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Democrazia del tumulto

Francesco Raparelli

In ogni città si trovino questi sua umori diversi; e nasce da questo che il populo desidera non essere comandato ne' oppresso da grandi, e li grandi desiderano comandare e opprimere il populo. "Machiavelli, Principe IX"

Ci rivolgiamo ad un grande italiano – che non si è distinto nella produzione di scarpe ‒ per trovare le parole giuste, per raccontare le passioni politiche di questi giorni felici. Con una certa insistenza, infatti, sono proprio le passioni ad occupare la scena del discorso politico e giornalistico: per il Censis gli italiani hanno perso il desiderio, mentre Diamanti rintraccia negli studenti che si mobilitano un diffuso risentimento.

Proviamo a dirla così: mai come in questi giorni (salvo riferimenti nobili alle gesta degli anni migliori) il desiderio degli italiani è stato tanto creativo. Desiderio di libertà e gioia del tumulto. Indignazione, contro quello che Luciano Ferrari Bravo definì con largo anticipo Stato-mafia o Stato-racket (nefasta espressione politica della crisi della rappresentanza), di certo nessuna mentalità da schiavi, nessun risentimento.

Il risentimento continua ad essere quello di chi “non vuole marocchini a Bergamo”, nulla a che vedere con le lotte radicali e determinate di chi vuole respingere il DDL e, più in generale, vuole riprendersi il futuro. Indubbiamente è il “furto di futuro” ciò che ha reso le proteste così contagiose. Un furto violentissimo (perché di questo si è trattato) che deve cominciare a fare i conti con l'ostilità senza timidezze della generazione precaria. Una generazione che in questi anni ha sviluppato, nell'insistenza delle lotte studentesche, una straordinaria maturità politica, un lessico affilato, pratiche di conflitto incisive. Difficilmente, nelle interviste che si ascoltano in questi giorni, nei Tg o nelle radio, si incontrano parole superficiali o slogan ripetitivi: ognuno sa raccontare la verità che nella lotta sta scoprendo, meglio, sta facendo emergere. Una verità che parla della dismissione dell'università e della scuola pubbliche e della povertà di chi lavora, della corruzione di chi ci governa, compagna fidatissima della violenza del rentier, degli hedge fund e delle banche, chi in questo trentennio si è arricchito senza posa e oggi vuole far pagare al mondo i conti del proprio collasso. Verità sul potere che viene raccontata senza esitazioni, ma anche verità delle lotte: nella piazza, dove si ritrova la voce e il corpo, si rilancia con forza, contro le retoriche del merito, una grande sfida ugualitaria. Una formazione pubblica e di qualità per non essere ricattati, per respingere la precarietà, per rovesciare i rapporti di forza nel mercato del lavoro. E vi pare poco?

Ed è proprio questa determinazione che ha per adesso fermato la furia devastatrice di Gelmini e Tremonti. Un bell'esempio di democrazia del tumulto, dove i conflitti radicali impongono dal basso un ripensamento dell'agenda politica. Rende lieti, dopo un anno di insopportabile esitazione, la schieramento compatto e combattivo delle opposizioni, giustamente rivendicato da Walter Tocci sulle pagine de il manifesto. Ma sarebbe stato possibile tutto questo senza la piazza? Sarebbe stato possibile senza la straordinaria (già epocale) giornata del 30 novembre? Ricordiamolo, perché nel farlo ci ricordiamo l'inutilità di trent'anni di pensiero politico normativo: quasi 10 ore di assedio di Montecitorio, 16 stazioni occupate, quattro svincoli autostradali, decine di città bloccate, 400 mila studenti in piazza in tutta Italia, 50 mila solo a Roma. Siamo stati anni a parlare di sciopero generalizzato, di blocco del paese, forse lo scorso martedì siamo andati nella direzione giusta. Un prototipo di nuova democrazia, nell'epoca della governance e della crisi del capitalismo globale.

Cosa succede ora? Per rispondere a questa domanda è necessario porsi due problemi. In primo luogo, se per un verso è corretto dire we are winning e questa cosa cosa, nella potenza del present continuous, dobbiamo ripeterla e scriverla dappertutto, per l'altro è anche vero che dobbiamo ancora vincere. La data del 14, da questo punto di vista, è decisiva. «Staccare la spina» a questo governo significa bloccare il DDL, significa, per la prima volta, portare a casa un risultato in grado di rilanciare, materialmente, la sfida sull'autoriforma dell'università. Andare oltre il DDL, infatti, vuol dire innanzi tutto fermarlo.

Secondo problema: cosa accade dopo il 14. È evidente che il «governo d'armistizio» che ci attende non sarà un problema di poco conto. Sarà fino in fondo governo della crisi (altro che riforma elettorale!), gestione della macelleria sociale che ci verrà imposta da hedge fund e Fmi. Non è un caso che i più prudenti (Casini) desiderano condividere la responsabilità con il Pd, consapevoli che il consenso raccolto dai conflitti studenteschi di questi giorni (ben chiarito dall'inchiesta di Diamanti) non è fenomeno transitorio o marginale: il paese guarda agli studenti come ad una singolarità, un punto di ebollizione, il passaggio ad una fase nuova, dove perde senso la rassegnazione di sempre. Ancora, il successo del 14 può fare la differenza! Invadere Roma in quel giorno, riempire di gioia e di determinazione le piazze, gridare, come in Argentina, que se vayan todos, ecco, tutto questo può cominciare ad esibire la spinta costituente di un'altra sfiducia, una sfiducia che non vuole chiudere i conti solo con Berlusconi, ma anche con il berlusconismo, una sfiducia che riguarda il DDL Gelmini e il modello Marchionne, il Collegato lavoro e il razzismo di Stato, la privatizzazione dell'acqua e la devastazione ambientale dei territori; affinché la democrazia del tumulto che abbiamo visto all'opera in questi giorni da eccezione si trasformi in processo. Per quanto siamo consapevoli che lo spazio politico garantito al conflitto dall'anti-berlusconismo tenderà a rattrappirsi con un governo di larghe intese, siamo altrettanto consapevoli che c'è una spinta padronale alla modernizzazione (basta leggere Il Sole 24 ore) che non può fermarsi tanto facilmente. Si tratta di una modernizzazione capitalistica (più investimenti su innovazione e ricerca, infrastrutture e mobilità), indubbiamente, ma non necessariamente sarà un movimento lineare. Basta ripensare alle sorti del DDL Gelmini per capire questa cosa: presentato tra gli applausi del Corriere e il silenzio dell'opposizione, il DDL oggi non viene difeso quasi più da nessuno e la maggioranza lo vota strumentalmente, per rispondere a problemi di altra natura. Lo spazio rimane aperto, se con intelligenza e determinazione sapremo evitare che la “porta si chiuda”.

Tornando alle passioni, per finire. Abbiamo scommesso sulla nostra eternità e in effetti ne abbiamo fatto esperienza. Ma le esperienze di questo tipo ci fanno fare i conti con delle forze talmente grandi (quasi come Moby Dick) che non è più possibile tornare indietro. Delle forze che ci ricordano che quanto di più intimo possiamo incontrare nei nostri giorni finiti sta fuori di noi, è la bellezza delle lotte, il coraggio dei corpi, la gloria dei sorrisi. Il cantiere è aperto, il futuro è in costruzione.

Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma, e che considerino più a' romori e alle grida che di tali tumulti nascevano, che a' buoni effetti che quelli partorivano. Machiavelli, Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio I, 4

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