Print Friendly, PDF & Email

Dalla Pornocrazia alla Mignottocrazia

di Andrea Cortellessa


Note sul regime biospettacolare di Berlusconi

Nel paesaggio in rovine, nella facies hippocratica del presente che illustra – tormentoso prima che esilarante, come pure non riesce a non essere – La Suburra di Filippo Ceccarelli, una scena in apparenza meno torrida di altre colpisce, però, con una violenza speciale. Siamo ancora in una fase primordiale di quello che, per la famiglia Berlusconi, diverrà la primavera seguente uno psicodramma vissuto in diretta sulla ribalta mediatica, nazionale e non (dopo lo scoop di «Repubblica» sulla partecipazione del Presidente alla festa di compleanno d’una giovane campana; dopo una clamorosa intervista rilasciata allo stesso giornale da sua moglie; dopo che l’“amico di famiglia” Vittorio Feltri, sulla prima pagina del posato quotidiano «Libero», ripesca dal suo passato d’attrice delle foto a seno nudo col pacato commento Veronica velina ingrata); ma già successiva a una serie di servizi fotografici documentanti i passatempi del Presidente, dopo che è stata pubblicata coram populo un’intercettazione telefonica fra lui e un ossequioso dirigente RAI nella quale Berlusconi raccomanda attrici segnalate da certe persone «con cui sta trattando» perché «sta cercando… di avere la maggioranza in Senato» (siamo agli ultimi sussulti del secondo governo Prodi, col suo risicatissimo margine parlamentare), e dopo che a séguito delle trionfali elezioni dell’aprile 2008 s’è insediata in Parlamento «una folta schiera di belle ragazze» subito dai cronisti parlamentari simpaticamente definite «Forza Gnocca» (Filippo Ceccarelli, La Suburra. Sesso e potere: storia breve di due anni indecenti, Milano, Feltrinelli, 2010, p. 21).


Mitologema cardine dell’inesauribile automitobiografia di Berlusconi (come già di quella mussoliniana) è la sua incrollabile resistenza al lavoro. A pochi mesi dall’insediamento del suo quarto governo, per dimostrare quanto fosse dedito al lavoro anziché ai già chiacchieratissimi svaghi, Berlusconi non trova di meglio che squadernare, di fronte ai soliti cronisti infidi, la propria agenda personale fittissimamente vergata: «Ecco, leggete, vedete voi tutto quello che mi aspetta». Poi però i fotoreporter «con calma e con i dovuti ingrandimenti avevano decrittato: c’erano anche impegni con due delle cinque attrici raccomandate, compariva il nome sospetto di una donna slava […]; alle 20.30 c’era addirittura una certa “Selvaggia”. Non esattamente le tribolazioni indicate con l’aria di chi non ce la fa più». (Particolare fra tutti inquietante, alla fine di quell’eterogenea lista figurava poi un ultimo appunto di proprio pugno, su se stesso quale presidente del Milan: «Il presidente numero 1, numero 1, il presidente con più vittorie, il più vittorioso della storia del calcio […] Numero 1 nella storia del calcio. Milan AC Campione del mondo»: Ceccarelli, p. 23)

Un simile acting out da delirio psicotico – performato di fronte a un’esemplare scena mediatica – nella sua potenza icastica appare un’immagine degna di passare alla storia. Ma in che senso si può considerare, Silvio Berlusconi, un fenomeno “storico”? Una parte dell’autodefinita “sinistra” da tempo invita a non sovradimensionare un personaggio che è già l’iperbole di se stesso; si ricorderà come l’ex segretario del PD, nella campagna elettorale del 2008 destinata a sancirne il definitivo trionfo, si spinse sino a censurare il nome del «candidato dello schieramento avverso». Come se ogni censura non fosse in primo luogo una preterizione: presenza tanto più schiacciante quanto più rimossa. Se i suoi fan lo idolatrano acriticamente, primo compito di chi gli si voglia opporre sarà invece quello di esercitare una critica la più possibile approfondita dell’idolo, del feticcio-Berlusconi. Anzitutto prendendo atto che è lui l’entità storica più rilevante degli ultimi sessant’anni, in Italia; e tra le più importanti in assoluto.

