico) alla rendita finanziaria, ai titoli del debito pubblico, che è detenuto all'87% da soggetti diversi dalle famiglie (banche e investitori finanziari).
Il debito sopra al 100% è essenzialmente dovuto a ciò, tanto che, prima del "divorzio", era al 58% del PIL.

2)
Il totale dei dipendenti pubblici, in senso proprio, cioè lavoratori subordinati che abbiano un datore considerato "pubblica amministrazione" e con contratto dei relativi comparti pubblici (cioè quelli che lui odia a prescindere), non è di 4 milioni ma intorno ai 3,3 milioni, allo stato attuale, e da almeno 10 anni sotto i 3,5 milioni. Ciò significa che è pari all'incirca al 5,6% della popolazione, mentre in Germania siamo al 5,47%, in Francia all'8% (e tra un pò, secondo l'etica "categoriale" di Fini potrebbero giustamente, e nonostante abbiano tutti questi impiegati pubblici, esseri umani di serie B, diventare i nostri nuovi padroni al posto dei tedeschi), mentre in Irlanda (il "modello" di ripresa dell'UEM, nelle "teorie" cialtroniche dell'austerity espansiva...dei profitti degli investitori esteri) è al 7,5%; invece in Grecia è al 3%, sì al 3! Forse a Fini può sorgere il dubbio (naaaaahhh) che con la crisi attuale il numero e persino l'esistenza stessa dei pubblici dipendenti non abbia nulla a che fare. Ma non pare che lui si preoccupi della attendibilità degli "indicatori" che utilizza.
 
3) Gli stipendi pubblici, poi:
- non solo non rientrano in una spesa pubblica primaria che provoca deficit (perchè c'è il saldo primario, abbiamo detto, e quindi le entrate tributarie, pagate essenzialmente, al 93,7%, dai lavoratori dipendenti e dai pensionati, sono superiori alle spese); - non solo convertendosi in consumi (e il loro scarno risparmio, quando c'è), determinano il PIL esattamente quanto i consumi derivanti dai redditi privati, "autonomi" inclusi;- ma hanno subito, più ancora dei lavoratori privati "contrattualizzati", una forte deflazione salariale: "...andamento delle retribuzioni lorde reali pro capite dei pubblici dipendenti dal 2000 al 2014. Risalta la crescita avvenuta nella prima parte del periodo, sino al 2006, in linea con quella del PIL, ed un calo dei redditi reali nel 2007 preludio di una caduta, dal 2009 in avanti, sempre più marcata per tornare nel 2014 a valori analoghi a quelli del 2002 (fig.7)".

Cioè,
come ci dice la Corte dei conti, nello studio 2012, appositamente effettuato sul "costo del lavoro pubblico", da sei (6) anni, le retribuzioni pubbliche crescono meno dell'inflazione e, ora anche diminuite nei loro valori nominali, ritorneranno nel prossimo anno ai valori reali del 2002. E questo invece che rendere felice il Fini, dovrebbe angosciarlo perchè significa calo dei consumi (e quindi della produzione e occupazione PRIVATE), e quindi decrescita-recessione accentuata, e calo del gettito tributario, cioè un minor avanzo primario. E non venissero i "livorosi" a raccontare che si tratta di una "partita di giro" perchè il livello delle funzioni, prestazioni e servizi pubblici è ai minimi termini, in Italia, rispetto a quanto invece richiesto dalle norme costituzionali in relazione ai "diritti" spettanti alla generalità della cittadinanza e che lo Stato-ente pubblico non può rinunciare e erogare, specie con riferimento ai beni a fruizione indivisibile ed ai servizi di preminente interesse generale (polizia e sanità, tanto per non parlare dell'istruzione pubblica). E in mezzo al "giro" ci sta una creazione di valore la cui difficoltà di determinazione non ne elimina la indubbia esistenza (v. poi, nel finale, sub punto 9).

4) Le pensioni. Sul punto "principiamo" da un
dato, attestato da un professore di economia studioso del sistema e RIFERITO ALLA SITUAZIONE ANTERIORE ALLA RIFORMA FORNERO: "La situazione del nostro sistema previdenziale, per ammissione comune  è strutturalmente in equilibrio attualmente". A chi sostiene che però la fase di transizione al suo funzionamento a regime (contributivo ndr.)sarebbe troppo lunga, risponde: "I dati mostrano che non solo non è così, ma accade il contrario: il saldo tra le entrate contributive e le prestazioni pensionistiche previdenziali al netto delle ritenute fiscali è attivo per un ammontare di 27,6 miliardi di euro, pari all'1,8% del Pil" .

Questo PRIMA delle riforma Fornero, che ha tagliato il costo dell'erogazione pensionistica di 3,2 miliardi - ma non certo l'ammontare del suo gettito contributivo.

