Print Friendly, PDF & Email
paolo s labini

Quali riforme di struttura per uno sviluppo negli anni 2000?

di Sergio Ferrari

6a00d83451654569e200e54f74a9a88834-500wiLa questione del mancato sviluppo economico dell’Italia in termini di reddito, di qualità del reddito e di corretta distribuzione dello stesso reddito, sembra trovare con il tempo una attenzione crescente rispetto a quella dedicata alla crisi economica internazionale, che pur investe anche il nostro Paese. Questa maggiore attenzione è certamente dovuta all’aggravarsi della situazione della nostra crisi e dalle smentite sul suo superamento ormai puntualmente confermate dai consuntivi statistici con i quali è pur necessario misurarsi. Una questione, questa dei preventivi/consuntivi, che da sola potrebbe sollevare seri dubbi sulle capacità – non solo nazionali – di mettere sotto controllo e correggere le condizioni che regolano lo sviluppo. I dati ben noti sull’andamento  dell’occupazione accentuano, ovviamente, la preoccupazione per l’andamento di una prolungata dinamica negativa sul piano sociale della nostra economia. Tuttavia tale attenzione non è ancora arrivata a esprimere una interpretazione politica ed economica alternativa rispetto a quella offerta dagli attuali detentori dell’opinione pubblica, fermi a una concezione “neoliberista”. Una visione dell’economia, in base alla quale il libero mercato sarebbe in grado, se svincolato da ogni ingerenza pubblica, di assicurare il pieno impiego delle risorse disponibili, ivi compreso il lavoro, non in grado di fornire una spiegazione accettabile dell’attuale crisi e, quindi, tanto meno in grado di elaborare una terapia. Ed è così che essa sta ora vivendo una fase di difesa attiva facendosi forte dei pulpiti e delle cattedre da tempo occupate a livello nazionale e internazionale.

Peraltro è’ da tempo noto ed evidente che un certo mondo liberista ha forti problemi nel saper rispondere alle critiche teoriche e sperimentali che incontra la sua concezione del funzionamento dell’economia, preferendo, non a caso, spostare il dibattito e replicare su un altro piano e cioè sulle logiche autoritarie di un sistema economico e sociale guidato dalla mano pubblica. Come si vede la Rivoluzione d’Ottobre fa ancora le sue vittime.

Una serie di coraggiose eccezioni stanno, tuttavia, emergendo tra molti di quegli autori liberisti preoccupati di essere messi da parte non riuscendo più a trovare precetti convincenti. In tale contesto  la posizione “neoliberista” lascia spazio ad una eccezione, nel senso che se nessun privato si sente in grado di sostenere il processo d’investimento nell’industria, lo Stato potrebbe allora intervenire nel mercato finanziario. Non certo per essere uno Stato imprenditore, ma semplicemente uno Stato che fornisce “momentaneamente” i mezzi finanziari a chi li vuole e a condizioni particolarmente vantaggiose. Il “mercato” verrà dopo…    La condizione imprescindibile è che il privato sia l’investitore. Ed è a questo punto che nascono la maggiori perplessità. Occorre, ovviamente, approfondire il perché e il cosa e il come nascono queste perplessità, verificare se le motivazioni critiche risultano convincenti o pseudoideologiche e, infine, elaborare una proposta sul cosa fare essendo l’alternativa non certo quella di non fare niente.

Incominciamo da un punto centrale anche se apparentemente lontano e cioè dal fatto che quando si parla della nostra crisi occorre non confonderla con quella internazionale, cosa che non sempre avviene, ma che è necessaria perché se le crisi sono diverse allora non è detto che le cure possano essere le stesse. A riprova di questa premessa iniziale nei Grafici 1 e 2 sono riportati alcuni dati per evidenziare la longevità della nostra crisi, che ha ormai accumulato alcuni decenni e che, quindi, non ha nessuna relazione con la successiva crisi economica internazionale. La variazione della produttività del lavoro negli ultimi decenni, sino a livelli negativi attuali, indica una riduzione strutturale della produzione complessiva,  trovando un riscontro coerente con la perdita  delle nostre quote di esportazioni internazionali.

Gr1maz

 Una perdita di quote che si riscontra per quasi tutti i paesi avanzati come effetto dell’entrata nello scenario economico internazionale dei paesi in via di sviluppo, ma che, per quanto riguarda l’Italia, è maggiore rispetto a quello che si è verificato nei paesi dell’Unione Europea.