Lo afferma finalmente uno storico importante, Antonio Gibelli, in un breve saggio che si presenta come capitolo finale di un manuale di storia dell’immediato futuro: Berlusconi passato alla storia. L’Italia nell’era della democrazia autoritaria (Roma, Donzelli, 2010). Per Gibelli è proprio con Berlusconi che viene a clamorosa evidenza un processo storico, appunto, di incalcolabile rilevanza: la privatizzazione della politica. Eloquente lo slogan berlusconiano sul «sole in tasca» che i promotori di Forza Italia devono avere, per poterlo offrire ai clienti-elettori (frase talmente tipica del leader da dare il titolo a un imbarazzante trattato encomiastico di Sandro Bondi – nel frattempo dall’encomiato inopinatamente insignito della carica di Ministro dei Beni e delle Attività Culturali – pubblicato da Mondadori nel 2009): non solo esso «richiama l’emanazione solare e divina del potere» (Ceccarelli, p. 37) ma appunto esemplifica come, nel delirio psicotico, la realtà macrocosmica possa – e anzi debba – essere messa a disposizione del microcosmo di pertinenza del singolo soggetto desiderante. Il mondo è lì per essere fagocitato, introiettato, messo in tasca appunto. Come ha scritto Franco Cordero (paragonando il caso di Berlusconi a quello di Hitler), «esistono psicosi acted out: i malati soffrono perché, disadatti al mondo, vi battono la testa; qualche rara volta adeguano l’esterno alle loro abnormi misture, sulla pelle altrui» (Il brodo delle undici. L’Italia nel nodo scorsoio, Torino, Bollati Boringhieri, 2010, p. 57).

Di là da incomprovabili ipotesi psichiatriche, il cortocircuito pubblico-privato si fa evidente con la scelta – da parte dello stesso Berlusconi – di imporre, nelle liste elettorali e dunque in Parlamento, una quantità di avvocati. L’Emiciclo, si obietterà, ben prima dell’invasione delle Gnocche è da sempre affollato da Azzeccagarbugli; e d’altra parte una contiguità fra la retorica forense e quella politica si può dire sia alle origini stesse, ateniesi e poi romane, della politica occidentale. C’è però, in questo caso, una particolarità non del tutto innocente: chi più chi meno illustre i vari Previti, Ghedini, Pecorella hanno infatti in comune, nei rispettivi curricula, l’essere o essere stati difensori di Silvio Berlusconi e/o delle aziende di sua proprietà. Laddove, come scrive Gibelli (p. 81), il Parlamento dovrebbe essere chiamato a «produrre provvedimenti generali e astratti volti a stabilire regole comuni e a proteggere diritti», mentre la funzione dell’«avvocatura consiste nel difendere interessi particolari». Con congrui onorari che si sommano, nella fattispecie, agli emolumenti non minimi spettanti ai parlamentari della Repubblica.

Se a tutti è (o dovrebbe essere) evidente lo scandalo del conflitto di interessi per il quale, in una società ad altissima propagginazione mediatica come una democrazia parlamentare occidentale del ventunesimo secolo, il principale imprenditore nel settore delle comunicazioni sia anche una figura politica di primo piano – con la sempre meno celata intenzione di difendere, nella sede per eccellenza pubblica dell’agire politico, interessi che sono squisitamente privati – molto meno si è riflettuto, sino a pochi libri fa, su come questo cortocircuito non sia che la punta di un iceberg economico e politico dalla portata ben più generale.

In uno studio recente dal titolo Stato spettacolo. Pubblico e privato dagli anni ’80 a oggi (Milano, Bruno Mondadori, 2010), la storica Anna Tonelli ha ricordato come quando venne pubblicato da noi il saggio, quasi omonimo del suo, di Robert-Gérard Schwartzenberg L’état spectacle (uscito in Francia nel ’77 e in Italia, da Editori Riuniti, tre anni dopo), il prefatore Tullio De Mauro annoverava l’Italia «tra i paesi nella cui vita politica pare più povera la componente spettacolare». È lecito dubitare che tale giudizio fosse corretto già allora, ma il ricordarlo basta a misurare la distanza antropologico-culturale percorsa da trent’anni a questa parte. Tonelli ci mostra come tratto specifico della politica-spettacolo degli ultimi anni sia appunto la confusione di piani fra pubblico e privato: «crollata la fede nelle ideologie, svanito il senso di appartenenza politica, dissolto il collante delle culture politiche di massa, prevale la logica di un individualismo che si realizza nella spettacolarizzazione di sé» (p. 3). Un processo che certamente inizia al tramonto dei Settanta – un decennio tutto volto, al contrario, all’esaltazione delle «intensità collettive» – quando si fa un gran parlare di «riflusso» e «trionfo del privato» (divertente oltre che documentata un’altra pubblicazione recente sull’argomento: Paolo Morando, Dancing days. 1978-1979. I due anni che hanno cambiato l’Italia, Roma-Bari, Laterza, 2009). Ma mentre gli anni Ottanta erano il tempo del ripiegamento nel privato – una dimensione “concava”, introversa e introflessa, percepita come fuga o autoesilio dalla storicamente deludente sfera “pubblica” e che farà la fortuna, a sigla di una temperie, del cinema di Gabriele Salvatores; Mediterraneo, nel ’91, ostenterà un’epigrafe tratta da Elogio della fuga di Henri Laborit – il nostro tempo, simmetricamente, appare piuttosto quello dell’estoflessione del privato: che si spinge proditoriamente “convesso” nella sfera pubblica: la invade, si fonde con essa radicalmente cambiandola di segno. (Sul numero 5 di «Micromega», nel 2009, Stefano Rodotà ha usato al riguardo il concetto lacaniano di extimité: cit. da Ceccarelli, p. 164.)