Per la fase successiva alla "bella" riforma, caro Fini,
questa è la situazione:

"La previdenza non è una tassa ma un modo di risparmiare. Da giovani, quando si ha la salute per lavorare, non si può spendere tutto quello che si guadagna, ma se ne mette da parte una fetta per la vecchiaia, cioè il contributo previdenziale...Il tuo assegno sarà calcolato in base ai contributi versati e all'età di pensionamento, solo così il sistema è equo e stabile. Perché si deve andare in pensione con i propri risparmi". Il nostro governo in maniera colpevole, utilizza argomentazioni teoricamente condivisibili, per raccontare una grande bugia: si sostiene, infatti, che per garantire l'equilibrio (che già c'era, anzi era un attivo ndr.) e l'equità, l'ammontare delle pensioni sarà correlato ai propri contributi versati durante la vita lavorativa.

Questo ragionamento potrebbe stare in piedi in un sistema a capitalizzazione, nel quale gli enti pensionistici pubblici accantonano i contributi dei singoli soggetti durante la vita lavorativa, per poi prelevarne i frutti al fine di erogare le pensioni agli stessi soggetti. Ma non è cosi: difatti, per far fronte al pagamento delle pensioni future, non è stata (e non viene) accumulata alcuna riserva.

Nel nostro Paese, il sistema pensionistico pubblico (Inps, Inpdap, ecc.) è strutturato secondo un criterio a ripartizione, nel quale i contributi versati da lavoratori ed aziende agli enti di previdenza, vengono utilizzati per pagare gli assegni di coloro che in quel momento sono in pensione. In altri termini, a dispetto dei sbandierati principi equitativi, con il sistema vigente ogni generazione non potrà percepire alcuna pensione commisurata ai propri contributi versati, ma era (è e sarà) condannata ad avere un assegno in linea ai contributi di quella che in quel momento lavora.

Risulta, peraltro, evidente che in un sistema così concepito, il flusso delle entrate (rappresentato dai contributi pagati da imprese e lavoratori) dovrebbe essere in equilibrio con l'ammontare delle uscite (le pensioni pagate). Equilibrio minato dal nostro attuale governo che, con le sue manovre recessive, ha affossato l'occupazione e, quindi, i contributi incamerati dagli enti previdenziali.  Se si attuassero vere politiche di crescita (parola sconosciuta al vocabolario del Presidente Monti), l'equilibrio del sistema sarebbe garantito dall'aumento dei lavoratori attivi, che con i loro contributi potrebbero mantenere tutti gli uomini e le donne che, dopo un'intera vita lavorativa, hanno maturato il diritto etico di godersi una pensione dignitosa e stabile.

Naturalmente Fini vuole diminuire i lavoratori attivi pubblici, e i loro stipendi, e quindi, non solo minare ulteriormente l'equilibrio contributivo, ma anche incrementare tale effetto attraverso il calo dei consumi generale e quindi della produzione e quindi della occupazione e quindi, sorpresa!, della contribuzione di tutto il resto del mondo del lavoro. E quindi anche del gettito fiscale (obbligando così ad inseguire ulteriori inasprimenti tributari, anche se la disoccupazione, da lui complessivamente auspicata, sarebbe a un punto tale da non fargli più trovare qualcuno con cui "illivorirsi"). E' il fenomeno del moltiplicatore fiscale (negativo) ed è esattamente il motivo per cui "debitopubblicospesapubblicaimproduttiva" risulta, nei suoi effetti, una sesquipedale stupidaggine, quando invece la crisi è dovuta all'austerità UEM e all'errore nel calcolo del moltiplicatore, secondo lo stesso FMI.

Potrei a questo punto parlare della nostra spesa pubblica e di come non sia mai stata "eccessiva" nella Storia della Repubblica italiana, naturalmente se considerata nella sua dinamica con la crescita del PIL e quindi nella sua elasticità di crescita rispetto ad esso, elasticità sempre stata tra le più normali (e ora tra le più basse) del mondo occidentale. Per questo mi limito a rinviare allo
studio effettuato, con ampi dati storici complessivi, dal Tesoro, sotto la direzione di Pietro Giarda.

Una lettura interessante, che Fini certamente non farà.

Per i volenterosi che fossero curiosi di capire quante menzogne ci vengano raccontate e quanti luoghi comuni da ciò insorgano, mi limito a riportare i brani dello studio in una versione più estesa, e già inseriti nella "
Lettera a Bersani" in forma accorciata (per esigenze di spazio).