Gr2maz

Questa perdita di quote delle esportazioni internazionali esprime la nostra esclusione  dal consesso internazionale, dal momento che la crisi in atto non sembra essere compensata dalla valorizzazione di altri asset.

Dunque i segni tangibili e gravi del nostro declino ci sono e sono di lungo periodo ma, ciononostante, non sono stati mai seriamente interpretati e, tanto meno, affrontati. Occorre, inoltre, comprendere come i ritardi accumulati non hanno solamente protratto la crisi, ma ne hanno aumentato la gravità e complicato le terapie. Non deve meravigliare, quindi, se in concomitanza con le crisi internazionali entro le quali si colloca ovviamente anche l’Italia,  si devono riscontrare condizioni mediamente peggiori per il nostro Paese di quelle che si rilevano in altri paesi dell’Unione.

In un intervento di Mariana Mazzucato su Repubblica del 15 agosto scorso dal significativo titolo “L’unica strada per competere”  si afferma che “ se il presidente della BCE Mario Draghi ha ragione a preoccuparsi di una ripresa – debole, fragile e disomogenea -  il problema è che la diagnosi dei fattori alla base della competitività continua a essere sbagliata.” Da qui la ovvia conseguenza che “ anche se le riforme strutturali ( come Draghi caldamente chiede) fossero attuate, sarebbero sufficienti, da sole, a stimolare la crescita nella periferia dell’Eurozona?. La risposta è NO: senza una grossa spinta agli investimenti pubblici e privati, non saranno sufficienti.” La frase continua con una precisazione essenziale; “I Paesi deboli devono aumentare, non  diminuire, gli investimenti  in quelle aree che aumentano la produttività e producono crescita, come l’istruzione, la formazione e la ricerca e devono anche creare istituzioni pubbliche dinamiche, in grado di garantire i fondamentali collegamenti tra scienza e industria e dar vita ad una comunità finanziaria disposta a investire a lungo termine.”. L’essenzialità di questa precisazione sta nel fatto che negli anni passati l’entità dei nostri investimenti pubblici e privati non è stata inferiore a quella dei paesi nostri partner nell’Unione, ma sono stati molto inferiori, invece, i corrispondenti esiti economici: il valore aggiunto delle nostre produzioni è di un 10/20 %, e oltre, inferiore a quello di questi altri paesi. Inoltre la dinamica della nostra competitività del lavoro (Grafico 3) non potendo giovarsi nella stessa misura del contributo derivante dalle innovazioni tecnologiche, ha progressivamente perso colpi.

Senza correggere questi andamenti fortemente negativi viene pregiudicata ogni ipotesi di sviluppo, ma è ragionevole pensare che si possano pregiudicare anche le potenzialità delle altre riforme in programma. Le cause di queste differenze nella produttività sia del lavoro come del capitale, sono  ben  note e consistono essenzialmente in una composizione della struttura produttiva e in una specializzazione  industriale basata su una competitività di costo piuttosto che su una competitività su base tecnologica.

Gr3naz

Una condizione che se ha potuto creare e sorreggere sino agli anni ’70 il fenomeno del miracolo italiano,  non è stata più sufficiente dopo i cambiamenti dello scenario economico e strutturale intervenuti a livello internazionale: chi vorrebbe replicare quelle condizioni di competitività giocando sul costo del lavoro, non solo si collocherebbe su posizioni socialmente inaccettabili ma, anche quando, perdenti in partenza poiché dovrebbe misurarsi con condizioni da paese emergente. Tuttavia anche le aperture keynesiane che si incominciano a riscontrare si fermano agli aspetti quantitativi degli investimenti. Ma il problema da risolvere riguarda la necessità di evitare che questi investimenti abbiano gli esiti negativi analoghi a quelli precedenti: come accennato non è stato sul piano quantitativo che i nostri investimenti si sono rivelati insufficienti nel confronto con i paesi avanzati, ma, appunto nella capacità di produrre un valore aggiunto confrontabile. Ed è senza dubbio più complesso risolvere questo problema rispetto a quello di trovare le necessarie risorse finanziarie, poiché si tratta di superare interessi, culture e ottiche di breve periodo, oggi ampiamente prevalenti nel nostro Paese. La responsabilità è tutta politica anche perché non è immaginabile che una operazione del genere possa essere affidata ad un sistema di imprese che hanno scelto una competitività basata sul costo del lavoro o in alternativa di sparire dal mercato. Questi attori hanno accumulato un divario crescente in materia di investimenti in R&S tale da rendere impossibile un loro recupero sul piano di una competitività su base tecnologica: i dati ci dicono che negli anni ’80 mediamente le imprese italiane impiegavano poco più di un ricercatore ogni mille addetti contro gli oltre due della media dei paesi UE, questa differenza si è raddoppiata negli anni ’90 per triplicarsi negli anni 2000 (Grafico 4).