L’interfaccia che permette lo scambio simbolico fra le due dimensioni è per l’appunto lo spettacolo. La sede in cui cioè, nei format sempre più affermatisi negli ultimi anni, “si fa spettacolo” della propria intimità – a partire dal vissuto e dall’immagine corporea. La vita privata del singolo Berlusconi – un singolo “come tutti”, fisicamente e culturalmente men che mediocre, ma che secondo la leggenda da lui stesso confezionata “s’è fatto da sé” finendo per conquistarsi una ricchezza e un potere senza uguali – si fa metro di paragone e specchio dei desideri indotti nel pubblico dal suo sofisticato apparato di indottrinamento mediatico. Il più acuminato fra i moltissimi saggi che in questi anni a Berlusconi sono stati dedicati, Il corpo del capo di Marco Belpoliti (Parma, Guanda, 2009), prende le mosse proprio dall’accorta strategia comunicativa con la quale i media di sua proprietà hanno negli anni familiarizzato il pubblico dei suoi elettori coi connotati più rassicuranti dell’ambito famigliare e quotidiano del Capo, «fornendo una versione pubblica della sua interiorità: spettacolarizzazione dell’intimità stessa» (p. 13). In questa vera e propria campagna propagandistica si sono curiosamente distinti old media come i rotocalchi illustrati, ma non c’è dubbio che una simile strategia nasca e si sviluppi in un contesto mediale che ha al centro il motore primo delle fortune del protagonista: la televisione. Dove sempre, per la natura stessa del mezzo, «il privato è pubblico» (p. 89): col quotidiano introdursi nell’intimità famigliare del pubblico e, come detto, da un certo punto in avanti riproducendo quella stessa intimità come propria forma di spettacolo privilegiata.

Non è un caso, dunque, che l’egemonia berlusconiana si saldi – dopo le elezioni del 2001 – in stretta contemporaneità col successo del format del reality show. È insomma e a tutti i livelli, quello iniziato col nuovo secolo, il regime della pornocrazia. Il termine è stato coniato dal filosofo francese Dany-Robert Dufour, che nel suo libro La cité perverse. Libéralisme et pornographie (Paris, Denoël, 2009) sottolinea la nuova rilevanza politica di una «società pornografica di massa, dove pornografia significa esibizione e messa in scena di ciò che normalmente non si espone in pubblico». Così ne sintetizza le tesi Gibelli, applicandole proprio al caso di Berlusconi (p. 45).