Ma non senza prima rammentare una cosa ovvia: il taglio della spesa pubblica per investimenti, in particolare i 4 punti annuali di PIL in meno registrati in progressione tra il 1980 e il 2010 bastano da soli a spiegare la stagnazione e l'output gap italiani in tale periodo. E ciò è avvenuto pacificamente proprio e solo in ragione dell'adesione italiana al vincolo europeo (SME e Maastricht-UEM):

1) Al pari della spesa complessiva, anche la spesa pubblica al netto degli interessi in rapporto al PIL si è sviluppata lungo un grande ciclo che la ha vista aumentare dal 22,5% nel 1951 al 44,0% nel 1993, con un rallentamento fino al 40,2% nel 1995, per risalire poi fino al 46,7% nel 2010. Nella dinamica della spesa pubblica complessiva è di particolare rilievo la caduta della spesa in conto capitale e per investimenti pubblici, pure essa espressa da una quota stabile o crescente dal 1951 al 1970, poi in lenta ma continua riduzione. Negli ultimi vent’anni del secolo scorso la spesa in conto capitale assorbiva circa il 5% del PIL, mentre negli anni 2000-10 si è attestata nell’intorno del 4% medio annuo, scendendo al 3,5% nel 2010;

2) Il saldo primario, che nel 1951 era negativo per il 2,4% del PIL, è andato migliorando fino al 1960; è rimasto stabile attorno a zero per i primi anni Sessanta e poi ha iniziato a peggiorare raggiungendo un massimo del –7,8% nel 1975; si è stabilizzato attorno al –4% fino al 1985 e ha iniziato a migliorare fino al + 6% circa del 1997, si è mantenuto su livelli positivi fino al 2002, con le note vicende degli anni successivi che lo hanno portato vicino allo zero nel 2010;

3) si mostra, per gli ultimi 10 anni, il trend negativo nella crescita del PIL accentuato nell’ultimo decennio dalla recessione del 2009, anno nel quale il PIL in termini reali è caduto del 5,2%; mostra anche il grande ciclo dell’inflazione con tassi medi decennali saliti dal 2,5% all’anno negli anni Cinquanta, al 14,6% degli anni Settanta, poi in graduale riduzione dal 10% all’anno negli anni Ottanta, al 4,2% e 2,4% negli anni Novanta e nei primi 10 anni del nuovo secolo. Mostra anche il rallentamento della crescita della spesa pubblica e che il differenziale dei tassi di crescita negli ultimi dieci anni è pari quasi esattamente al differenziale che si era manifestato negli anni Sessanta del secolo scorso, un periodo ancora di forte crescita economica. I tassi di crescita della spesa reale al netto degli interessi si presentano, nei sei decenni a partire dal 1951, su un trend fortemente decrescente. Il tasso di crescita medio di decennio è stato dell’8% negli anni Cinquanta e si gradatamente ridotto a poco più dell’1% all’anno negli ultimi venti anni.
 
4) si può porre in relazione il tasso di crescita medio triennale della spesa pubblica in termini reali con l’analogo tasso di crescita del reddito, separatamente per i due periodi dal 1954 al 1989 e dal 1990 al 2010. Dall’ispezione delle figure e da semplici indicatori statistici si rileva che nel primo periodo la relazione tra crescita della spesa e crescita del reddito è più precisa e più forte dell’analoga relazione per il secondo periodo. Nel primo periodo prevale un trend autonomo, non spiegato, di crescita della spesa pari al 3,14% all’anno che prescinde dall’andamento del reddito, mentre nel secondo periodo tale trend autonomo è pari solo all’1,16% all’anno. Inoltre, nel primo periodo è più forte il collegamento tra crescita del reddito e crescita della spesa rispetto al secondo: il coefficiente che lega le due variabili nel primo periodo indica che per ogni punto percentuale di crescita del reddito reale si ha una crescita della spesa pari allo 0,75% (in realtà è il fenomeno inverso: è la maggior crescita della spesa pubblica che porta a maggior reddito, ndr.); nel secondo periodo tale risposta è pari solo allo 0,34%. In entrambi i periodi la spesa pubblica cresce più rapidamente del reddito, sia per la componente autonoma che per la componente di dipendenza funzionale.

5) I tentativi di definire i fattori che influenzano la crescita della spesa pubblica nel tempo – e quindi spiegarne le ragioni – non hanno mai avuto troppo successo. Le spiegazioni originarie – riconducibili alle proposizioni di un famoso economista della scuola storica tedesca del 19° secolo (A. Wagner, 1882) – fanno riferimento alla relazione spesa pubblica-reddito, argomentando le ragioni per le quali la spesa pubblica sarebbe destinata, per sua natura, a crescere più rapidamente del reddito prodotto (cioè "ovunque" nel mondo, da secoli, e quindi anche senza "castacorruzionesprechi" e, invece, "debitopubblicobrutto"=inevitabile e comunque in Italia costantemente sostenibile,
per "ammissione" della stessa Commissione UE);