Gr4maz

I riflessi di questa struttura produttiva si ritrovano nella misura della produttività del capitale, che andrebbe posta sotto osservazione ben più di  quella dedicata al fattore lavoro. I rendimenti degli investimenti industriali del nostro Paese, se affidati agli stessi autori, non consentono nessuna ipotesi di recupero del nostro declino (Grafico 5). Emerge infatti, non solo, un significativo divario negativo nel rendimento di tali investimenti, ma anche un andamento di quel divario crescente nel tempo.

Le politiche economiche europee espresse attraverso il Patto di Stabilità potranno – nella migliore delle ipotesi – spostare gli equilibri finanziari sul versante dello sviluppo; ma anche nella ipotesi che l’Unione consenta di dedicare risorse finanziarie agli investimenti industriali, si presenta la necessità di correggere la qualità di questi  investimenti, pubblici o privati che siano, per evitare il permanere e l’allargamento dei fenomeni che hanno portato all’attuale condizione di una competitività perdente.  Se il Governo dovesse curare solamente il percorso tra risorse finanziarie europee-banche-imprese, quel sistema produttivo perdente sarebbe il referente principale e l’autore di tali investimenti, con esiti economici già sperimentati. Ma anche questi risultati potrebbero essere valutati come ottimistici dal momento che non si considera come il passaggio di risorse finanziarie all’economia reale non dipenda solo dalla disponibilità di queste risorse. Occorre aggiungere, inoltre, che per modificare questa tendenza e spostare il sistema produttivo su un  diverso versante competitivo, la strumentazione degli incentivi alla spesa in R&S,  utilizzata sino  ad ora e tuttora richiesta, non può che confermare i risultati negativi che a posteriori e seppur tardivamente, sono stati verificati anche dalle analisi condotte dalla Banca d’Italia. Si tratterebbe di continuare, al di là delle parole, lungo una scelta di competitività di costo, coerente con buona parte del dibattito sulla riforma del mercato del lavoro che, non a caso, viene tuttora alimentato.

Gr5maz

Per salvare le apparenze questo dibattito fa alle volte riferimento al caso della Germania, un caso di successo, trascurando il fatto che quel caso si è sviluppato dietro una iniziativa politica che aveva assunto l’obiettivo strategico della competitività tecnologica. Questa scelta strategica si è poi attuata passando per un  tavolo allargato agli attori sociali dove la dimensione media delle imprese era di circa dieci volte quella italiana ( ma sembra che da noi nessuno se ne sia accorto)  ed elaborando strumenti attuativi coerenti con le condizioni di partenza sino alla realizzazione di un “sistema nazionale dell’innovazione”. Un sistema del quale esistevano già tutti i presupposti culturali e in termini sviluppo della R&S a livello pubblico ma particolarmente come impegno delle imprese. Anche queste differenze con il nostro Paese sembrano inessenziali e trascurabili tanto da non venire mai citate, a riprova di una cultura del tutto “particolare”. Il fatto che non vengano citate nemmeno tra le riforme che l’Unione ci chiede, solleva oltre a questioni culturali anche aspetti di ordine economico-concorrenziale. Alcuni strumenti di quella strategia sono peraltro difficilmente ripetibili o assimilabili, come è il caso delle relazioni di scambio commerciale che la Germania ha con paesi contigui, in via di sviluppo o meno, che possono fungere da utili fornitori quando si operi in regime di competitività di costo. Detto questo resta la strategia generale, cioè quella di spostare i fattori della competitività economica sul versante dell’innovazione e della qualità tecnologica piuttosto che sulla riduzione dell’occupazione,; una strategia che, in varia misura, troviamo adottata nei paesi avanzati, ad incominciare dall’entità delle risorse finanziarie pubbliche e private dedicate al settore della R&S, e che nella sua applicazione reale non può essere considerata come la sommatoria di provvedimenti assunti in contesti del tutto specifici e particolari.

Se, dunque, gli strumenti non sono semplicemente “copiabili”, resta la scelta strategica: sviluppare  una economia tecnologicamente competitiva.  Una scelta sempre più essenziale anche in relazione alla quota crescente del Pil che viene scambiato nel commercio internazionale: nell’arco di circa 30 anni tale quota è passata dal 15-20 % degli Anni ’80, al 25-30 % degli anni 2000 (grafico 6).

