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Renzi, la disoccupazione giovanile e il sindacato

di Guglielmo Forges Davanzati

Date una pensione a Renzi e Poletti 620x372Il tasso di disoccupazione giovanile, che riguarda individui di età compresa fra i 15 e i 24 anni, ha raggiunto, nell’ultima rilevazione ISTAT di giugno, il 44,2%, in aumento di 1,9% rispetto al mese precedente, raggiungendo il livello più alto dal primo anno di stima (il 1977). La rilevazione esclude i giovani inattivi, ovvero coloro che non cercano lavoro. L’ISTAT rileva che nell’ultimo anno, il tasso di disoccupazione complessivo è aumentato di 0.3 punti percentuali.

A ben vedere, l’attuazione di politiche di contrasto alla drammatica crescita della disoccupazione giovanile, in particolare nel Mezzogiorno, non sembra essere oggi fra le priorità di questo Governo. La propaganda governativa è prevalentemente concentrata nel vantare il merito di aver contribuito, tramite il Jobs Act, alla trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato. Ma anche se ciò è accaduto, si fa riferimento a lavoratori già occupati e, dunque, prevalentemente adulti. Molti commentatori fanno osservare che la trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato è semmai da imputare agli sgravi fiscali attribuiti alle imprese, non alla “riforma” in quanto tale. E, seguendo questa interpretazione, è prevedibile che alla scadenza del periodo durante il quale le imprese potranno godere di decontribuzioni, molti contratti verranno ri-trasformati in contratti a tempo determinato. Ma soprattutto la propaganda governativa è impegnata in una tenace battaglia volta a dipingere il sindacato come una forza reazionaria, la cui azione frena la crescita.

L’aumento della disoccupazione giovanile è imputabile al fatto che, come registrato da Banca d’Italia, fin dal 2010, la riduzione dell’occupazione si è manifestata più sotto forma di riduzione delle assunzioni che di aumento dei licenziamenti. Il fenomeno viene imputato a effetti di labour hoarding, ovvero alla convenienza – da parte delle imprese – a non licenziare lavoratori altamente specializzati in fasi recessive, dal momento che, se dovessero farlo, nelle successive fasi espansive si troverebbero costrette ad assumere individui da formare, con i conseguenti costi (monetari e di tempo) connessi alla specializzazione dei nuovi assunti.

A ciò si associa il fatto che la (relativa) tenuta dell’occupazione di lavoratori in età adulta è anche dipendente da fenomeni di disoccupazione nascosta, ovvero dal fatto che – in imprese di piccole dimensioni, spesso a conduzione familiare – il livello di occupazione viene mantenuto stabile per il semplice fatto che i lavoratori dipendenti appartengono al nucleo familiare. In altri termini, il costo del licenziamento, in questi casi, è sia economico (per la perdita di reddito dell’unità familiare) sia psicologico, ed è indipendente dalla specializzazione degli occupati. Non dovrebbe essere trascurato il fatto che l’aumento della disoccupazione giovanile si registra in un contesto di drastica riduzione del potere contrattuale dei sindacati e della sostanziale assenza, almeno in Italia, di nuove forme di conflittualità.

Il punto in discussione riguarda il fatto, ben noto, che le giovani generazioni non percepiscono il sindacato come un soggetto che possa rappresentarle e, al tempo stesso, il sindacato incontra difficoltà nel reclutarle. Le politiche di precarizzazione del lavoro messe in atto negli ultimi anni, ponendo i lavoratori in competizione fra loro, hanno esercitato un effetto rilevante nello spezzare i legami di solidarietà fra lavoratori che sono alla base dell’azione sindacale. In questa dinamica, ha buon gioco il Governo nel suo obiettivo di delegittimare il sindacato: la proposta di un sindacato unico e l’introduzione di nuovi vincoli al diritto di sciopero rientrano in questa strategia.

Uno studio recente del Fondo Monetario Internazionale (http://www.imf.org/external/pubs/ft/sdn/2015/sdn1514.pdf) mostra che la riduzione della union density nel corso degli ultimi decenni è stata la principale causa delle crescenti diseguaglianze distributive. E aggiunge che le crescenti diseguaglianze distributive, a loro volta, sono alla base dei bassi tassi di crescita registrati dai Paesi industrializzati negli ultimi decenni (http://www.oecd.org/els/soc/Focus-Inequality-and-Growth-2014.pdf). La spirale perversa che si è così generata è quindi riassumibile nella sequenza riduzione del potere contrattuale dei sindacati – aumento delle diseguaglianze – riduzione del tasso di crescita – aumento del tasso di disoccupazione, in particolare giovanile. Schematicamente, e con riferimento all’Italia, il rallentamento del tasso di crescita (a sua volta imputabile al declino della produttività del lavoro) è imputabile ai seguenti fattori.

1) Le imprese italiane, nella gran parte dei casi, sono poco propense a innovare, anche a ragione del fatto che, essendo di piccole dimensioni, non possono sfruttare economie di scala e in più sono fortemente dipendenti dal settore bancario. In una fase, come questa, di restrizione del credito, gli investimenti si riducono e, a seguire, si riduce il tasso di crescita della produttività del lavoro.

2) L’invecchiamento della popolazione, per alcune mansioni, costituisce un fattore di freno alla crescita della produttività. In generale, economie nelle quali il bacino degli occupati è formato prevalentemente da individui giovani sono economie con elevato tasso di crescita: ciò a ragione dell’obsolescenza intellettuale che riguarda lavoratori con età più elevata, della maggiore propensione al consumo dei giovani (e dunque della più alta domanda interna), della maggiore ‘creatività’ (e, dunque, della maggiore propensione a innovare). Gli annunciati tagli alla sanità non potranno che esercitare ulteriori effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro, dal momento che incideranno negativamente sul potenziale produttivo della forza-lavoro[1].

