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eticaeconomia

Padoa-Schioppa scrive a Caffè

Due visioni della democrazia e dell’Europa

di Alberto Baffigi

federico caffe 2Alberto Baffigi trae spunto da una polemica lettera che Tommaso Padoa-Schioppa inviò a Federico Caffè nel settembre del 1978, alla vigilia dell’accordo sul Sistema Monetario Europeo, per mettere a confronto le loro diverse concezioni della democrazia e dell’Europa. Baffigi sostiene che la concretezza di Caffè, radicata nell’”economia del benessere” e nell’attenzione ai problemi distributivi, appare ancora oggi un’opzione su cui riflettere per rafforzare le basi democratiche delle nostre società e ridare slancio al progetto europeo

Il 2 settembre 1978 Tommaso Padoa-Schioppa, allora consulente economico presso il Ministero del Tesoro, scrisse una lettera privata a Federico Caffè; una lettera molto dura, di reazione alle severe critiche con cui il professore aveva stigmatizzato, in dichiarazioni pubbliche, il piano triennale del ministro del Tesoro, Pandolfi. Il piano (Una proposta per lo sviluppo, una scelta per l’Europa), pubblicato il giorno precedente, comprendeva una serie di impegni e obiettivi sul fronte della politica salariale e su quello della finanza pubblica, elaborati a supporto della partecipazione dell’Italia al Sistema Monetario Europeo, lo SME. Alla sua stesura aveva dato un contributo rilevante lo stesso Padoa-Schioppa (Papadia, 2014). In quella lettera e in due articoli di Caffè pubblicati nelle settimane successive, ritroviamo drammaticamente condensata una parte importante della battaglia tra diverse idee di Europa che segnò le cruciali scelte di quegli anni. Quei testi meritano una lettura attenta, oggi che l’Europa si trova nelle secche di una profonda crisi politica che molti collegano a un preoccupante deficit democratico.

I toni usati nella lettera sono forti e a tratti irrispettosi, talmente forti che Padoa-Schioppa ritenne necessario far conoscere al governatore Paolo Baffi le parole da lui rivolte a Caffè, probabilmente consapevole dell’antica amicizia e della forte e reciproca stima scientifica che legavano il governatore all’accademico e che, peraltro, proseguirà intatta negli anni successivi: «Non ho potuto trattenermi dallo scrivere questa lettera. Spero che lei non disapproverà. T. Padoa-Schioppa», scrive su un bigliettino che accompagna la copia della lettera inviata a Baffi (la lettera, riprodotta integralmente in un mio scritto più lungo, è consultabile presso l’Archivio storico della Banca d’Italia).

Nello stesso mese di settembre, Caffè torna, in due articoli, sui temi già affrontati nelle dichiarazioni a caldo, approfondendoli: parlano delle condizioni dei lavoratori in Europa, delle varie situazioni di emarginazione sociale che «deturpano il volto del nostro paese» e dello “strangolamento” che ci si poteva attendere dall’adesione a un sistema monetario a egemonia tedesca. Caffè critica il velleitarismo di chi cercava la via monetaria all’Europa, riproponendo così la distorsione tipica della politica economica italiana: la proiezione verso l’esterno a scapito dei problemi interni più rilevanti; invita a coltivare il dubbio di fronte a una integrazione monetaria affrettata; esorta a una politica “del piede di casa” (Tiberi, 2007) anche mettendo al centro del dibattito un tema, oggi quanto mai attuale, come quello del rapporto fra scelte collettive e democrazia: il tema del consenso sociale, inteso come «sforzo di persuasione al quale ognuno può dare il suo apporto», ma «con sincerità» e rifuggendo dall’«allarmismo economico»..