Gr6maz

In un mondo capitalista dove la dimensione della globalizzazione è assunta a riferimento per la propria sopravvivenza, immaginare di evitare questa componente nel disegno di una propria strategia economica, sarebbe un segno del proprio fallimento ma avrebbe anche un significato reazionario.

Questa strategia in materia di competitività tecnologica non è giustificata con riferimento al caso della Germania, cioè con il raggiungimento di un surplus commerciale come strumento permanente di sviluppo. Questo sarebbe un obiettivo erroneo in quanto – al di là di situazioni contingenti – si regge solo su una situazione di dipendenza di altre economie necessariamente in deficit. L’obiettivo della costruzione di un sistema nazionale dell’innovazione ha tutt’altre motivazioni e, in particolare, quella di spostare la propria economia su produzioni che consentono un cambiamento anche della qualità del lavoro, di affrontare i necessari scambi commerciali con altri paesi  disponendo di una specializzazione tecnologica con valori aggiunti equilibrati quali quelli consentiti solo dalla disponibilità di tecnologie evolute e senza i quali il declino sarebbe inevitabile come si evidenzia dall’andamento della nostra bilancia commerciale in materia di prodotti ad alta tecnologia (Grafico 7) ed infine, con una valenza strategica insostituibile, che è quella di essere lo strumento necessario  per programmare il cambiamento.

Gr7maz

L’obiezione che viene avanzata circa i tempi necessari per avviare queste trasformazioni strutturali – e cioè che si tratterebbe di tempi incompatibili con la gravità della nostra condizione sociale – è del tutto corretta, ma la risposta non può essere quella di accumulare ulteriori ritardi o, tanto meno, quella di accumulare ulteriori deformazioni nella distribuzione della ricchezza. Allargare l’operazione 80 euro e accelerare la partenza degli investimenti sui lavori progettati e pressoché appaltati finalizzati alla manutenzione del territorio e delle infrastruttura – uno dei vari ritardi storici del Paese – anche utilizzando a questo fine almeno parte dei 300 miliardi promessi da Juncker, investimenti che non espongono la nostra bilancia commerciale e quindi il nostro Pil ad oneri particolari, rappresentano risposte possibili e non negative alla nostre urgenze sociali.  Ma non possono surrogare nel tempo le deficienze strutturali descritte precedentemente: nell’arco di pochi anni gli effetti positivi di quegli investimenti non sarebbero ulteriormente ottenibili mentre le tare dei ritardi strutturali – non eliminate – sarebbero ancora più pesanti.

Per correggere questi limiti strutturali occorre un Progetto specifico e complesso, una scelta di fondo. Entro questa scelta si possono e si devono, poi, compiere ulteriori scelte di politica economica e sociale,  possono trovare posto i nuovi distretti industriali, la green economy, la valorizzazione del nostro patrimonio culturale e ambientale, lo sviluppo di una nuova qualità e quantità dell’occupazione, ecc., ma ad una condizione:  che  si costruisca una Sistema competitivo sul fronte tecnologico.  E’ intorno a questo obiettivo che sarebbe necessario concentrare il dibattito e l’impegno.

Questo Sistema comprende tre attori specifici: la Conoscenza, la Finanza, l’Imprenditoria, oltre, naturalmente una volontà politica di tenerli insieme,  correttamente finalizzati, coordinati e utilizzati. Nella situazione del nostro Paese questi tre attori non si trovano dietro l’angolo. Si è vista in precedenza la condizione in cui si trova il sistema della Ricerca delle imprese ed è evidente che l’attore della Conoscenza deve essere, come minimo, integrato dal sistema della ricerca pubblica; ma anche gli strumenti finanziari sono oggi praticamente inesistenti, sia perché occorre spostare gli investimenti pubblici al di fuori dei vincoli di bilancio, sia perchè occorrono ulteriori strumenti finanziari finalizzarti alle fasi dello sviluppo e dell’innovazione. Ma anche gli strumenti di analisi delle scelte possibili, delle valutazioni di ordine macroeconomico, sono stati distrutti e devono essere ricostruiti.