L’evoluzione imprevista del “caso” Berlusconi – che Ceccarelli (pp. 77 sgg.) interpreta come contrappasso, anzi «Nemesi» da manuale –  consiste tuttavia nel suo passaggio dal regime della «pornocrazia» – in qualche modo fisiologica, come si è mostrato, nell’odierno regime biospettacolare – a quella che un suo già zelante reggicoda, Paolo Guzzanti, ha definito «mignottocrazia». Termine desolante, se vogliamo, in primo luogo  linguisticamente: per il trasloco nella koinè post-romanesca del Potere romano di quello che è l’étimo stesso del prefisso «porno». Ad ogni buon conto, il termine viene lanciato dal blog del giornalista all’inizio di novembre del 2008 (dopo la querela fatta dal Ministro per le Pari Opportunità, Mara Carfagna, a sua figlia, l’attrice Sabina, a seguito di uno sketch-comizio tenuto a Piazza Navona l’8 luglio precedente), e riscuote un successo immediato. Ha commentato l’artifex (in un suo lutulento dossier pubblicato col titolo Guzzanti vs Berlusconi, Reggio Emilia, Aliberti, 2009): «ebbe il suo porco successo. Cosa di cui non mi vanto, ma di cui anzi mi preoccupo, perché come autore posso solo dire di aver coniato il termine di cui la storia italiana aveva bisogno, perché la mignottocrazia era, è già nelle cose, nell’aria, ma anche nei corpi e nelle menti» (cit. da Ceccarelli, p. 203). La mignottocrazia rappresenterebbe dunque, nella privatizzazione della politica, il salto di qualità per cui nei posti di potere, nonché avvocati e altri stipendiati, vengono direttamente installate dal Capo delle meretrici – fuor di metafora,  si vuol dire – dei cui servizi si sarebbe personalmente giovato. Alla fine del 2009 il «Guardian» titola prontamente: «Politics alla puttanesca» (Ceccarelli, p. 178).

A conferma del fatto che la diagnosi non riguardi tanto le venture di un singolo più o meno disturbato imprenditore “sceso in campo”, ma sia un paradigma politico di portata più vasta, si consideri del resto che se Walter Veltroni, dimidiato emulo nel 2008 giustamente trombato dall’originale, a suo tempo tentò l’improbabile scalata ai vertici pornocratici del modello (i sin dai titoli inquietanti journaux intimes pubblicati negli anni Novanta da Sperling & Kupfer, Certi piccoli amori. Dizionario sentimentale dei film: Tonelli, p. 166), la squallida vicenda del sindaco di Bologna Flavio Delbono (cfr. Ceccarelli, pp. 157 sgg.) segna il diffondersi di pratiche mignottocratiche anche “a sinistra”.

Il termine designa tuttavia anche l’infinita scia di scandali e polemiche che nell’ultimo periodo ha rappresentato, nella traiettoria ascensionale del Presidente, la più minacciosa delle battute d’arresto. Anche questo, certo, va annotato con desolazione: visto che in un quindicennio di scorribande nessuna delle ben più gravi malefatte specificamente politiche del Satrapo era riuscita a tanto. Ma siamo poi sicuri che, con tutto quel che s’è detto, sia corretto considerare estraneo ai meccanismi del Politico l’inciampo mignottocratico? Nell’estate più torrida della Suburra-Italia, mentre si andavano verosimilmente organizzando le opposizioni interne che usciranno allo scoperto l’estate successiva (quella in cui sto scrivendo) mettendo concretamente in crisi quello fra i suoi governi che pareva godere della maggioranza più solida, andava in onda su TeleLombardia anche un inaspettato commento – alla vicenda di Berlusconi – di Toni Negri, il quale ricordava come nel Trattato politico di Spinoza vi sia un passo riguardante i «gravi rischi che corrono i sovrani che vanno con le prostitute» («Lo Stato, per essere soggetto solo a sé, è tenuto a preservare le condizioni di timore e rispetto, altrimenti cessa di essere uno Stato. Infatti, per coloro, o per colui che detiene il potere, è ugualmente impossibile andare in giro ubriaco, o nudo in compagnia di prostitute, fare l’istrione, violare o disprezzare apertamente le leggi da esso stesso emanate, e insieme conservare la sua maestà»: cit. da Ceccarelli, p. 85).

Uno degli arcani maggiori dell’appeal berlusconiano è infatti la miscela paradossale di ostentata e compiaciuta amoralità, da maschio solitario e predace, e di una altrettanto esibita fedeltà – condivisa peraltro dagli altri leader della Destra, tutti divorziati e riconiugati – nei confronti dei valori sacri e intangibili della famiglia tradizionale (ipostatizzati nel mito stucchevole di mamma Rosa: la cui scomparsa, all’inizio del 2008, diede la stura al più ripugnante coro di cortigiani mediatici). Nel ’94, poco dopo la famigerata «discesa in campo», Berlusconi dichiarò solennemente che «la famiglia è il valore più alto: chi trascurasse la propria famiglia non potrebbe essere un buon governante» (cit. da Tonelli, p. 123): che idealmente si candidano a «ultime parole famose» di chi le ha pronunciate. E che sia tutt’altro che secondario, questo piano dello scontro che coinvolge anche poteri Vaticani a loro volta divisi, lo conferma la vicenda del direttore del quotidiano della CEI «Avvenire», Dino Boffo, fatto oggetto – sempre nell’estate terribilis del 2009 – di un killeraggio mediatico senza precedenti da parte del solito Feltri (nel frattempo passato a dirigere l’house organ di famiglia, «Il Giornale»; cfr. Ceccarelli, pp. 109 sgg.). Che si sia trattato di una campagna “militarmente” pianificata ed eseguita, e che di questa potenza di fuoco sempre più si voglia fare, in futuro, uso indiscriminato, lo conferma la frase spudorata pronunciata l’estate seguente dal “falco” Giorgio Stracquadanio, che ha invocato per il “dissidente” Gianfranco Fini un «trattamento Boffo» (candidamente così difendendosi, sulle pagine del solito house organ: «Una provocazione voluta, una forzatura, una metafora. Ho scelto di essere politicamente scorretto perché volevo che le mie dichiarazioni avessero un’eco mediatica»: «Il Giornale», 2 agosto 2010).