3) I salari percepiti dai lavoratori italiani sono al di sotto della media europea a fronte di un numero di ore lavorate superiore alla media europea. Vi è ampia evidenza empirica a sostegno della tesi secondo la quale laddove i salari sono maggiori è maggiore la produttività del lavoro. Ciò accade fondamentalmente per l’operare di due meccanismi. Sul piano microeconomico, l’aumento dei salari, combinato con minore flessibilità in uscita, incentiva le imprese a introdurre innovazioni per non perdere quote di mercato[2]. Sul piano macroeconomico, l’aumento dei salari incentiva l’aumento degli investimenti netti, con un duplice effetto di segno positivo, dal lato della domanda (essendo gli investimenti una componente della domanda) e dal lato dell’offerta, dal momento che l’ammodernamento degli impianti è una fondamentale pre-condizione per l’aumento della produttività del lavoro.

4) La precarizzazione del lavoro è un freno alla crescita della produttività, sia perché incentiva le imprese a competere riducendo i costi di produzione (e dunque non innovando)[3] sia perché, accrescendo la concorrenza fra lavoratori, rende necessario un maggior impegno del management in attività di controllo e sorveglianza, per loro natura improduttive, disincentivando l’impegno per la produzione di innovazioni[4].

I Governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno provato a contrastare il continuo aumento della disoccupazione giovanile con queste misure:

a) L’alternanza scuola-lavoro. Si tratta di una misura che risponde all’esigenza di dequalificare la forza-lavoro, assecondando la domanda di lavoro poco qualificato espressa dalla gran parte delle nostre imprese: imprese, salvo rare eccezioni (soprattutto nel comparto dei macchinari), di piccole dimensioni, poco innovative che operano in settori “maturi” (agroalimentare e Made in Italy in primis)[5]. Peraltro i programmi di apprendistato già sperimentati hanno prodotto effetti pressoché nulli.

b) Le incentivazioni offerte alle imprese che assumono giovani. E’ bene chiarire che, anche in questo caso, non si tratta di uno strumento efficace per incentivare le imprese ad assumere e, soprattutto, non è uno strumento efficace per accrescere l’occupazione giovanile. Ciò a ragione del fatto che le imprese assumono se le loro aspettative in ordine alla realizzazione di profitti sono ottimistiche e ciò, di norma, accade quando ci si aspetta un aumento della domanda.

c) La promozione dell’auto-imprenditorialità. In questo caso, è possibile riscontrare un duplice problema: la difficoltà di accesso a finanziamenti per l’avvio dell’impresa (pure a fronte di incentivi pubblici nella fase iniziale) e verosimilmente i bassi profitti che una nuova impresa può aspettarsi di ottenere in una fase di intensa e prolungata recessione[6].

Figura 1: azione sindacale e distribuzione del reddito[7]

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Si tratta di provvedimenti la cui ratio risiede, in ultima analisi, nel dequalificare la forza-lavoro e renderla disponibile a bassi salari. Affinché ciò si renda pienamente possibile, è necessario ridurre ulteriormente il potere contrattuale del sindacato. La figura 1 stabilisce che la riduzione della union density e dunque del potere contrattuale del sindacato si è tradotta, nei Paesi OCSE, in un significativo aumento dei redditi percepiti dal 10% delle famiglie con più alto reddito. L’Italia è ovviamente all’interno di questa dinamica, ma con una propria specificità, ovvero il fatto che, rispetto alla media europea, il numero di iscritti al sindacato è ancora relativamente elevato. Letto in questa chiave, il fondamentale compito del Governo Renzi consiste nell’impedire qualunque forma di conflittualità sociale e di resistenza organizzata, incentivando i giovani disoccupati all’autoimprenditorialità e passando a un sistema di relazioni industriali di tipo ‘atomistico’, vincolando l’intermediazione del sindacato.

In tal senso, è un compito che deve accentuare, per l’economia italiana, il processo di redistribuzione del reddito a vantaggio dei più ricchi (percettori di rendite finanziarie e di redditi da capitale) già intensamente in atto in altri Paesi[8]. Un processo di redistribuzione della ricchezza che sembra prioritario rispetto all’obiettivo della crescita e che si rende possibile per l’accresciuto potere politico delle nuove classi agiate.

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NOTE
[1] L’ISTAT, a riguardo, calcola che oltre il 10% della popolazione italiana non ha effettuato spese, nell’ultilo anno, per cure sanitarie.
[2] V., fra gli altri, G. Forges Davanzati e A. Pacella, Minimum wage Minimum wage, credit rationing and unemployment in a monetary economy, “European Journal of Economic and Social Systems”, vol.XXII, n.1, pp.179-194.
[3] V. P.Pini, Più precari, meno produttivi, Micromega on-line, 31 marzo 2014
[4] Sul tema si rinvia a A.Kleinknecht, Z.Kwee and L.Budyanto, Rigidities trough flexibility: flexible labour and the rise of management bureaucracy, “Cambridge Journal of Economics”, 2015, pp.1-11.
[5] Sul tema si rinvia a G.Forges Davanzati, La scuola che piace a Confindustria, Micromega on-line, 22 maggio 2015.
[6] Un importante contributo sul “mito” dell’autoimprenditorialità è stato offerto da M.E.Gerber, The E Mith, HarperCollins Publisher, 2001.
[7] Tratto da F. Jaumotte and C. Osorio Buitron in IMF “Finance & Development”, March 2015, Vol. 52, No1.
[8] V. http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2015/09/28/carlo-formenti-%E2%80%9Cbasta-sindacati%E2%80%9D-il-manifesto-neoliberista-del-%E2%80%9Ccorriere%E2%80%9D/

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