Tutto questo non in contrapposizione – occorre  ribadirlo – agli interventi in materia di evasione fiscale, di malavita, corruzione, ecc. ma  in considerazione del semplice fatto che anche ottenendo risultati positivi su questi fronti non necessariamente si otterranno migliori risultati in materia di competitività della  propria economia reale. Può essere più agevole che si verifichi il contrario e cioè che il protrarsi e l’allargamento della crisi alimenti il ricorso a “rimedi” irregolari. La storia del nostro Mezzogiorno – ma non solo – esemplifica quali potrebbero essere questi “rimedi”. Una ipotesi tutt’altro che impossibile e che il Governo dovrebbe considerare attentamente.

Occorre a questo punto osservare che i segnali che vengono dal Governo in materia di sviluppo economico non sembrano, al momento, occuparsi di queste questioni; l’encomiabile attivismo del Governo quando arriva anche solo a dover parlare di politica industriale sembra sempre ritirarsi su questioni di contorno, ancorché importanti. E’ il caso degli interventi per sbloccare gli investimenti a breve in materia di lavori e appalti pubblici verso gli ampi settori della manutenzione dei servizi e delle relative strutture del Paese ai quali ci si è riferito in precedenza. Si tratta di interventi molto importanti verso i quali la maggiore attenzione deve essere rivolta principalmente all’entità finanziaria in quanto terapie a dosi omeopatiche in questi casi sarebbero certamente inefficaci.

E’ quindi sulla questione delle riforme – quelle vere – del sistema produttivo che restano le maggiori perplessità. Alcuni segnali da parte del Governo si sono dovuti manifestare; ad esempio ad inizio anno si sono resi evidenti i contenuti del Piano dei Progetti cofinanziati dall’Unione, Progetti che nel complesso parlavano di tutto e quindi di niente; un secondo segnale, più recente, riguarda la nomina di un nuovo Commissario all’Enea dopo ben cinque anni passati di comissariamento, il che significa o non avere nessuna idea in materia di competitività, di ricerca e sviluppo sostenibile che sono i compiti istituzionali del secondo ente di ricerca di questo Paese, oppure proseguire nel processo di silenziosa estinzione di questa struttura pubblica. Due obiettivi, per la verità, non contradditori. Si tratta, quindi, di un segnale negativo da non sottovalutare, anche perché quella nomina coinvolge direttamente il responsabile del governo per le politiche industriali.

A questo punto c’è però qualcosa di più di un indizio, e cioè il fatto che l’indice delle riforme messe in pista dal Governo non è certamente breve – anche perché c’è un’inflazione nell’uso della parola “riforma”, utilizzata anche per spostare un parcheggio – ma le questioni centrali per la sopravvivenza dell’Italia, per la sua tenuta economica e sociale, per correggere il suo declino, non hanno trovato ancora uno spazio nell’azione del Governo, né  si sono avviate le premesse per arrivare, comunque, a poter affrontare concretamente una politica industriale, una politica economica coerente con i proclami sulla necessità di un nuovo modello di sviluppo. In sostanza sembrerebbe che il nostro attuale Governo sia ancora fermo a quelle condizioni accennate all’inizio e cioè alla prevalenza di ipotesi politiche ispirate alla visione “neoliberista” e che quindi sia meglio restare alla finestra poiché  il libero mercato metterà tutto a posto, magari facendo ricorso ad una nuova stagione di investimenti agevolati e di  privatizzazioni, dopo il “successo” di quelle precedenti. Questo spiegherebbe quell’attivismo del Governo su tutto ciò che non è esplicitamente politica industriale, un attivismo che potrebbe arrivare al massimo ad una politica keynesiana affidata a soggetti non keynesiani e, come tali, non portatori di interessi pubblici. Quindi, quello che per ora potrebbe essere interpretato come un ritardo potrebbe essere invece un indizio di una scelta politica, una scelta del “mercato” privato come attore e autore della rinascita, in coerenza, peraltro, con gli interessi e con la cultura tuttora prevalenti, ancorché responsabili della crisi.

L’incertezza su questi indizi ha, peraltro, tempi molto brevi in quanto gli atti formali del Governo impongono di fatto un chiarimento nell’arco di alcune settimane. Se questi “indizi” dovessero trovare una conferma definitiva, poiché quel Sistema dell’innovazione al quale si è accennato può essere progettato e realizzato  solo se esiste una convinzione e una gestione politica coerente, vorrà dire che il Paese continuerà nel declino poiché vale l’interrogativo e la risposta della Mazzuccato riportata all’inizio e cioè; “anche se le riforme strutturali fossero attuate, sarebbero sufficienti, da sole, a stimolare la crescita nella periferia dell’Eurozona?. La risposta è NO’.“ E i motivi di questo NO dovrebbero essere chiari.

Add comment

Submit