Del lessema «mignottocrazia» va peraltro registrata una significativa retrodatazione. In realtà – così almeno si legge su un autorevole sito specifico consultabile all’indirizzo, non scherzo, www.mignottocrazia.it – il conio non sarebbe di Guzzanti bensì di una curiosa figura di antropologo e psichiatra napoletano, Claudio Ciaravolo (che si presenta così: «psichiatra di nascita e napoletano di professione. Di religione catodica. Creattivo a tempo pieno. Lavora poco e si diverte molto»), il quale l’avrebbe introdotto alla fine degli anni Novanta per designare «l’imposizione», da parte dei media, «di un modello retrivo, spesso grottesco e ridicolo, di donna che si comporta e somiglia sempre più fisicamente a chi è costretta a presentare e offrire il proprio corpo come fa una mignotta». Allo stesso Ciaravolo si devono anche termini derivati: «La “mignotteria” è l’uso indiscriminato e oltranzistico della seduzione in ogni aspetto della vita: un atteggiamento ad alto tasso di erotizzazione che, rinforzato dai media, conduce alla “mignottizzazione” della società civile».

In questo senso però la prima mignotta – diciamo pure, parafrasando i termini del più classicamente “italiano” degli epiteti ingiuriosi, la madre di tutte le mignotte – altri non è, evidentemente, che lo stesso Berlusconi. Non solo «utilizzatore finale» delle procaci escort procurategli da un faccendiere pugliese, secondo un memorabile quanto sfortunato tecnicismo impiegato da uno dei suoi avvocati-consigliori-parlamentari (cfr. Ceccarelli, p. 86). Non solo riformulatore mediatico, in pieno ventunesimo secolo, dell’arcaico paradigma binario del maschilismo italico per cui le donne sono o sante-madri (a partire da mamma Rosa, ovviamente, con correlato codazzo di zie suore) o appunto mignotte da esibire sullo schermo (giusta l’impressionante denuncia di documentari come Il corpo delle donne di Lorella Zanardo e Videocracy di Erik Gandini) nonché su quella psicotica riproduzione dello schermo che è la propria vita privata. Ma qualcuno che, nel rapporto di prostituzione, si fa al contempo – paradossalmente – partner attivo e passivo. Puttana e puttaniere.

Se è vero infatti che col suo operato politico degli anni Novanta e Zero giungono a catastrofica realizzazione i paradigmi teorici, elaborati alla fine degli anni Sessanta e lungo i Settanta (quelli, guarda caso, della sua ascesa economico-finanziaria), della società dello spettacolo (Debord) e della società dei simulacri (Baudrillard) – entrambi basati, in forme e accezioni diverse, sul paradigma della seduzione – è perché è appunto all’insegna della seduzione che si gioca tutta la biografia imprenditoriale e politica di Berlusconi. Prima la seduzione esercitata in prima persona, nel corso dei più o meno piccoli cabotaggi finanziari, poi quella gigantografata dalle immani pròtesi mediatiche  di quella medesima persona.