In prospettiva storica, l’episodio della lettera si colloca sulla linea di faglia intorno alla quale, negli anni Settanta, si andavano manifestando alcuni importanti mutamenti di prospettiva nel modo di pensare l’economia e quindi di elaborare la politica economica. In quel periodo assistiamo al progressivo affievolimento dell’attenzione degli economisti alla teoria delle scelte sociali e al corpus teorico dell’Economia del benessere (Cherrier e Fleury, 2016).

In realtà, le difficoltà per l’Economia del benessere avevano radici lontane. Nata con l’opera di Pigou (The Economics of Welfare, 1920) che traduceva in termini economici la filosofia utilitaristica di Bentham, l’impostazione originaria entrò in difficoltà quando gli economisti, in particolare con Lionel Robbins (An Essay on the Nature and Significance of Economic Science, 1932), compresero appieno la portata teorica della incomparabilità delle utilità individuali, che alcuni anni prima Pareto aveva posto al centro dell’analisi economica: la massimizzazione dell’utilità sociale, quale somma delle utilità individuali, non ha fondamento scientifico e quindi non può essere considerata obiettivo della politica economica, come invece riteneva Pigou; la scienza economica consente di valutare positivamente un determinato provvedimento di politica economica solo nel caso in cui esso dia luogo a vantaggi per almeno alcuni dei membri della società senza che altri ne siano danneggiati. Nei casi abituali invece, nei quali dalle politiche discendono vincitori e perdenti, la valutazione non potrà avere contenuto obiettivo, ma dovrà ricorrere a espliciti giudizi di valore, con i quali soppesare opportunamente la distribuzione degli effetti di segno contrario osservati.

Le reazioni degli economisti furono sostanzialmente di due tipi: da una parte vi furono tentativi di costruire metodi di scelta sociale trasparenti, in grado di definire obiettivi espliciti per le politiche economiche «di cui l’economista debba prendere atto» (Caffè, 1956, p. XV); dall’altra, si tentò di salvare la centralità della scienza economica quale disciplina in grado di indicare gli stessi obiettivi di policy, non solo gli strumenti atti a perseguirli; questa prospettiva poneva la questione in termini inversi rispetto all’altra: è il politico che deve prendere atto degli obiettivi definiti dall’economista.

Il primo approccio comprendeva il complesso e problematico filone di indagini volto alla costruzione di una funzione del benessere sociale, il cui scopo era quello di incorporare in un unico schema analitico «sia l’aspetto dell’efficienza, sia quello dell’equità distributiva», in modo da definire un ordine di preferenze fra possibili stati distributivi e produttivi della società nel suo complesso (Caffè, Lezioni di politica economica, 1981, pp. 32 e ss. e Igersheim, 2016); ma vi rientrava anche l’idea, di sapore rawlsiano, che Caffè propone già nel 1956 (Caffè, 1956, pp. XIV-XV), in base alla quale sarebbe opportuno orientare la ricerca verso «la determinazione scientifica degli “standards” minimi delle condizioni di vita e studiare i vari metodi utilizzabili (nella sfera della produzione e della distribuzione) per assicurarli a tutti i componenti la collettività» (Caffè, 1956, pp. XIV-XV).

Il secondo approccio, consisteva nel cosiddetto “principio di indennizzo” (compensation principle), sviluppato da Nicholas Kaldor e da John Hicks negli anni Trenta nell’intento di consentire una valutazione obiettiva delle politiche pubbliche: un mutamento nella situazione distributiva e produttiva di una società dal quale discendano effetti differenziati sugli individui (per alcuni positivi per altri negativi), può essere considerato un miglioramento per la società nel suo complesso se, nelle nuove circostanze, coloro che hanno tratto vantaggio dal mutamento sono potenzialmente in grado di indennizzare i perdenti, al fine di compensare gli svantaggi da loro subiti, senza che il trasferimento di denaro annulli i guadagni ottenuti. Il principio di indennizzo generò un dibattito molto importante e ancora oggi molto istruttivo, ma si scontrò presto con alcuni problemi logici che ne evidenziavano la intrinseca contraddittorietà: rimaneva così confermata l’impossibilità di separare gli aspetti produttivi da quelli distributivi nelle decisioni di politica economica (I.M.D. Little, A Critique of Welfare Economics, 1957, p. 92; Caffè, Lezioni di politica economica, 1981, p. 31).