6) Sono note le proposizioni di W.Baumol (1965), che sottolineano il carattere peculiare dei processi di produzione pubblica, la loro forte dipendenza dal fattore lavoro e l’associato basso grado di progresso tecnico (quest'ultimo punto smentito da studi successivi ndr.); in unione con politiche retributive nel pubblico impiego che legano le retribuzioni pubbliche all’andamento delle retribuzioni del settore privato, ne deriva un bias strutturale per costi di produzione nel settore pubblico che crescono strutturalmente più rapidamente dei costi di produzione dei beni privati (convinzione smentita anch'essa dalla rilevazione dei costi delle aziende speciali pubbliche di ss.pp.
allorchè privatizzate
ndr.). Nei tempi più recenti si è evidenziato il condizionamento della dinamica dei tassi d’interesse sulla spesa per interessi, legato all’accumularsi dei disavanzi nel tempo e alla separazione della sovranità monetaria dalla sovranità fiscale (cioè l'innalzamento del debito via interessi lo ammette, seppur con parole velate, persino Giarda! ndr.)...
 
7) La struttura della spesa pubblica ha avuto mutamenti rilevanti nel corso degli ultimi 60 anni che sono descritti in modo sintetico nella Tabella 3. Per un lungo periodo il peso degli interessi passivi sul totale della spesa è progressivamente aumentato, passando al 3,8% nel 1951 al 10,7% nel 1980 (fase iniziale dello SME ndr.), al 12,7% nel 1993 (effetto finale dello SME-divorzio, ndr.). Si è gradualmente ridotto fino all’8,8% nel 2010. Nel corso del periodo in esame, si è drasticamente ridotto il peso delle componenti tradizionali dell’intervento pubblico, la fornitura di servizi pubblici, le spese per trasferimenti di sostegno alle famiglie e gli investimenti pubblici; complessivamente queste tre categorie di spesa assorbivano l’81,9% del totale nel 1951, il 59,8% nel 1980 e il 57% nel 2010. La quota dei consumi pubblici nella spesa complessiva è scesa dal 54,4% nel 1951 e si è stabilizzata a partire dal 1980 nell’intorno del 41% del totale; la quota degli investimenti pubblici è scesa dal 15,4% del totale nel 1951 al 10,8% nel 1980 e al 6,8% nel 2010 (a ragionarci, sono circa 4 punti annuali di PIL di investimenti, progressivamente "tagliati" e non sostituiti da alcuna voce della domanda aggregata ndr.). I numerosi programmi di sostegno di individui, lavoratori e famiglie assorbivano il 12,1% del totale della spesa nel 1951, il 8,1% nel 1980 e il 8,8% nel 2010.

8) principali cambiamenti occorsi nel periodo: spiccano per l’entità delle variazioni l’aumento della quota della spesa sanitaria e delle spese per servizi generali, che passano dal 42,0% nel 1980 al 44,8% nel 2000, al 47,6% del totale nel 2009 e, d’altro lato, la riduzione della quota della spesa per l’istruzione che scende dal 25,7% nel 1980 al 22,5% nel 2000, al 20,0% del totale nel 2009.

Per le altre funzioni, si osserva un aumento della quota delle spese per la protezione dell’ambiente che accompagna la riduzione delle quote delle spese per la difesa (dal 7,1% al 6,9%, peraltro in ripresa dal 2000 anno nel quale era scesa fino al 5,9% del totale), per l’ordine pubblico, sicurezza e giustizia (che mostrano un andamento in crescita passando dal 9,0% al 10,3% nel 2000, per poi scendere all’8,7% nel 2009) e per gli affari economici (in lenta e graduale discesa dal 7,3% nel 1980 al 6,7% nel 2009). Il cambiamento nella struttura della spesa per consumi collettivi, con la crescita della quota della spesa sanitaria e la corrispondente riduzione della quota della spesa per l’istruzione, è stato molto significativo.

9) Misurare la costosità relativa dei consumi collettivi rispetto ai consumi privati è ambizione di tutti i sistemi statistici, anche se si tratta di una ambizione non facile da realizzare perché dei servizi collettivi si conoscono le spese sostenute dalle amministrazioni pubbliche, ma si hanno solo informazioni limitate sul volume fisico dei beni prodotti con quelle spese: nell’istruzione si conosce il numero degli studenti, ma non quanto è aumentato il valore del capitale umano; nella sanità si conosce il numero degli assistiti, ma non il valore della vita salvata; nella giustizia e nella sicurezza si conosce il numero dei giudicati o dei tutelati, ma poco di più.


E questa chiosa finale forse non servirà a Fini, ma magari a qualcuno dei suoi lettori aprirà gli occhi.

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