Colpisce come nella bibliografia del Corpo del capo di Belpoliti, a parte le analisi mediologiche della scuola di Alberto Abruzzese e l’esplosivo talento collezionistico-satirico di Ceccarelli, l’unica fonte italiana importante sia un romanzo, Il Duca di Mantova di Franco Cordelli (Milano, Rizzoli 2004). Una delle intuizioni di questo libro (che sin dal titolo iscrive questa storia italiana all’insegna del melodramma, per lo stile, e appunto della seduzione proterva per il contenuto) è che la fascinazione esercitata da Berlusconi sui suoi elettori-sudditi sia di natura fondamentalmente sessuale: come quella del Duca del titolo, nel Rigoletto verdiano, nei confronti della sventurata Gilda, la figlia del suo deforme buffone. Proprio l’energia inesauribile e polimorfa del Berlusconi machista dongiovanni priapico (in omaggio a una sin troppo ovvia vulgata psicanalitica) farebbe leva, in realtà, su una segreta componente androgina («Con il ritorno del melodramma – italiano, europeo, d’Occidente e d’Oriente, il mondo è stato conquistato dalle donne, siamo tutti donne, le donne riducono donne; anche il Duca lo è, è un travestito; ciò che sommamente di lui ci disturba è la sua ostinazione a non gettare la maschera»: Cordelli, p. 209). Il volto risolutamente glabro, l’ossessione per la capigliatura e in generale per il corpo, la struttura delle pose con le quali ha sempre studiato di proporsi, lo sguardo che rivolge in camera restando, tuttavia, sempre sfuggente, mostrano un Berlusconi che con noi, in effetti, non ha mai smesso di civettare (Belpoliti, p. 62, usa al riguardo una pagina illuminante di Georg Simmel; e cfr. Gibelli, pp. 41-2).

Esemplare la più stupefacente delle ventuno foto collezionate e commentate dal saggio di Belpoliti: Berlusconi vi è ritratto mentre raccoglie l’ovazione dei suoi, a una convention di Forza Italia. Il passo nel quale lo scatto di Giorgio Lotti lo ha immobilizzato – punctum della foto, la postura dei piedi – è quello col quale l’étoile del balletto offre il proprio corpo glorioso all’abbraccio della folla entusiasta. «Un ammiccamento, un gesto di una civetteria inusuale, ma anche un chiaro messaggio di natura sessuale» (pp. 63-4). E del resto lo stesso Berlusconi una volta ha osato dichiarare: «subito dopo la partita dello scudetto del 1988, un tifoso vede la mia macchina, mi riconosce, si pianta davanti al cofano e grida: “Silvioooo, Silvioooo: sei una gran bella figa!” È stato il complimento più bello della mia vita» (p. 77).

L’arcano supremo del potere di Berlusconi consiste insomma nell’assoldare mignotte  facendo a sua volta la mignotta. Il suo tocco di Mida ha il potere di quello di Circe: rende mignotte, cioè porci e troie, tutti coloro che lo incontrano. Ha dichiarato una volta Guzzanti (all’ANSA del 20 novembre 2008): «Mignottocrazia è la corruzione che ottiene potere in cambio di favori. Ci sono anche casi di mignotte per sesso, ma io volevo denunciare quegli uomini che ottengono potere compiacendo il potente: in questo senso, le più grandi mignotte sono uomini, io non volevo fare semplicemente un’allusione sessuale. Speravo che da Berlusconi venisse una rivoluzione liberale, insieme a molti altri intellettuali come Adornato, il povero Colletti, in fondo mignotte anche noi. E ora io sono una mignotta delusa, per restare alla metafora».

Non vale ovviamente solo per quegli «intellettuali» che hanno creduto nella fola della «rivoluzione liberale». Forse solo una «mignotta delusa» – con moto emotivo non troppo diverso da quello, fuori di metafora, di alcune delle escort venute dalle Puglie – poteva riuscire a dire l’indicibile, umiliante verità storica dell’Italia dell’ultimo ventennio. Quella appunto di un’Italia prostituita. Un corpo – carnale, terreno ma anche simbolico, ideale, spirituale – trattato, prezzolato, infine acquistato. Per poi essere tranquillamente consumato. Con l’efficienza indifferente con la quale il tycoon del calcio valuta e infine si accaparra i corpi dei migliori giocatori, l’imprenditore corrompe i giudici più zelanti, l’editore illuminato assume i più intelligenti, i più spregiudicati, i più illusi collaboratori. Per vent’anni ci siamo venduti a quest’uomo. Se non ce ne siamo voluti accorgere, è perché lui ha inventato un trucco semplice e mirabile: quello di vendersi nel momento stesso in cui acquista. Così, mentre ci vendiamo a lui, insieme lo acquistiamo. E lo consumiamo: sotto forma di sia pure discutibili beni, prodotti, servizi. Sogni, soprattutto.

Berlusconi passerà alla storia, certo. Come il primo puttaniere che s’è fatto pagare, e pagare caro, dalle mignotte che ha assoldato.

Add comment

Submit