Inquadrata la vicenda della lettera di Padoa-Schioppa in questa schematica storia del pensiero economico, la posizione di Caffè è riconducibile alla prima impostazione; quella di Padoa-Schioppa alla seconda, la quale riuscirà sempre più ad affermarsi, nonostante la sua debolezza teorica: essa costituisce, ancora oggi, la base degli argomenti di chi ritiene di poter proporre riforme strutturali, volte ad aumentare l’efficienza del sistema, senza considerarne contestualmente le implicazioni distributive (O’Rourke, 2015); vivissimamente consigliata la lettura di Driskill (2012), e di Rodrik, The Globalization Paradox, 2011, pp. 61 e ss).

La radicale divergenza di vedute fra Caffè e Padoa-Schioppa può essere posta su questo sfondo di diverse visioni della democrazia: Caffè, orientato a prestare attenzione alle concrete esigenze degli attori sociali, soprattutto ai più svantaggiati, al fine di definire politiche direttamente orientate a farvi fronte; Padoa-Schioppa, teso a perseguire obiettivi di carattere generale, nelle sue intenzioni volti a migliorare l’efficienza del sistema economico e, per questa via, a creare benefici per la società nel suo complesso. Il filone di pensiero di cui nell’episodio della lettera Padoa-Schioppa fu portatore prevalse negli anni successivi, fino a diventare il metodo di governo che guida oggi l’Europa; un metodo che presume di poter separare le politiche riguardanti le questioni produttive, ritenute di ordine strettamente tecnico, dall’ambito delle scelte sociali da sottoporre a giudizio politico all’interno di procedure democratiche (O’Rourke, 2015).

Oggi, l’Europa è in profonda crisi politica e probabilmente sarebbe opportuno ripensare con spirito critico le scelte che ci hanno condotto fin qui e le idee che le hanno determinate. E a questo scopo appaiono ancora utili il nucleo analitico del pensiero economico e politico di Federico Caffè, il suo punto di vista, i suoi “criteri di desiderabilità” rispetto alla scelta degli obiettivi e degli strumenti di policy.

Un robusto ottimismo sulla via da seguire per l’integrazione europea impedì a Padoa-Schioppa di prendere sul serio le ragioni critiche del suo interlocutore; quell’ottimismo non è estraneo alla crisi politica in cui si trova oggi l’Europa: per farvi fronte occorre concretezza, prestare attenzione ai bisogni degli “uomini comuni”, come avrebbe detto Caffè. Come è stato osservato, con utile sintesi, «ciò che rende unica la democrazia moderna è la crescita di un articolato sistema di comunicazione capace di impedire che i rappresentanti diventino una nuova oligarchia e di unire l’intero paese “simultaneamente in una unica agorà”» (Nadia Urbinati, 2006, L’ethos della democrazia. Mill e la libertà degli antichi e dei moderni, Laterza, p. 15). Il deficit di democrazia che accompagna lo stallo del progetto europeo consiste proprio nell’inceppamento di questo sistema di comunicazione, con élite che – ritenendo di poter scindere nelle scelte politiche gli aspetti produttivi e di efficienza da quelli distributivi – operano mostrando disinteresse per la concreta realtà sociale su cui impattano le loro decisioni di politica economica. La concretezza della visione sociale di Caffè appare una strada ancora percorribile per rimettere in sesto le basi democratiche delle nostre società e l’idea stessa di Europa. Le alternative alla concretezza sono date dalla demagogia populistica e dalla tecnocrazia, due facce della stessa medaglia.

* La responsabilità sul contenuto dell’articolo è esclusivamente mia e non coinvolge l’Istituto in cui lavoro.

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